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Spazio minimo detentivo: le novità giurisprudenziali sul piano nazionale e sovranazionale

Spazio minimo detentivo: le novità giurisprudenziali sul piano nazionale e sovranazionale
Spazio minimo detentivo: le novità giurisprudenziali sul piano nazionale e sovranazionale

L’assenza di certezza circa lo spazio minimo di detenzione rappresenta una rilevante lacuna della legislazione penitenziaria italiana.

L’articolo 6 della legge 354/1975, infatti, si limita a prevedere che “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente”, senza individuare specifici criteri quantitativi circa lo spazio detentivo da assicurare al singolo ristretto.

Dato il silenzio del legislatore, l’unica voce sul tema è quella del diritto vivente: seguendo gli indirizzi assunti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la Suprema Corte di cassazione è da tempo impegnata nell’individuazione di uno spazio vitale minimo (al di sotto del quale la detenzione è da considerare inumana) nonché delle modalità di calcolo dello stesso. Negli ultimi mesi gli organi giurisdizionali appena citati si sono resi protagonisti di due importanti pronunce, da considerare entrambe come un ulteriore passo verso una completa certezza sull’argomento.

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Grande Camera), 20 ottobre 2016, Muršić c. Croazia  

Il 20 ottobre 2016 la Grande Camera della Corte EDU si è espressa sul ricorso n. 7334/13. La Grand Chamber ha parzialmente riformato la sentenza dalla Camera del 12 marzo 2015, condannando la Croazia per violazione dell’art. 3 CEDU in riferimento alla detenzione, sofferta in uno spazio disponibile pari a 2.62 mq, a cui il ricorrente è stato sottoposto per un periodo di ventisette giorni.

Innanzitutto, la Corte di Strasburgo ha avvalorato quanto già asserito nella c.d. “sentenza Torreggiani” del 2014, con la quale ha condannato l’Italia in relazione allo stato di sovraffollamento sistemico in cui versavano gli istituti penitenziari. La recente sentenza ha infatti confermato lo standard dei 3 mq per quanto concerne la superficie minima da garantire ad ogni detenuto in cella collettiva.

Di conseguenza, afferma la Corte, uno spazio pro capite inferiore a 3 mq implica, sul piano giuridico, una vera e propria presunzione di trattamento inumano e degradante, con conseguente violazione, in assenza di considerevoli fattori attenuanti, dell’art. 3 CEDU. Sarà dunque lo Stato convenuto a dover dimostrare la presenza di idonei elementi compensativi (come, ad esempio, la concessione di un’apprezzabile libertà di spostamento all’esterno della cella) al fine di superare la c.d. “strong presumption”.

Meno problemi sorgono nel caso in cui lo spazio detentivo assicurato al singolo soggetto rientri nel range che va dai 3 ai 4 mq. In tal caso, non discostandosi dalle precedenti pronunce, la Corte ha affermato l’insussistenza della strong presumption summenzionata, risultando necessaria, ai fini dell’insorgere di un trattamento contrario all’art. 3 CEDU, la presenza di ulteriori indici di detenzione inumana (tra i quali rientrano, ad esempio, l’assenza di un’adeguata luce naturale all’interno della cella e l’inosservanza delle basiche norme igienico-sanitarie).

Di grande interesse è, altresì, l’indirizzo assunto dal giudice sovranazionale per i casi in cui la restrizione in una cella inadeguata si sia protratta per un lasso di tempo alquanto breve. Con riferimento a questi periodi (durati, nel caso di specie, al massimo otto giorni), la Corte ha scelto di considerare la brevità del tempo di restrizione come un fattore alleviante decisivo, affermando per tali ipotesi l’insussistenza dei presupposti della detenzione inumana, pur essendo la superficie fruibile leggermente al di sotto della soglia dei 3 mq.

I punti analizzati non sono stati ovviamente accolti all’unanimità.

Basti citare, in questa sede, la prima delle tre dissenting opinions, con la quale i giudici Sajó, López Guerra e Wojtyczek hanno espresso il loro disappunto sia sullo standard minimo dei 3 mq, ritenendo più idoneo quello dei 4 mq consigliato dal Comitato per la prevenzione della tortura, sia sulla notevole rilevanza data alla brevità del periodo di detenzione.

Corte di Cassazione, 13 dicembre 2016, n. 52819

Passando alla giurisprudenza interna, una significativa novità sul tema è quella introdotta dalla sentenza n. 52819 del 13 dicembre 2016, con la quale la Corte di Cassazione ha annullato, per erronea applicazione della disciplina regolatrice, l’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva rigettato il reclamo proposto dal ricorrente in tema di tutela inibitoria e risarcitoria di cui agli articoli 35-bis e 35-ter dell’ordinamento penitenziario.

Più che il fattore temporale della detenzione, ad interessare il giudice nazionale sono state le modalità di calcolo dello spazio detentivo individuale.

È stato introdotto, infatti, un nuovo principio di diritto secondo il quale “per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento”, con la conseguente necessità di detrarre dall’area complessiva “non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi, ma anche quello occupato dal letto”.

A fondamento dell’orientamento assunto, la Corte di cassazione ha richiamato la sopracitata sentenza della Grande Camera della Corte EDU, la quale, pur non esprimendosi direttamente sui criteri di calcolo, ha identificato come superficie detentiva individuale quella destinata al movimento, escludendo implicitamente l’area occupata da tutti quegli elementi che sono d’intralcio alla deambulazione.

Fino ad ora la giurisprudenza di merito, contrariamente a quanto appena affermato dal giudice di legittimità, ha riconosciuto il letto come elemento da includere nel calcolo dello spazio detentivo, contemplandolo come una mera superficie di riposo, inidonea di per sé a limitare lo spazio vitale del detenuto.

Tale orientamento è stato completamente ribaltato dalla pronuncia in analisi: il giudice di legittimità, optando per un indirizzo più garantista, ha scelto di considerare il letto un elemento di ingombro, un vero e proprio ostacolo al libero movimento all’interno della cella e, di conseguenza, una entità estranea alla superficie minima di restrizione.

Secondo la Cassazione, pertanto, lo spazio vitale da assicurare al detenuto deve mantenersi al di sopra della soglia dei 3 mq senza tener conto, nel calcolo in questione, della superficie occupata dal letto.

Resta da vedere quali saranno le conseguenze a cui porterà la suddetta decisione.

Tenuto conto della portata garantista della sentenza, ci si dovrà aspettare, soprattutto qualora l’orientamento dovesse trovare conferma in ulteriori pronunce di legittimità, un significativo incremento della possibilità, per i soggetti interessati, di accedere allo strumento risarcitorio ex art. 35-ter ord. penit.

Molto probabili saranno, inoltre, le ripercussioni negative sull’organizzazione interna degli istituti penitenziari, data la presumibile necessità di ridistribuire i detenuti all’interno delle strutture (al fine di adeguarsi ai nuovi parametri stabiliti) e i sempre più preoccupanti dati sul sovraffollamento delle stesse.

 

SITOGRAFIA

Corte eur. dir. uomo, 20 ottobre 2016, Muršić c. Croazia, ric. n. 7334/13, in http://hudoc.echr.coe.int/eng/?i=001-167483.

Cancellaro, Carcerazione in meno di 3 metri quadri: la grande camera sui criteri di accertamento della violazione dell'art. 3 cedu, in www.penalecontemporaneo.it

Cass., sez. I, 13 dicembre 2016, n. 52819, in www.giurisprudenzapenale.com.

L’assenza di certezza circa lo spazio minimo di detenzione rappresenta una rilevante lacuna della legislazione penitenziaria italiana.

L’articolo 6 della legge 354/1975, infatti, si limita a prevedere che “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente”, senza individuare specifici criteri quantitativi circa lo spazio detentivo da assicurare al singolo ristretto.

Dato il silenzio del legislatore, l’unica voce sul tema è quella del diritto vivente: seguendo gli indirizzi assunti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la Suprema Corte di cassazione è da tempo impegnata nell’individuazione di uno spazio vitale minimo (al di sotto del quale la detenzione è da considerare inumana) nonché delle modalità di calcolo dello stesso. Negli ultimi mesi gli organi giurisdizionali appena citati si sono resi protagonisti di due importanti pronunce, da considerare entrambe come un ulteriore passo verso una completa certezza sull’argomento.

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Grande Camera), 20 ottobre 2016, Muršić c. Croazia  

Il 20 ottobre 2016 la Grande Camera della Corte EDU si è espressa sul ricorso n. 7334/13. La Grand Chamber ha parzialmente riformato la sentenza dalla Camera del 12 marzo 2015, condannando la Croazia per violazione dell’art. 3 CEDU in riferimento alla detenzione, sofferta in uno spazio disponibile pari a 2.62 mq, a cui il ricorrente è stato sottoposto per un periodo di ventisette giorni.

Innanzitutto, la Corte di Strasburgo ha avvalorato quanto già asserito nella c.d. “sentenza Torreggiani” del 2014, con la quale ha condannato l’Italia in relazione allo stato di sovraffollamento sistemico in cui versavano gli istituti penitenziari. La recente sentenza ha infatti confermato lo standard dei 3 mq per quanto concerne la superficie minima da garantire ad ogni detenuto in cella collettiva.

Di conseguenza, afferma la Corte, uno spazio pro capite inferiore a 3 mq implica, sul piano giuridico, una vera e propria presunzione di trattamento inumano e degradante, con conseguente violazione, in assenza di considerevoli fattori attenuanti, dell’art. 3 CEDU. Sarà dunque lo Stato convenuto a dover dimostrare la presenza di idonei elementi compensativi (come, ad esempio, la concessione di un’apprezzabile libertà di spostamento all’esterno della cella) al fine di superare la c.d. “strong presumption”.

Meno problemi sorgono nel caso in cui lo spazio detentivo assicurato al singolo soggetto rientri nel range che va dai 3 ai 4 mq. In tal caso, non discostandosi dalle precedenti pronunce, la Corte ha affermato l’insussistenza della strong presumption summenzionata, risultando necessaria, ai fini dell’insorgere di un trattamento contrario all’art. 3 CEDU, la presenza di ulteriori indici di detenzione inumana (tra i quali rientrano, ad esempio, l’assenza di un’adeguata luce naturale all’interno della cella e l’inosservanza delle basiche norme igienico-sanitarie).

Di grande interesse è, altresì, l’indirizzo assunto dal giudice sovranazionale per i casi in cui la restrizione in una cella inadeguata si sia protratta per un lasso di tempo alquanto breve. Con riferimento a questi periodi (durati, nel caso di specie, al massimo otto giorni), la Corte ha scelto di considerare la brevità del tempo di restrizione come un fattore alleviante decisivo, affermando per tali ipotesi l’insussistenza dei presupposti della detenzione inumana, pur essendo la superficie fruibile leggermente al di sotto della soglia dei 3 mq.

I punti analizzati non sono stati ovviamente accolti all’unanimità.

Basti citare, in questa sede, la prima delle tre dissenting opinions, con la quale i giudici Sajó, López Guerra e Wojtyczek hanno espresso il loro disappunto sia sullo standard minimo dei 3 mq, ritenendo più idoneo quello dei 4 mq consigliato dal Comitato per la prevenzione della tortura, sia sulla notevole rilevanza data alla brevità del periodo di detenzione.

Corte di Cassazione, 13 dicembre 2016, n. 52819

Passando alla giurisprudenza interna, una significativa novità sul tema è quella introdotta dalla sentenza n. 52819 del 13 dicembre 2016, con la quale la Corte di Cassazione ha annullato, per erronea applicazione della disciplina regolatrice, l’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva rigettato il reclamo proposto dal ricorrente in tema di tutela inibitoria e risarcitoria di cui agli articoli 35-bis e 35-ter dell’ordinamento penitenziario.

Più che il fattore temporale della detenzione, ad interessare il giudice nazionale sono state le modalità di calcolo dello spazio detentivo individuale.

È stato introdotto, infatti, un nuovo principio di diritto secondo il quale “per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento”, con la conseguente necessità di detrarre dall’area complessiva “non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi, ma anche quello occupato dal letto”.

A fondamento dell’orientamento assunto, la Corte di cassazione ha richiamato la sopracitata sentenza della Grande Camera della Corte EDU, la quale, pur non esprimendosi direttamente sui criteri di calcolo, ha identificato come superficie detentiva individuale quella destinata al movimento, escludendo implicitamente l’area occupata da tutti quegli elementi che sono d’intralcio alla deambulazione.

Fino ad ora la giurisprudenza di merito, contrariamente a quanto appena affermato dal giudice di legittimità, ha riconosciuto il letto come elemento da includere nel calcolo dello spazio detentivo, contemplandolo come una mera superficie di riposo, inidonea di per sé a limitare lo spazio vitale del detenuto.

Tale orientamento è stato completamente ribaltato dalla pronuncia in analisi: il giudice di legittimità, optando per un indirizzo più garantista, ha scelto di considerare il letto un elemento di ingombro, un vero e proprio ostacolo al libero movimento all’interno della cella e, di conseguenza, una entità estranea alla superficie minima di restrizione.

Secondo la Cassazione, pertanto, lo spazio vitale da assicurare al detenuto deve mantenersi al di sopra della soglia dei 3 mq senza tener conto, nel calcolo in questione, della superficie occupata dal letto.

Resta da vedere quali saranno le conseguenze a cui porterà la suddetta decisione.

Tenuto conto della portata garantista della sentenza, ci si dovrà aspettare, soprattutto qualora l’orientamento dovesse trovare conferma in ulteriori pronunce di legittimità, un significativo incremento della possibilità, per i soggetti interessati, di accedere allo strumento risarcitorio ex art. 35-ter ord. penit.

Molto probabili saranno, inoltre, le ripercussioni negative sull’organizzazione interna degli istituti penitenziari, data la presumibile necessità di ridistribuire i detenuti all’interno delle strutture (al fine di adeguarsi ai nuovi parametri stabiliti) e i sempre più preoccupanti dati sul sovraffollamento delle stesse.

 

SITOGRAFIA

Corte eur. dir. uomo, 20 ottobre 2016, Muršić c. Croazia, ric. n. 7334/13, in http://hudoc.echr.coe.int/eng/?i=001-167483.

Cancellaro, Carcerazione in meno di 3 metri quadri: la grande camera sui criteri di accertamento della violazione dell'art. 3 cedu, in www.penalecontemporaneo.it

Cass., sez. I, 13 dicembre 2016, n. 52819, in www.giurisprudenzapenale.com.