x

x

In tema di diritto di critica e di satira sindacale

In tema di diritto di critica e di satira sindacale
In tema di diritto di critica e di satira sindacale

Abstract: l’autore effettua una rassegna motivata delle più significative sentenze della Cassazione, dagli anni 1990 a tutt’oggi - sul tema in oggetto - dalla quale si desumono i tratti di un corretto esercizio del diritto di critica sindacale, legittimati dal consolidato orientamento della Suprema corte.

 

1. Premessa

Nel rapporto di lavoro subordinato l’attività di critica e di censura delle posizioni della controparte datoriale - esercitata anche tramite la caricatura e la satira - trova la sua fonte giustificatrice (confermativa dell’articolo  21 Costituzione) nell’articolo 1 dello Statuto dei lavoratori, che si dirige indifferentemente al lavoratore singolo come a colui che riveste cariche sindacali introaziendali. L’attivismo che si estrinseca nella critica ad iniziativa sindacale trova poi un’adeguata collocazione nell’ampio solco della “libertà di svolgere attività sindacale” - tramite discrezionali ed imprecisate modalità confermative dell’autonomia sindacale - di cui si occupa l’articolo 14 della legge n. 300/’70. Attivismo che si affianca - in maniera complementare - o confluisce e talora si confonde, con l’attività di propaganda o proselitismo di cui agli artt. 25 e 26 della stessa legge.

2. Il dipendente-rappresentante sindacale in posizione paritetica con il datore di lavoro

Sulla tematica conviene preliminarmente rendere edotto il lettore di una autorevole presa di posizione della Cassazione nella decisione n. 11436 dell’8 novembre 1995, riconfermata sul punto da Cassazione 24 maggio 2001, n. 7091, in ordine alle garanzie libertarie di cui fruisce il dipendente qualora rivesta anche un ruolo sindacale in azienda.

La precitata decisione venne occasionata dalla sanzione disciplinare disposta dall’azienda ad un dipendente con ruolo sindacale che, nell’esercizio del suo mandato, aveva  apostrofato i propri superiori in veste di rappresentanti di controparte, con queste espressioni: “io non ti conosco”, “con gli operai parlo come e quando voglio” e “non Le sono bastati gli scioperi dell’altro giorno? ne faremo altri”, considerate dall’azienda ingiuriose e rivelatrici di insubordinazione. La vertenza giudiziaria si risolse con l’affermazione della Cassazione del principio di diritto secondo cui: «il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale, ha distinti rapporti con il datore di lavoro. Quale lavoratore subordinato è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti; in relazione alla sua attività di rappresentante sindacale si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro che esclude che sia proponibile un qualsiasi vincolo di subordinazione. La sua attività infatti è espressione di una libertà garantita dalla Costituzione, articolo  39, ed in quanto diretta alla tutela di interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro non può essere in qualche modo subordinata alla volontà di quest’ultimo. La contestazione dell’autorità e supremazia del datore di lavoro, mentre costituisce insubordinazione nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, è caratteristica della dialettica sindacale. Non può perciò essere sanzionato disciplinarmente tale comportamento del lavoratore sindacalista, sempreché esso inerisca, come nel caso in esame non è controverso, alla attività di patronato sindacale».

Giudicammo, all’epoca e confermiamo tuttora, che l’affermazione è pienamente condivisibile in quanto si colloca nel filone di rispetto della libertà espressiva, intrinsecamente vivace e colorita, nel corso della contrapposizione sindacale, senza che da essa si possa desumere - tuttavia e correttamente - legittimazione per l’ingiuria o la diffamazione della controparte, che sono limiti immanenti a qualsiasi attività di critica sindacale.

3. Orientamenti giurisprudenziali - recenti e meno recenti - sul tema

3.1. Cassazione 9 febbraio 2017 n. 3484

La più recente decisione afferente al diritto di critica sindacale, non gratuita ma connaturata ad una contrapposizione contrattuale, è ravvisabile in Cassazione 9 febbraio 2017 n. 3484 (Pres. Nobile - Rel. Curcio) - preceduta, con esito conforme, e per le stesse parti in causa, da Cass.  3 luglio 2015, n. 13785 - Pres. Stile - Rel. Berrino - che ha respinto il ricorso della società F.G.A. (Fiat Group Automobiles) avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino che, nel 2013, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento disposto a carico del delegato sindacale di Mirafiori P.C. Quest’ultimo - all’epoca dell’accordo sindacale separato per la fabbrica di Pomigliano d’Arco (da cui si era dissociata la Fiom Cgil) - aveva  «inviato a 44 colleghi, utilizzando l’indirizzo di posta elettronica fornitogli dall’azienda, una mail contenente frasi offensive nei confronti del vertice aziendale Fiat».  Il delegato della Fiom-Cgil di Mirafiori, era stato, pertanto,  licenziato sia per aver utilizzato la posta elettronica aziendale per diffondere un volantino sindacale, sia per il contenuto della comunicazione  indirizzata ai 44 colleghi di Pomigliano, ritenuto dall’azienda  non riconducibile al diritto di critica, perché asseritamente infamante. Le frasi che avevano determinato la reazione dell’azienda parlavano di “ricatti posti in essere da Fiat nei confronti dei lavoratori di Pomigliano”, fra loro divisi sul referendum relativo alle deroghe aziendali al contratto nazionale, dal quale si era dissociata Fiom-Cgil.  La mail del delegato/esperto sindacale Fiom-Cgil di Mirafiori - inviata pochissimi minuti prima della pausa pranzo - esortava i 44 destinatari a contattare gli operai campani e ad essa era stata allegata - a sostegno dell’esigenza di rifuggire da posizioni di cedimento - una mail dei lavoratori della fabbrica polacca della Fiat a Tichy, in cui vi era l’incitamento a «resistere e sabotare l’azienda che ci ha dissanguati per anni e ora ci sputa addosso».

L’attuale Cassazione conferma la correttezza della valutazione operata dalla corte d’appello di Torino che aveva ravvisato illegittimo - in quanto sproporzionato e, pertanto, non rispettoso dell’articolo 2106 codice civile - il provvedimento espulsivo nei confronti di P.C.; la quale, inoltre, aveva ritenuto che l’utilizzo da parte del sindacalista del proprio indirizzo di posta elettronica aziendale per le comunicazioni sindacali fosse stato legittimato, nella fattispecie, da una prassi aziendale (emersa ed attestata documentalmente dalla antecedente sentenza n. 41/2012 della stessa Corte d’Appello riguardante le stesse parti in causa, relativa al giudizio ex articolo  28 legge n. 300/70).

La Cassazione confuta, poi, le critiche aziendali verso la decisione della corte d’appello, incentrate  su un’asserita incompletezza, evidenziando, all’opposto, l’esame approfondito da parte della corte territoriale  da cui era disceso il riscontro che la mail  era stata inviata con poche righe, a soli tre minuti dalla pausa pranzo, ossia in orario pressoché prossimo alla sospensione dell’attività lavorativa, senza pregiudizio, quindi, per essa. Quanto al contenuto della mail, evidenzia come riguardasse la vertenza sindacale relativa allo stabilimento di Pomigliano, che aveva interessato tutti i lavoratori degli stabilimenti Fiat, assumendo rilievo nazionale; e, come anche  era posto in rilievo dalla Corte territoriale, il P.C., pur non rivestendo la carica di RSA, era comunque un esperto sindacale, dunque particolarmente coinvolto nella vertenza di così ampio interesse anche a livello aziendale .

Infine afferma, in adesione al pronunciamento della corte d’appello, che l’invio della mail, oggetto di contestazione, rientrava comunque nel diritto di critica e di libertà sindacale derivatagli dagli artt. 1 e 14, legge n. 300/70 e dall’articolo  21 Costituzione, in quanto rientrante a pieno titolo nell’esercizio del diritto allo svolgimento di attività sindacale, di cui sono titolari tutti i lavoratori indistintamente, anche a prescindere da una specifica carica rappresentativa sindacale. E ciò, sia in ragione del contenuto della mail, sia delle modalità espressive utilizzate, sia della salvaguardia del normale svolgimento dell’attività aziendale. Asserendo - ancora in adesione del pensiero espresso dalla corte d’appello - che per valutare il tenore delle espressioni usate, queste andassero lette, non a se stanti, ma nel contesto della conflittualità aziendale che, in relazione alla vertenza di Pomigliano, aveva raggiunto, notoriamente, toni forti, documentati da molti articoli di stampa nei giorni precedenti.

Pertanto le espressioni usate nella mail  si trovavano in un rapporto di adeguatezza con il contesto conflittuale in atto e, comunque, la stessa  era stata indirizzata ad una ristretta cerchia di destinatari, colleghi di qualifica impiegatizia analoga a quella del sindacalista di Mirafiori, perfettamente in grado di comprendere «la natura figurata del linguaggio utilizzato».

3.2. Cassazione   31 gennaio 2017, n. 2499

L’ attuale decisione 31 gennaio 2017, n. 2499 (Pres. Nobile, Rel. Spena) - emessa pochi giorni prima della recentissima Cassazione n.  3484/2017 (citata in precedenza al punto 3.1.) - risulta originata dal licenziamento disciplinare di un dipendente-dirigente sindacale, a cui l’azienda,  nel dicembre 2012, aveva addebitato di aver «gravemente offeso l’immagine dell’azienda», in quanto aveva pubblicato nella chat del social network “Facebook” denominata “Vaselina day”, un’immagine lesiva del marchio Gucci - della cui divisione faceva parte l’azienda - che raffigurava un coperchio di una scatola di vaselina (con il segno distintivo del gruppo Gucci (la doppia G) ed una caricatura di spalle con il dito medio puntato sul fondoschiena e la scritta “G. Vaselina la trovi nei migliori outlet”.

Impugnato il licenziamento, il Tribunale di Firenze riconduceva il comportamento del sindacalista aziendale nell’alveo del legittimo esercizio del diritto di critica e di satira, effettuato peraltro nel corso delle contrapposizioni dialettiche e negoziali in atto per il rinnovo del contratto integrativo aziendale.

Proposto reclamo da parte aziendale,  la Corte di Appello l’aveva rigettato. Per il Collegio d’appello, infatti, «l’addebito disciplinare rappresentava un pretesto per allontanare disciplinare rappresentava un pretesto per allontanare un lavoratore rientrato da appena un anno in esito al precedente contenzioso, che si era dimostrato, con la partecipazione attiva alla chat, per nulla remissivo alle iniziative datoriali sulla organizzazione dei lavoro, cercando di coinvolgere altri colleghi nella contestazione nella fase di rinnovo degli accordi sindacali aziendali». Asseriva altresì che, data la «banalità del fatto contestato» - consistito nel pubblicare l’immagine di una vignetta satirica «non dissimile dalle rappresentazioni quotidianamente diffuse dai mass media» - era del tutto assente un motivo legittimo di licenziamento. Inoltre il disegno caricaturale aveva ricevuto una diffusione limitata ai dieci colleghi della chat,  mentre l’accesso dall’esterno restava del tutto eventuale. E comunque non risultava che la vignetta avesse avuto diffusione sul web né che potesse avere qualche interesse per la platea degli acquirenti del marchio Gucci.

La società ricorreva in Cassazione adducendo che non poteva invocarsi il diritto di critica - diritto che per essere legittimo avrebbe dovuto essere  rivolto nei confronti di scelte organizzative del datore di lavoro - mentre l’immagine pubblicata era gratuitamente lesiva del decoro del datore di lavoro. Inoltre, secondo l’azienda ricorrente, la sentenza d’appello non forniva alcuna giustificazione dell’ asserita banalità del fatto, ed aveva trascurato di valutare la grave lesione dell’immagine del gruppo G. realizzata con la denigrazione del marchio, gravemente pregiudizievole degli interessi del datore di lavoro. La natura ritorsiva del licenziamento era esclusa, poi, dalla fondatezza dell’addebito disciplinare contestato, rispetto al quale il licenziamento era sanzione del tutto proporzionata.

La Cassazione confermava, invece, la sentenza d’appello favorevole al lavoratore con ruolo sindacale, dichiarandola esente da vizi di motivazione.

3.3. Cassazione 5 luglio 2002, n. 9743

In precedenza, sul tema in esame si colloca Cassazione 5 luglio 2002, n. 9743,  la cui vicenda  che l’ha occasionata si desume implicitamente dalla seguente  motivazione che ne costituisce la massima: «In tema di licenziamento per giusta causa di lavoratore sindacalista, il giudice del merito, nel valutare se le espressioni usate dal lavoratore in un contesto di conflittualità aziendale oltrepassino i limiti di un corretto esercizio delle libertà sindacali - e quindi siano lesive del rapporto di fiducia con il datore di lavoro - deve accertare se le stesse non costituiscano la forma di comunicazione ritenuta più efficace ed adeguata dal sindacalista in relazione alla propria posizione in quel contesto; in tal caso infatti le suddette espressioni non si prestano, in quanto manifestazione di una lata responsabilità politico-sindacale, ad esser valutate con il parametro dell’inadempimento nei confronti del datore di lavoro dovuto a lesione dell’altrui sfera giuridica nell’esercizio di un diritto di rilevanza costituzionale (nella specie, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato ad un sindacalista che, nel comunicato di convocazione di un’assemblea, aveva accusato i rappresentanti del datore di lavoro ed altri colleghi sindacalisti di essersi appropriati di emolumenti spettanti ai lavoratori)».

La situazione di fatto è così riassumibile.  Il Signor E. Q., dipendente della società Sidim S.r.l.  con mansioni di facchino, riveste all’interno della stessa anche il ruolo di rappresentate sindacale dei Cobas. Quest’ultimo veniva licenziato in tronco a causa dell’affissione in sala mensa di un comunicato di convocazione di un’assemblea sindacale, da lui redatto, nel quale veniva letteralmente scritto: «lavoratori quest’assemblea sarà contestata da V.,F.,T.,M., perché si dividono i soldi di 13esima, 14esima, ferie, pir, che fregano agli extra». Va chiarito che i designati con le sole iniziali individuano i tre rappresentanti dei sindacati delle storiche Confederazioni Cgil-Cisl-Uil  ed il rappresentante del datore di lavoro, supposti in ipotetico “rapporto collusivo” per l’eccessiva accondiscendenza (o non resistenza) dei rappresentanti delle Confederazioni storiche al conferimento da parte dell’azienda di lavoro in appalto (cd. esternalizzazione o outsourcing), effettuato assegnando a cooperativa esterna lavori che il sindacalista dei Cobas riteneva  disimpegnabili dai dipendenti in organico (sottoposti, per effetto dell’appalto, a procedura di riduzione di personale); talché il ricorso all’esterno era visto quale mera misura di risparmio (e di depotenziamento d’organico) per realizzare una concomitante contrazione del costo del lavoro a danno degli esterni (cd. “extra”, una sorta di “senza diritti”, non destinatari delle competenze differite spettanti ai lavoratori dell’azienda, da cui l’addebito figurato estrinsecatesi nella locuzione «….si dividono i soldi…che fregano agli extra»).

Il licenziamento, impugnato innanzi al Pretore di Roma, viene dichiarato illegittimo e conseguentemente è disposta la reintegrazione del ricorrente. Successivamente il giudice d’appello riforma la sentenza di primo grado. Questi, infatti, ritiene che nel caso di specie le affermazioni del lavoratore sindacalista che attribuiscono ai rappresentanti del datore di lavoro e ad altri colleghi sindacalisti un fatto particolarmente infamante (l’appropriazione di emolumenti spettanti ad altri lavoratori), possano costituire una giusta causa di recesso, non rientrando un tale comportamento nel concetto di attività sindacale, né nel contesto di quel diritto di critica esercitabile senza (legittimo) pregiudizio del diritto altrui di pari rilevanza costituzionale. È anzi lo stesso giudice del gravame a definire il licenziamento per giusta causa «l’unica misura idonea e congrua» per tutelare l’interesse del datore di lavoro, avendo evidentemente accertato la lesione del vincolo fiduciario. Da rilevare come, nelle more del ricorso per Cassazione, anche il giudice penale si sia espresso sulla condotta del Signor E.Q., condannandolo per diffamazione. La relativa sentenza però, non è stata ammessa agli atti del ricorso da parte della Suprema Corte, ai sensi dell’articolo 372 codice penale.

La Cassazione non si mostra concorde con il giudice di gravame, contestandogli di non aver “contestualizzato” il comportamento incriminato e di essere arrivato alla conclusione di un comportamento illegittimo senza aver prima verificato se concorressero le seguenti condizioni legittimanti consistenti:

1) nell’accertare la finalizzazione del comportamento assunto in relazione al contesto in cui sono state espresse le affermazioni;

2) nel verificare che l’attività del sindacalista fosse sostanzialmente tale e non solo formalmente (e quindi fuori dall’ambito di tutela delle attività sindacali);

3) nel ricordare che ciascun esponente sindacale: «...può prescegliere, nell’ambito della sua responsabilità, la forma di comunicazione ritenuta adatta a far comprendere le posizioni da esso assunte in relazione a determinate vicende aziendali, non diversamente da quando avviene nella sfera lata della politica»;

4) nel verificare se il lavoratore sindacalista, a cui deve essere consentito di adottare un linguaggio non “corretto” - se da questi ritenuto idoneo e funzionale a far recepire al proprio auditorio il tipo di valutazioni da lui assunte relativamente alle vicende che interessano i lavoratori - abbia operato tale scelta in base alla presenza di una reale e concreta finalizzazione dell’attività espletata all’esercizio di diritti sindacali per la tutela degli interessi dei lavoratori.

«Alla luce di questi principi - conclude la Corte di Cassazione - il Tribunale avrebbe dovuto individuare le connotazioni peculiari del comportamento per accertare: se esso era una forma di comunicazione prescelta dal lavoratore sindacalista perché ritenuta la più efficace per far comprendere ai lavoratori che quanto stava avvenendo (depotenziamento degli organici stabili con lo sfruttamento di lavoratori precari) era l’effetto di una collusione imprenditore-sindacato “storico”, o piuttosto l’attribuzione di ipotesi criminose fatta, disinvoltamente, al solo fine di proporsi come l’unica organizzazione sindacale capace di tutelare efficacemente i lavoratori aggredendo, a tal fine, l’altrui sfera giuridica. Solo ove l’accertamento avesse dato questo risultato, il comportamento, non più appartenente all’attività sindacate ma diretto solo a conferire potere individuale a chi la stessa esercita, poteva esser valutato per la sua eventuale idoneità a ledere irreparabilmente il rapporto fiduciario. Il Tribunale - dice la Cassazione - ha del tutto omesso questo esame imboccando, decisamente ed immediatamente, la via del comportamento sindacale debordante, sino a tal punto da far emergere un lavoratore non in grado di permanere in una qualsiasi organizzazione produttiva: esso ha supposto, come si è detto, monovalente il comportamento del lavoratore sindacalista e non si é per niente posto il problema della polivalenza del comportamento e quello specifico del rapporto di adeguatezza fra contesto conflittuale ed uso del linguaggio nello stesso da parte del sindacalista; valutando il comportamento dello stesso esclusivamente alla stregua del parametro di un inadempimento ai propri obblighi di lavoratore».

La Cassazione (cassando il Tribunale) rileva a chiare lettere la necessità di “contestualizzare” le condotte criticate, sia relativamente al ruolo rivestito dal soggetto agente (facchino), sia relativamente all’uditorio, sia relativamente allo scopo o occasione per la quale l’assemblea era stata indetta, riassumibile nell’intento di denunciare l’esistenza di una linea imprenditoriale - suppostamene avallata dalle organizzazioni sindacali storiche - fondata proprio sullo sfruttamento dei lavoratori esterni, che, giustappunto in quanto utilizzati in maniera precaria,  facevano sì che virtualmente coloro che avevano deciso ed avallato questa scelta di esternalizzazione “si appropriavano” (termine improprio e figurato oltreché grossolano, ma ritenuto adeguato al livello dello scontro in atto), non attribuendole ai precari, di somme  che in base ad una stabile assunzione sarebbero state invece corrisposte loro (per 13.ma, 14.ma, permessi sindacali retribuiti).

Secondo taluno la Cassazione - nel riconfermare i limiti esterni ed interni al diritto di critica (finalizzazione alla contrapposizione dialettica non gratuita, veridicità ed obbiettività degli addebiti, continenza, (cioè correttezza, formale e sostanziale) - avrebbe derogato - troppo benevolmente a favore del sindacalista facchino - al limite della “continenza formale”, autorizzando l’uso di espressioni  eccessivamente pesanti e tipizzate in un linguaggio grossolano ed, in un certo senso, infamante.

Una volta chiarito il carattere “figurato” e “virtuale” degli addebiti, siamo portati, invece a ritenere equilibrata la decisione in questione, la quale ha stabilito il principio per cui - nell’esame di un caso concreto - non si possa prescindere né dalle modalità espressive tipiche della condizione sociale e della qualifica di appartenenza del sindacalista-dipendente né dall’uditorio cui sono dirette e sul quale sono finalizzate ad essere percepite più persuasivamente, quantunque non possiedano connotazioni intuitivamente realistiche.

3.4. Cassazione 24 maggio 2001, n. 7091 seguita da Cassazione 21 settembre 2005, n. 18570  

In precedenza, altre decisioni della Suprema corte meritano di essere riferite - sia pure, per intuitive ragioni di spazio e di sintesi - in sola massima.

Tra queste si ricorda l’anteriore Cassazione  24 maggio 2001, n. 7091, la cui massima asserì il seguente principio: «L’esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale, del diritto di critica delle decisioni aziendali (manifestata, nella specie, attraverso la diffusione di alcuni volantini all’esterno dell’azienda), sebbene sia garantito dagli articolo 21 e 39 Costituzione , incontra i limiti della correttezza (cd. continenza) formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (articolo  2 Costituzione ), di tutela della persona umana, anche quando la critica venga espressa nella forma della satira, che pur implicando intrinsecamente l’utilizzo di un linguaggio colorito ed il ricorso ad immagini forti, esagerate, caricaturali e paradossali - per finalità dissacranti - non può essere sganciata da qualsiasi limite di forma espositiva; ne consegue che, ove tali limiti siano superati, con l’attribuzione all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione».

Il fatto che determinò la decisione sopra citata fu il seguente: L.G. ed altri due dipendenti della S.p.A. Italcementi, in occasione della presentazione pubblica del nuovo logo aziendale, diffusero due volantini, in uno dei quali il nuovo simbolo veniva paragonato ad un «mollusco fossile tipico del mesozoico» e la Italcementi veniva definita un «vortice che continua a risucchiare il personale», mentre nell’altro si faceva riferimento ad un «manager italiano di mezza età», asseritamente bisognoso di cure psicoanalitiche e alla di lui madre, definita donna di facili costumi.

Essi vennero licenziati con l’addebito di avere gravemente leso l’immagine dell’azienda e di avere pesantemente offeso l’amministratore delegato della Italcementi identificabile nel “manager di mezza età” menzionato in uno dei due volantini, licenziamento annullato dal Pretore e dal Tribunale di Bergamo.

La Cassazione, in riforma, accolse parzialmente il ricorso della Italcementi  in quanto ritenne che il Tribunale non avesse adeguatamente motivato il suo convincimento della inoffensività delle espressioni usate nel volantino concernente l’amministratore delegato. In particolare la Corte ebbe a ritenere che la sentenza di appello fosse contraddittoria laddove da un lato riconosceva che nel riferimento al “manager italiano di mezza età, con una calvizie incipiente”, doveva essere pacificamente riconosciuto l’amministratore delegato della Italcementi, e dall’altro lato rilevava che “l’esame del testo, nell’indignare il lettore per la volgarità largamente usata dai redattori, tuttavia consente, a colui che non risulta prevenuto, di escludere con serenità il riferimento a persone fisiche reali”. La Corte ritenne, altresì, che il Tribunale, avesse erroneamente omesso di valutare gli effetti offensivi derivanti sia dall’accostamento dell’amministratore ad un soggetto psicopatico, sia dall’accostamento della madre dell’imprenditore psicoanalizzato ad una donna di facili costumi. La causa venne rinviata, quindi,  per un nuovo esame, alla Corte d’Appello di Brescia, occasionando, infine, la nuova decisione di Cassazione 21 settembre 2005, n. 18570 (Pres. Mattone - Rel. Di Cerbo), che giunse a condividere le “acrobatiche” considerazioni della Corte d’appello di Brescia, così riassunte dalla Cassazione: «Con riferimento al vizio di motivazione rilevato dalla sentenza rescindente con riferimento alla valutazione dell’efficacia offensiva dell’espressione “simbolo del c...” (usato per definire il nuovo logo aziendale in forma di spirale) e della frase nel quale essa era inserita ...come pure alla valutazione dell’esistenza, o meno, di effetti offensivi derivanti sia dall’accostamento, dunque fatto e riconosciuto dal tribunale, dell’amministratore o comunque della dirigenza del gruppo ad un soggetto psicopatico, sia dall’accostamento della madre dell’imprenditore psicoanalizzato ad una donna di facili costumi..., la sentenza impugnata, premesso che il termine volgare, peraltro non esplicitato, ma lasciato all’intuizione del lettore attraverso i puntini di sospensione, è ormai usato diffusamente, anche in programmi televisivi e sui giornali, osserva che nel contesto in esame esso è usato in un significato traslato, diretto ad indicare le scarse qualità di un determinato oggetto. Ha escluso pertanto che il termine suddetto e la frase che lo contiene, tenuto conto del carattere satirico dello scritto in cui la stessa è inserita, abbiano una reale capacità offensiva o lesiva della dignità o dell’immagine della società, del suo legale rappresentante o dei suoi vertici. Per quanto riguarda l’accostamento del manager ad un soggetto psicopatico la sentenza impugnata ha ritenuto in particolare che le condotte e le vicende riportate nella narrazione del volantino sono palesemente finalizzate ad esprimere simboli e non fatti che possano essere considerati reali e comunque non sono tali da suscitare sentimenti di ripugnanza, disprezzo o dileggio. In sostanza, sulla corretta premessa che, trattandosi di un unico testo di natura satirica, non è consentito estrapolare singole espressioni dal contesto limitandosi ad evidenziarne il significato letterale, la Corte di merito ha concluso affermando che gli autori del volantino sono rimasti ampiamente nell’ambito di un lecito diritto di critica, sia pure severa, delle scelte di politica aziendale. Tale conclusione è adeguatamente e logicamente motivata. In particolare la Corte di merito ha osservato che le “ossessioni” non sono rappresentate come manifestazioni dì follia, ma sono giustificate da una situazione preoccupante, il manager non è descritto come delirante, atteso che le parole “in libertà” sono pronunciate per assecondare una richiesta del terapeuta, la relazione extraconiugale è delineata in modo da poter identificare la vicenda attraverso la nazionalità francese del partner, la natura omosessuale di tale relazione, espressa in modo implicito, è strumentale per sottolineare la “buggeratura” subita a seguito dell’accordo col nuovo partner industriale; l’identificazione della spirale/chiocciola con un simbolo fallico è satirica ma non è in sé volgare né suggerisce alcuna volgarità. Per quanto riguarda infine il riferimento alla madre, la Corte di merito ha osservato che, una volta ritenuto che il riferimento al manager non identifichi alcuna persona fisica, neanche il riferimento alla madre possiede idoneità identificativa. Ciò senza considerare, fra l’altro, la circostanza che l’intera frase è inserita nella citazione “letteraria” di un vecchio fìlm il che la rende ancor più palesemente estranea ad una volontà valutativa.

Ad avviso del Collegio anche la suddetta motivazione resiste alle critiche mosse dalle odierne ricorrenti, le quali si risolvono ancora una volta nel tentativo di riproporre valutazioni di fatto, escluse in questa sede di legittimità. In particolare la sentenza del giudice di rinvio ha correttamente applicato i principi fissati dalla sentenza rescindente. In particolare essa, nell’escludere il carattere offensivo delle espressioni usate nel volantino e nell’escludere altresì la diretta riferibilità delle stesse a persone specificamente individuabili, è pienamente rispettosa del principio secondo cui, anche nel caso in cui, come nella specie, il diritto di critica sia esercitato a mezzo della satira, questa non può recare pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è oggetto. La stessa sentenza ha inoltre correttamente tenuto conto dell’ulteriore principio espresso dalla sentenza rescindente secondo cui l’esistenza del pregiudizio deve essere verificata alla luce e nel contesto del linguaggio usato dalla satira il quale è essenzialmente simbolico e paradossale».

3.5. Cassazione 16 maggio 1998, n. 4952

Ancora in precedenza si ricorda - sempre in tema di limiti al diritto di critica sindacale - Cassazione 16 maggio 1998, n. 4952, la cui massima espresse i seguenti principi di diritto: «L’esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale aziendale, del diritto di critica (manifestata nella specie attraverso articoli ed interviste su quotidiani, addebitanti a carico dell’ intera dirigenza Fincantieri di aver favorito l’infiltrazione, nei lavori di appalto e subappalto, di ditte irregolari o legati a personaggi in odore di mafia) nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall’articolo 2105 c.c., e può costituire giusta causa di licenziamento».

Il fatto che originò  la vicenda è così riassumibile.

G. B. dipendente della S.p.A. Fincantieri, sindacalista, venne licenziato nel novembre del 1990 per avere accusato la dirigenza della società - in una serie di articoli e interviste pubblicati tra il luglio 1989 e l’ottobre 1990 sui quotidiani L’Ora, La Sicilia, Il Manifesto oltreché sul giornale Dopolavoro Notizie - di avere favorito, con il sempre più massiccio ricorso a lavori di appalto e subappalto, l’infiltrazione di imprese irregolari o legate a personaggi in odore di mafia, traendone un tornaconto in termini di riduzione dei costi aziendali; tornaconto indiretto perché tali imprese assicuravano una bassa conflittualità e prezzi competitivi, senza curarsi dei pesanti costi umani e sociali derivanti dal dilagare del lavoro nero e dall’arretramento dei livelli di sicurezza sul posto di lavoro. In questa strategia, secondo G.B., si era inserito anche un uso distorto della cassa integrazione per dare spazio al sistema di appalti e subappalti, ma anche «per colpire e neutralizzare quei dipendenti che si ostinavano a non abbassare la testa dinanzi all’irresponsabile arroganza aziendale». Il Pretore di Palermo annullò il licenziamento in quanto ritenne che il lavoratore avesse esercitato correttamente il diritto di critica e di polemica sindacale. Il Tribunale di Palermo accolse l’appello dell’azienda e riformò integralmente la sentenza di primo grado, affermando che il diritto di critica, da riconoscersi nella sua interezza ai dipendenti impegnati nel sindacato, non può violare l’obbligo di fedeltà del dipendente verso il datore di lavoro, previsto dall’articolo 2105 codice civile e deve rispettare i limiti posti dalla esigenza di tutela dell’onore e della reputazione altrui. G.B. fu condannato anche in sede penale, dal Tribunale di Catania, per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa.

La Suprema Corte  rigettò il ricorso del lavoratore, ricordando la sua costante giurisprudenza secondo cui l’esercizio del diritto di critica deve essere improntato a “leale chiarezza”, il che non si verifica allorquando si ricorra “al sottinteso sapiente”, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, specie nei titoli di articoli e pubblicazioni, o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, nonché alle vere e proprie insinuazioni.

La Cassazione, nella citata sentenza, ebbe a rilevare che secondo gli accertamenti svolti dal Tribunale di Palermo molti dei fatti denunziati da G.B. erano  risultati non veri: in particolare l’indagine affidata alla locale Prefettura aveva accertato che tutte le ditte che operavano nella provincia di Palermo, e che avevano intrattenuto rapporti di appalto o subappalto con la Fincantieri, non avevano mai subito provvedimenti interdittivi o sanzioni ai sensi della legislazione antimafia. La Corte affermò, quindi, che l’obbligo di fedeltà, la cui violazione può rilevare come giusta causa di licenziamento, si sostanzia, per il lavoratore, nel dovere di tenere nei confronti del datore di lavoro un comportamento leale e va collegato con le regole di correttezza e buona fede previste dagli articoli 1175 e 1375 codice civile: il lavoratore, pertanto deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’articolo  2105 codice civile (trattazione di affari in concorrenza con il datore di lavoro, uso o divulgazione di informazioni riservate) ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto. «E’ suscettibile di violare il disposto dell’articolo  2105 codice civile - concluse la Corte - anche l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica, che superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traduca in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datrice di lavoro, suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro».

3.6. Cassazione 22 agosto 1997, n. 7884

Nella giurisprudenza della Suprema corte merita altresì di essere citata  Cassazione 22 agosto 1997, n. 7884, ove la Cassazione, in sede civile - riprendendo i criteri delineati dalla precedente Cassazione n. 1173/1986, e riscontrando la carenza di veridicità dei fatti addebitati - asserì: «pur non potendosi dubitare del fatto che al lavoratore subordinato debba essere garantito un diritto di critica, anche aspra, nei confronti del suo datore di lavoro - soprattutto quando trattasi di un sindacalista che si esprime, come in fattispecie, sulla funzionalità di un pubblico servizio - tuttavia non può ammettersi che il medesimo lavoratore, senza addurre e comprovare fatti oggettivamente certi, leda sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro». In conseguenza del principio suddetto venne giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa di un sindacalista che in una intervista televisiva ad una emittente locale aveva gettato discredito nei confronti della società datrice di lavoro «giacché, oltre ad esaltare le qualità imprenditoriali dell’impresa che nel comprensorio comunale aveva in precedenza gestito il servizio di sgombero rifiuti, aveva accusato la datrice di lavoro di avere abusivamente smaltito nelle discariche comunali i rifiuti speciali ospedalieri, circostanza che non poteva invece essere imputato alla società, dal momento che dalla documentazione in atti si ricavava che era stato il Sindaco, con apposita delibera, a disporre lo smaltimento in questione sotto il controllo del servizio di igiene e sanità pubblica».

A conclusione di questa rassegna va evidenziato come la giurisprudenza abbia sempre conferito al diritto di critica una prevalenza rispetto ai valori personali sui quali esso si indirizza. E ciò secondo un condivisibile intento di salvaguardia della libertà di espressione che tollera - in un paese democratico - limitate e caute compressioni. Equilibratamente la magistratura ha comunque fornito criteri idonei a consentire la definizione - caso per caso ed oculatamente - della soglia oltre la quale  l’esercizio del diritto di critica sconfina ed incorre nel vizio della diffamazione, ex articolo  595 codice penale, legittimando da parte degli offesi la reazione della querela ex articolo 120 codice penale.

Abstract: l’autore effettua una rassegna motivata delle più significative sentenze della Cassazione, dagli anni 1990 a tutt’oggi - sul tema in oggetto - dalla quale si desumono i tratti di un corretto esercizio del diritto di critica sindacale, legittimati dal consolidato orientamento della Suprema corte.

 

1. Premessa

Nel rapporto di lavoro subordinato l’attività di critica e di censura delle posizioni della controparte datoriale - esercitata anche tramite la caricatura e la satira - trova la sua fonte giustificatrice (confermativa dell’articolo  21 Costituzione) nell’articolo 1 dello Statuto dei lavoratori, che si dirige indifferentemente al lavoratore singolo come a colui che riveste cariche sindacali introaziendali. L’attivismo che si estrinseca nella critica ad iniziativa sindacale trova poi un’adeguata collocazione nell’ampio solco della “libertà di svolgere attività sindacale” - tramite discrezionali ed imprecisate modalità confermative dell’autonomia sindacale - di cui si occupa l’articolo 14 della legge n. 300/’70. Attivismo che si affianca - in maniera complementare - o confluisce e talora si confonde, con l’attività di propaganda o proselitismo di cui agli artt. 25 e 26 della stessa legge.

2. Il dipendente-rappresentante sindacale in posizione paritetica con il datore di lavoro

Sulla tematica conviene preliminarmente rendere edotto il lettore di una autorevole presa di posizione della Cassazione nella decisione n. 11436 dell’8 novembre 1995, riconfermata sul punto da Cassazione 24 maggio 2001, n. 7091, in ordine alle garanzie libertarie di cui fruisce il dipendente qualora rivesta anche un ruolo sindacale in azienda.

La precitata decisione venne occasionata dalla sanzione disciplinare disposta dall’azienda ad un dipendente con ruolo sindacale che, nell’esercizio del suo mandato, aveva  apostrofato i propri superiori in veste di rappresentanti di controparte, con queste espressioni: “io non ti conosco”, “con gli operai parlo come e quando voglio” e “non Le sono bastati gli scioperi dell’altro giorno? ne faremo altri”, considerate dall’azienda ingiuriose e rivelatrici di insubordinazione. La vertenza giudiziaria si risolse con l’affermazione della Cassazione del principio di diritto secondo cui: «il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale, ha distinti rapporti con il datore di lavoro. Quale lavoratore subordinato è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti; in relazione alla sua attività di rappresentante sindacale si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro che esclude che sia proponibile un qualsiasi vincolo di subordinazione. La sua attività infatti è espressione di una libertà garantita dalla Costituzione, articolo  39, ed in quanto diretta alla tutela di interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro non può essere in qualche modo subordinata alla volontà di quest’ultimo. La contestazione dell’autorità e supremazia del datore di lavoro, mentre costituisce insubordinazione nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, è caratteristica della dialettica sindacale. Non può perciò essere sanzionato disciplinarmente tale comportamento del lavoratore sindacalista, sempreché esso inerisca, come nel caso in esame non è controverso, alla attività di patronato sindacale».

Giudicammo, all’epoca e confermiamo tuttora, che l’affermazione è pienamente condivisibile in quanto si colloca nel filone di rispetto della libertà espressiva, intrinsecamente vivace e colorita, nel corso della contrapposizione sindacale, senza che da essa si possa desumere - tuttavia e correttamente - legittimazione per l’ingiuria o la diffamazione della controparte, che sono limiti immanenti a qualsiasi attività di critica sindacale.

3. Orientamenti giurisprudenziali - recenti e meno recenti - sul tema

3.1. Cassazione 9 febbraio 2017 n. 3484

La più recente decisione afferente al diritto di critica sindacale, non gratuita ma connaturata ad una contrapposizione contrattuale, è ravvisabile in Cassazione 9 febbraio 2017 n. 3484 (Pres. Nobile - Rel. Curcio) - preceduta, con esito conforme, e per le stesse parti in causa, da Cass.  3 luglio 2015, n. 13785 - Pres. Stile - Rel. Berrino - che ha respinto il ricorso della società F.G.A. (Fiat Group Automobiles) avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino che, nel 2013, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento disposto a carico del delegato sindacale di Mirafiori P.C. Quest’ultimo - all’epoca dell’accordo sindacale separato per la fabbrica di Pomigliano d’Arco (da cui si era dissociata la Fiom Cgil) - aveva  «inviato a 44 colleghi, utilizzando l’indirizzo di posta elettronica fornitogli dall’azienda, una mail contenente frasi offensive nei confronti del vertice aziendale Fiat».  Il delegato della Fiom-Cgil di Mirafiori, era stato, pertanto,  licenziato sia per aver utilizzato la posta elettronica aziendale per diffondere un volantino sindacale, sia per il contenuto della comunicazione  indirizzata ai 44 colleghi di Pomigliano, ritenuto dall’azienda  non riconducibile al diritto di critica, perché asseritamente infamante. Le frasi che avevano determinato la reazione dell’azienda parlavano di “ricatti posti in essere da Fiat nei confronti dei lavoratori di Pomigliano”, fra loro divisi sul referendum relativo alle deroghe aziendali al contratto nazionale, dal quale si era dissociata Fiom-Cgil.  La mail del delegato/esperto sindacale Fiom-Cgil di Mirafiori - inviata pochissimi minuti prima della pausa pranzo - esortava i 44 destinatari a contattare gli operai campani e ad essa era stata allegata - a sostegno dell’esigenza di rifuggire da posizioni di cedimento - una mail dei lavoratori della fabbrica polacca della Fiat a Tichy, in cui vi era l’incitamento a «resistere e sabotare l’azienda che ci ha dissanguati per anni e ora ci sputa addosso».

L’attuale Cassazione conferma la correttezza della valutazione operata dalla corte d’appello di Torino che aveva ravvisato illegittimo - in quanto sproporzionato e, pertanto, non rispettoso dell’articolo 2106 codice civile - il provvedimento espulsivo nei confronti di P.C.; la quale, inoltre, aveva ritenuto che l’utilizzo da parte del sindacalista del proprio indirizzo di posta elettronica aziendale per le comunicazioni sindacali fosse stato legittimato, nella fattispecie, da una prassi aziendale (emersa ed attestata documentalmente dalla antecedente sentenza n. 41/2012 della stessa Corte d’Appello riguardante le stesse parti in causa, relativa al giudizio ex articolo  28 legge n. 300/70).

La Cassazione confuta, poi, le critiche aziendali verso la decisione della corte d’appello, incentrate  su un’asserita incompletezza, evidenziando, all’opposto, l’esame approfondito da parte della corte territoriale  da cui era disceso il riscontro che la mail  era stata inviata con poche righe, a soli tre minuti dalla pausa pranzo, ossia in orario pressoché prossimo alla sospensione dell’attività lavorativa, senza pregiudizio, quindi, per essa. Quanto al contenuto della mail, evidenzia come riguardasse la vertenza sindacale relativa allo stabilimento di Pomigliano, che aveva interessato tutti i lavoratori degli stabilimenti Fiat, assumendo rilievo nazionale; e, come anche  era posto in rilievo dalla Corte territoriale, il P.C., pur non rivestendo la carica di RSA, era comunque un esperto sindacale, dunque particolarmente coinvolto nella vertenza di così ampio interesse anche a livello aziendale .

Infine afferma, in adesione al pronunciamento della corte d’appello, che l’invio della mail, oggetto di contestazione, rientrava comunque nel diritto di critica e di libertà sindacale derivatagli dagli artt. 1 e 14, legge n. 300/70 e dall’articolo  21 Costituzione, in quanto rientrante a pieno titolo nell’esercizio del diritto allo svolgimento di attività sindacale, di cui sono titolari tutti i lavoratori indistintamente, anche a prescindere da una specifica carica rappresentativa sindacale. E ciò, sia in ragione del contenuto della mail, sia delle modalità espressive utilizzate, sia della salvaguardia del normale svolgimento dell’attività aziendale. Asserendo - ancora in adesione del pensiero espresso dalla corte d’appello - che per valutare il tenore delle espressioni usate, queste andassero lette, non a se stanti, ma nel contesto della conflittualità aziendale che, in relazione alla vertenza di Pomigliano, aveva raggiunto, notoriamente, toni forti, documentati da molti articoli di stampa nei giorni precedenti.

Pertanto le espressioni usate nella mail  si trovavano in un rapporto di adeguatezza con il contesto conflittuale in atto e, comunque, la stessa  era stata indirizzata ad una ristretta cerchia di destinatari, colleghi di qualifica impiegatizia analoga a quella del sindacalista di Mirafiori, perfettamente in grado di comprendere «la natura figurata del linguaggio utilizzato».

3.2. Cassazione   31 gennaio 2017, n. 2499

L’ attuale decisione 31 gennaio 2017, n. 2499 (Pres. Nobile, Rel. Spena) - emessa pochi giorni prima della recentissima Cassazione n.  3484/2017 (citata in precedenza al punto 3.1.) - risulta originata dal licenziamento disciplinare di un dipendente-dirigente sindacale, a cui l’azienda,  nel dicembre 2012, aveva addebitato di aver «gravemente offeso l’immagine dell’azienda», in quanto aveva pubblicato nella chat del social network “Facebook” denominata “Vaselina day”, un’immagine lesiva del marchio Gucci - della cui divisione faceva parte l’azienda - che raffigurava un coperchio di una scatola di vaselina (con il segno distintivo del gruppo Gucci (la doppia G) ed una caricatura di spalle con il dito medio puntato sul fondoschiena e la scritta “G. Vaselina la trovi nei migliori outlet”.

Impugnato il licenziamento, il Tribunale di Firenze riconduceva il comportamento del sindacalista aziendale nell’alveo del legittimo esercizio del diritto di critica e di satira, effettuato peraltro nel corso delle contrapposizioni dialettiche e negoziali in atto per il rinnovo del contratto integrativo aziendale.

Proposto reclamo da parte aziendale,  la Corte di Appello l’aveva rigettato. Per il Collegio d’appello, infatti, «l’addebito disciplinare rappresentava un pretesto per allontanare disciplinare rappresentava un pretesto per allontanare un lavoratore rientrato da appena un anno in esito al precedente contenzioso, che si era dimostrato, con la partecipazione attiva alla chat, per nulla remissivo alle iniziative datoriali sulla organizzazione dei lavoro, cercando di coinvolgere altri colleghi nella contestazione nella fase di rinnovo degli accordi sindacali aziendali». Asseriva altresì che, data la «banalità del fatto contestato» - consistito nel pubblicare l’immagine di una vignetta satirica «non dissimile dalle rappresentazioni quotidianamente diffuse dai mass media» - era del tutto assente un motivo legittimo di licenziamento. Inoltre il disegno caricaturale aveva ricevuto una diffusione limitata ai dieci colleghi della chat,  mentre l’accesso dall’esterno restava del tutto eventuale. E comunque non risultava che la vignetta avesse avuto diffusione sul web né che potesse avere qualche interesse per la platea degli acquirenti del marchio Gucci.

La società ricorreva in Cassazione adducendo che non poteva invocarsi il diritto di critica - diritto che per essere legittimo avrebbe dovuto essere  rivolto nei confronti di scelte organizzative del datore di lavoro - mentre l’immagine pubblicata era gratuitamente lesiva del decoro del datore di lavoro. Inoltre, secondo l’azienda ricorrente, la sentenza d’appello non forniva alcuna giustificazione dell’ asserita banalità del fatto, ed aveva trascurato di valutare la grave lesione dell’immagine del gruppo G. realizzata con la denigrazione del marchio, gravemente pregiudizievole degli interessi del datore di lavoro. La natura ritorsiva del licenziamento era esclusa, poi, dalla fondatezza dell’addebito disciplinare contestato, rispetto al quale il licenziamento era sanzione del tutto proporzionata.

La Cassazione confermava, invece, la sentenza d’appello favorevole al lavoratore con ruolo sindacale, dichiarandola esente da vizi di motivazione.

3.3. Cassazione 5 luglio 2002, n. 9743

In precedenza, sul tema in esame si colloca Cassazione 5 luglio 2002, n. 9743,  la cui vicenda  che l’ha occasionata si desume implicitamente dalla seguente  motivazione che ne costituisce la massima: «In tema di licenziamento per giusta causa di lavoratore sindacalista, il giudice del merito, nel valutare se le espressioni usate dal lavoratore in un contesto di conflittualità aziendale oltrepassino i limiti di un corretto esercizio delle libertà sindacali - e quindi siano lesive del rapporto di fiducia con il datore di lavoro - deve accertare se le stesse non costituiscano la forma di comunicazione ritenuta più efficace ed adeguata dal sindacalista in relazione alla propria posizione in quel contesto; in tal caso infatti le suddette espressioni non si prestano, in quanto manifestazione di una lata responsabilità politico-sindacale, ad esser valutate con il parametro dell’inadempimento nei confronti del datore di lavoro dovuto a lesione dell’altrui sfera giuridica nell’esercizio di un diritto di rilevanza costituzionale (nella specie, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato ad un sindacalista che, nel comunicato di convocazione di un’assemblea, aveva accusato i rappresentanti del datore di lavoro ed altri colleghi sindacalisti di essersi appropriati di emolumenti spettanti ai lavoratori)».

La situazione di fatto è così riassumibile.  Il Signor E. Q., dipendente della società Sidim S.r.l.  con mansioni di facchino, riveste all’interno della stessa anche il ruolo di rappresentate sindacale dei Cobas. Quest’ultimo veniva licenziato in tronco a causa dell’affissione in sala mensa di un comunicato di convocazione di un’assemblea sindacale, da lui redatto, nel quale veniva letteralmente scritto: «lavoratori quest’assemblea sarà contestata da V.,F.,T.,M., perché si dividono i soldi di 13esima, 14esima, ferie, pir, che fregano agli extra». Va chiarito che i designati con le sole iniziali individuano i tre rappresentanti dei sindacati delle storiche Confederazioni Cgil-Cisl-Uil  ed il rappresentante del datore di lavoro, supposti in ipotetico “rapporto collusivo” per l’eccessiva accondiscendenza (o non resistenza) dei rappresentanti delle Confederazioni storiche al conferimento da parte dell’azienda di lavoro in appalto (cd. esternalizzazione o outsourcing), effettuato assegnando a cooperativa esterna lavori che il sindacalista dei Cobas riteneva  disimpegnabili dai dipendenti in organico (sottoposti, per effetto dell’appalto, a procedura di riduzione di personale); talché il ricorso all’esterno era visto quale mera misura di risparmio (e di depotenziamento d’organico) per realizzare una concomitante contrazione del costo del lavoro a danno degli esterni (cd. “extra”, una sorta di “senza diritti”, non destinatari delle competenze differite spettanti ai lavoratori dell’azienda, da cui l’addebito figurato estrinsecatesi nella locuzione «….si dividono i soldi…che fregano agli extra»).

Il licenziamento, impugnato innanzi al Pretore di Roma, viene dichiarato illegittimo e conseguentemente è disposta la reintegrazione del ricorrente. Successivamente il giudice d’appello riforma la sentenza di primo grado. Questi, infatti, ritiene che nel caso di specie le affermazioni del lavoratore sindacalista che attribuiscono ai rappresentanti del datore di lavoro e ad altri colleghi sindacalisti un fatto particolarmente infamante (l’appropriazione di emolumenti spettanti ad altri lavoratori), possano costituire una giusta causa di recesso, non rientrando un tale comportamento nel concetto di attività sindacale, né nel contesto di quel diritto di critica esercitabile senza (legittimo) pregiudizio del diritto altrui di pari rilevanza costituzionale. È anzi lo stesso giudice del gravame a definire il licenziamento per giusta causa «l’unica misura idonea e congrua» per tutelare l’interesse del datore di lavoro, avendo evidentemente accertato la lesione del vincolo fiduciario. Da rilevare come, nelle more del ricorso per Cassazione, anche il giudice penale si sia espresso sulla condotta del Signor E.Q., condannandolo per diffamazione. La relativa sentenza però, non è stata ammessa agli atti del ricorso da parte della Suprema Corte, ai sensi dell’articolo 372 codice penale.

La Cassazione non si mostra concorde con il giudice di gravame, contestandogli di non aver “contestualizzato” il comportamento incriminato e di essere arrivato alla conclusione di un comportamento illegittimo senza aver prima verificato se concorressero le seguenti condizioni legittimanti consistenti:

1) nell’accertare la finalizzazione del comportamento assunto in relazione al contesto in cui sono state espresse le affermazioni;

2) nel verificare che l’attività del sindacalista fosse sostanzialmente tale e non solo formalmente (e quindi fuori dall’ambito di tutela delle attività sindacali);

3) nel ricordare che ciascun esponente sindacale: «...può prescegliere, nell’ambito della sua responsabilità, la forma di comunicazione ritenuta adatta a far comprendere le posizioni da esso assunte in relazione a determinate vicende aziendali, non diversamente da quando avviene nella sfera lata della politica»;

4) nel verificare se il lavoratore sindacalista, a cui deve essere consentito di adottare un linguaggio non “corretto” - se da questi ritenuto idoneo e funzionale a far recepire al proprio auditorio il tipo di valutazioni da lui assunte relativamente alle vicende che interessano i lavoratori - abbia operato tale scelta in base alla presenza di una reale e concreta finalizzazione dell’attività espletata all’esercizio di diritti sindacali per la tutela degli interessi dei lavoratori.

«Alla luce di questi principi - conclude la Corte di Cassazione - il Tribunale avrebbe dovuto individuare le connotazioni peculiari del comportamento per accertare: se esso era una forma di comunicazione prescelta dal lavoratore sindacalista perché ritenuta la più efficace per far comprendere ai lavoratori che quanto stava avvenendo (depotenziamento degli organici stabili con lo sfruttamento di lavoratori precari) era l’effetto di una collusione imprenditore-sindacato “storico”, o piuttosto l’attribuzione di ipotesi criminose fatta, disinvoltamente, al solo fine di proporsi come l’unica organizzazione sindacale capace di tutelare efficacemente i lavoratori aggredendo, a tal fine, l’altrui sfera giuridica. Solo ove l’accertamento avesse dato questo risultato, il comportamento, non più appartenente all’attività sindacate ma diretto solo a conferire potere individuale a chi la stessa esercita, poteva esser valutato per la sua eventuale idoneità a ledere irreparabilmente il rapporto fiduciario. Il Tribunale - dice la Cassazione - ha del tutto omesso questo esame imboccando, decisamente ed immediatamente, la via del comportamento sindacale debordante, sino a tal punto da far emergere un lavoratore non in grado di permanere in una qualsiasi organizzazione produttiva: esso ha supposto, come si è detto, monovalente il comportamento del lavoratore sindacalista e non si é per niente posto il problema della polivalenza del comportamento e quello specifico del rapporto di adeguatezza fra contesto conflittuale ed uso del linguaggio nello stesso da parte del sindacalista; valutando il comportamento dello stesso esclusivamente alla stregua del parametro di un inadempimento ai propri obblighi di lavoratore».

La Cassazione (cassando il Tribunale) rileva a chiare lettere la necessità di “contestualizzare” le condotte criticate, sia relativamente al ruolo rivestito dal soggetto agente (facchino), sia relativamente all’uditorio, sia relativamente allo scopo o occasione per la quale l’assemblea era stata indetta, riassumibile nell’intento di denunciare l’esistenza di una linea imprenditoriale - suppostamene avallata dalle organizzazioni sindacali storiche - fondata proprio sullo sfruttamento dei lavoratori esterni, che, giustappunto in quanto utilizzati in maniera precaria,  facevano sì che virtualmente coloro che avevano deciso ed avallato questa scelta di esternalizzazione “si appropriavano” (termine improprio e figurato oltreché grossolano, ma ritenuto adeguato al livello dello scontro in atto), non attribuendole ai precari, di somme  che in base ad una stabile assunzione sarebbero state invece corrisposte loro (per 13.ma, 14.ma, permessi sindacali retribuiti).

Secondo taluno la Cassazione - nel riconfermare i limiti esterni ed interni al diritto di critica (finalizzazione alla contrapposizione dialettica non gratuita, veridicità ed obbiettività degli addebiti, continenza, (cioè correttezza, formale e sostanziale) - avrebbe derogato - troppo benevolmente a favore del sindacalista facchino - al limite della “continenza formale”, autorizzando l’uso di espressioni  eccessivamente pesanti e tipizzate in un linguaggio grossolano ed, in un certo senso, infamante.

Una volta chiarito il carattere “figurato” e “virtuale” degli addebiti, siamo portati, invece a ritenere equilibrata la decisione in questione, la quale ha stabilito il principio per cui - nell’esame di un caso concreto - non si possa prescindere né dalle modalità espressive tipiche della condizione sociale e della qualifica di appartenenza del sindacalista-dipendente né dall’uditorio cui sono dirette e sul quale sono finalizzate ad essere percepite più persuasivamente, quantunque non possiedano connotazioni intuitivamente realistiche.

3.4. Cassazione 24 maggio 2001, n. 7091 seguita da Cassazione 21 settembre 2005, n. 18570  

In precedenza, altre decisioni della Suprema corte meritano di essere riferite - sia pure, per intuitive ragioni di spazio e di sintesi - in sola massima.

Tra queste si ricorda l’anteriore Cassazione  24 maggio 2001, n. 7091, la cui massima asserì il seguente principio: «L’esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale, del diritto di critica delle decisioni aziendali (manifestata, nella specie, attraverso la diffusione di alcuni volantini all’esterno dell’azienda), sebbene sia garantito dagli articolo 21 e 39 Costituzione , incontra i limiti della correttezza (cd. continenza) formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (articolo  2 Costituzione ), di tutela della persona umana, anche quando la critica venga espressa nella forma della satira, che pur implicando intrinsecamente l’utilizzo di un linguaggio colorito ed il ricorso ad immagini forti, esagerate, caricaturali e paradossali - per finalità dissacranti - non può essere sganciata da qualsiasi limite di forma espositiva; ne consegue che, ove tali limiti siano superati, con l’attribuzione all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione».

Il fatto che determinò la decisione sopra citata fu il seguente: L.G. ed altri due dipendenti della S.p.A. Italcementi, in occasione della presentazione pubblica del nuovo logo aziendale, diffusero due volantini, in uno dei quali il nuovo simbolo veniva paragonato ad un «mollusco fossile tipico del mesozoico» e la Italcementi veniva definita un «vortice che continua a risucchiare il personale», mentre nell’altro si faceva riferimento ad un «manager italiano di mezza età», asseritamente bisognoso di cure psicoanalitiche e alla di lui madre, definita donna di facili costumi.

Essi vennero licenziati con l’addebito di avere gravemente leso l’immagine dell’azienda e di avere pesantemente offeso l’amministratore delegato della Italcementi identificabile nel “manager di mezza età” menzionato in uno dei due volantini, licenziamento annullato dal Pretore e dal Tribunale di Bergamo.

La Cassazione, in riforma, accolse parzialmente il ricorso della Italcementi  in quanto ritenne che il Tribunale non avesse adeguatamente motivato il suo convincimento della inoffensività delle espressioni usate nel volantino concernente l’amministratore delegato. In particolare la Corte ebbe a ritenere che la sentenza di appello fosse contraddittoria laddove da un lato riconosceva che nel riferimento al “manager italiano di mezza età, con una calvizie incipiente”, doveva essere pacificamente riconosciuto l’amministratore delegato della Italcementi, e dall’altro lato rilevava che “l’esame del testo, nell’indignare il lettore per la volgarità largamente usata dai redattori, tuttavia consente, a colui che non risulta prevenuto, di escludere con serenità il riferimento a persone fisiche reali”. La Corte ritenne, altresì, che il Tribunale, avesse erroneamente omesso di valutare gli effetti offensivi derivanti sia dall’accostamento dell’amministratore ad un soggetto psicopatico, sia dall’accostamento della madre dell’imprenditore psicoanalizzato ad una donna di facili costumi. La causa venne rinviata, quindi,  per un nuovo esame, alla Corte d’Appello di Brescia, occasionando, infine, la nuova decisione di Cassazione 21 settembre 2005, n. 18570 (Pres. Mattone - Rel. Di Cerbo), che giunse a condividere le “acrobatiche” considerazioni della Corte d’appello di Brescia, così riassunte dalla Cassazione: «Con riferimento al vizio di motivazione rilevato dalla sentenza rescindente con riferimento alla valutazione dell’efficacia offensiva dell’espressione “simbolo del c...” (usato per definire il nuovo logo aziendale in forma di spirale) e della frase nel quale essa era inserita ...come pure alla valutazione dell’esistenza, o meno, di effetti offensivi derivanti sia dall’accostamento, dunque fatto e riconosciuto dal tribunale, dell’amministratore o comunque della dirigenza del gruppo ad un soggetto psicopatico, sia dall’accostamento della madre dell’imprenditore psicoanalizzato ad una donna di facili costumi..., la sentenza impugnata, premesso che il termine volgare, peraltro non esplicitato, ma lasciato all’intuizione del lettore attraverso i puntini di sospensione, è ormai usato diffusamente, anche in programmi televisivi e sui giornali, osserva che nel contesto in esame esso è usato in un significato traslato, diretto ad indicare le scarse qualità di un determinato oggetto. Ha escluso pertanto che il termine suddetto e la frase che lo contiene, tenuto conto del carattere satirico dello scritto in cui la stessa è inserita, abbiano una reale capacità offensiva o lesiva della dignità o dell’immagine della società, del suo legale rappresentante o dei suoi vertici. Per quanto riguarda l’accostamento del manager ad un soggetto psicopatico la sentenza impugnata ha ritenuto in particolare che le condotte e le vicende riportate nella narrazione del volantino sono palesemente finalizzate ad esprimere simboli e non fatti che possano essere considerati reali e comunque non sono tali da suscitare sentimenti di ripugnanza, disprezzo o dileggio. In sostanza, sulla corretta premessa che, trattandosi di un unico testo di natura satirica, non è consentito estrapolare singole espressioni dal contesto limitandosi ad evidenziarne il significato letterale, la Corte di merito ha concluso affermando che gli autori del volantino sono rimasti ampiamente nell’ambito di un lecito diritto di critica, sia pure severa, delle scelte di politica aziendale. Tale conclusione è adeguatamente e logicamente motivata. In particolare la Corte di merito ha osservato che le “ossessioni” non sono rappresentate come manifestazioni dì follia, ma sono giustificate da una situazione preoccupante, il manager non è descritto come delirante, atteso che le parole “in libertà” sono pronunciate per assecondare una richiesta del terapeuta, la relazione extraconiugale è delineata in modo da poter identificare la vicenda attraverso la nazionalità francese del partner, la natura omosessuale di tale relazione, espressa in modo implicito, è strumentale per sottolineare la “buggeratura” subita a seguito dell’accordo col nuovo partner industriale; l’identificazione della spirale/chiocciola con un simbolo fallico è satirica ma non è in sé volgare né suggerisce alcuna volgarità. Per quanto riguarda infine il riferimento alla madre, la Corte di merito ha osservato che, una volta ritenuto che il riferimento al manager non identifichi alcuna persona fisica, neanche il riferimento alla madre possiede idoneità identificativa. Ciò senza considerare, fra l’altro, la circostanza che l’intera frase è inserita nella citazione “letteraria” di un vecchio fìlm il che la rende ancor più palesemente estranea ad una volontà valutativa.

Ad avviso del Collegio anche la suddetta motivazione resiste alle critiche mosse dalle odierne ricorrenti, le quali si risolvono ancora una volta nel tentativo di riproporre valutazioni di fatto, escluse in questa sede di legittimità. In particolare la sentenza del giudice di rinvio ha correttamente applicato i principi fissati dalla sentenza rescindente. In particolare essa, nell’escludere il carattere offensivo delle espressioni usate nel volantino e nell’escludere altresì la diretta riferibilità delle stesse a persone specificamente individuabili, è pienamente rispettosa del principio secondo cui, anche nel caso in cui, come nella specie, il diritto di critica sia esercitato a mezzo della satira, questa non può recare pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è oggetto. La stessa sentenza ha inoltre correttamente tenuto conto dell’ulteriore principio espresso dalla sentenza rescindente secondo cui l’esistenza del pregiudizio deve essere verificata alla luce e nel contesto del linguaggio usato dalla satira il quale è essenzialmente simbolico e paradossale».

3.5. Cassazione 16 maggio 1998, n. 4952

Ancora in precedenza si ricorda - sempre in tema di limiti al diritto di critica sindacale - Cassazione 16 maggio 1998, n. 4952, la cui massima espresse i seguenti principi di diritto: «L’esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale aziendale, del diritto di critica (manifestata nella specie attraverso articoli ed interviste su quotidiani, addebitanti a carico dell’ intera dirigenza Fincantieri di aver favorito l’infiltrazione, nei lavori di appalto e subappalto, di ditte irregolari o legati a personaggi in odore di mafia) nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall’articolo 2105 c.c., e può costituire giusta causa di licenziamento».

Il fatto che originò  la vicenda è così riassumibile.

G. B. dipendente della S.p.A. Fincantieri, sindacalista, venne licenziato nel novembre del 1990 per avere accusato la dirigenza della società - in una serie di articoli e interviste pubblicati tra il luglio 1989 e l’ottobre 1990 sui quotidiani L’Ora, La Sicilia, Il Manifesto oltreché sul giornale Dopolavoro Notizie - di avere favorito, con il sempre più massiccio ricorso a lavori di appalto e subappalto, l’infiltrazione di imprese irregolari o legate a personaggi in odore di mafia, traendone un tornaconto in termini di riduzione dei costi aziendali; tornaconto indiretto perché tali imprese assicuravano una bassa conflittualità e prezzi competitivi, senza curarsi dei pesanti costi umani e sociali derivanti dal dilagare del lavoro nero e dall’arretramento dei livelli di sicurezza sul posto di lavoro. In questa strategia, secondo G.B., si era inserito anche un uso distorto della cassa integrazione per dare spazio al sistema di appalti e subappalti, ma anche «per colpire e neutralizzare quei dipendenti che si ostinavano a non abbassare la testa dinanzi all’irresponsabile arroganza aziendale». Il Pretore di Palermo annullò il licenziamento in quanto ritenne che il lavoratore avesse esercitato correttamente il diritto di critica e di polemica sindacale. Il Tribunale di Palermo accolse l’appello dell’azienda e riformò integralmente la sentenza di primo grado, affermando che il diritto di critica, da riconoscersi nella sua interezza ai dipendenti impegnati nel sindacato, non può violare l’obbligo di fedeltà del dipendente verso il datore di lavoro, previsto dall’articolo 2105 codice civile e deve rispettare i limiti posti dalla esigenza di tutela dell’onore e della reputazione altrui. G.B. fu condannato anche in sede penale, dal Tribunale di Catania, per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa.

La Suprema Corte  rigettò il ricorso del lavoratore, ricordando la sua costante giurisprudenza secondo cui l’esercizio del diritto di critica deve essere improntato a “leale chiarezza”, il che non si verifica allorquando si ricorra “al sottinteso sapiente”, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, specie nei titoli di articoli e pubblicazioni, o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, nonché alle vere e proprie insinuazioni.

La Cassazione, nella citata sentenza, ebbe a rilevare che secondo gli accertamenti svolti dal Tribunale di Palermo molti dei fatti denunziati da G.B. erano  risultati non veri: in particolare l’indagine affidata alla locale Prefettura aveva accertato che tutte le ditte che operavano nella provincia di Palermo, e che avevano intrattenuto rapporti di appalto o subappalto con la Fincantieri, non avevano mai subito provvedimenti interdittivi o sanzioni ai sensi della legislazione antimafia. La Corte affermò, quindi, che l’obbligo di fedeltà, la cui violazione può rilevare come giusta causa di licenziamento, si sostanzia, per il lavoratore, nel dovere di tenere nei confronti del datore di lavoro un comportamento leale e va collegato con le regole di correttezza e buona fede previste dagli articoli 1175 e 1375 codice civile: il lavoratore, pertanto deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’articolo  2105 codice civile (trattazione di affari in concorrenza con il datore di lavoro, uso o divulgazione di informazioni riservate) ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto. «E’ suscettibile di violare il disposto dell’articolo  2105 codice civile - concluse la Corte - anche l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica, che superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traduca in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datrice di lavoro, suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro».

3.6. Cassazione 22 agosto 1997, n. 7884

Nella giurisprudenza della Suprema corte merita altresì di essere citata  Cassazione 22 agosto 1997, n. 7884, ove la Cassazione, in sede civile - riprendendo i criteri delineati dalla precedente Cassazione n. 1173/1986, e riscontrando la carenza di veridicità dei fatti addebitati - asserì: «pur non potendosi dubitare del fatto che al lavoratore subordinato debba essere garantito un diritto di critica, anche aspra, nei confronti del suo datore di lavoro - soprattutto quando trattasi di un sindacalista che si esprime, come in fattispecie, sulla funzionalità di un pubblico servizio - tuttavia non può ammettersi che il medesimo lavoratore, senza addurre e comprovare fatti oggettivamente certi, leda sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro». In conseguenza del principio suddetto venne giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa di un sindacalista che in una intervista televisiva ad una emittente locale aveva gettato discredito nei confronti della società datrice di lavoro «giacché, oltre ad esaltare le qualità imprenditoriali dell’impresa che nel comprensorio comunale aveva in precedenza gestito il servizio di sgombero rifiuti, aveva accusato la datrice di lavoro di avere abusivamente smaltito nelle discariche comunali i rifiuti speciali ospedalieri, circostanza che non poteva invece essere imputato alla società, dal momento che dalla documentazione in atti si ricavava che era stato il Sindaco, con apposita delibera, a disporre lo smaltimento in questione sotto il controllo del servizio di igiene e sanità pubblica».

A conclusione di questa rassegna va evidenziato come la giurisprudenza abbia sempre conferito al diritto di critica una prevalenza rispetto ai valori personali sui quali esso si indirizza. E ciò secondo un condivisibile intento di salvaguardia della libertà di espressione che tollera - in un paese democratico - limitate e caute compressioni. Equilibratamente la magistratura ha comunque fornito criteri idonei a consentire la definizione - caso per caso ed oculatamente - della soglia oltre la quale  l’esercizio del diritto di critica sconfina ed incorre nel vizio della diffamazione, ex articolo  595 codice penale, legittimando da parte degli offesi la reazione della querela ex articolo 120 codice penale.