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Parto anonimo: tra diritto della donna di mantenere l’anonimato e diritto di ogni persona di conoscere le proprie origini

Nota di commento alla sentenza della Corte di Cassazione - Sezioni Unite n. 1946 del 25/01/2017
Parto anonimo: tra diritto della donna di mantenere l’anonimato e diritto di ogni persona di conoscere le proprie origini
Parto anonimo: tra diritto della donna di mantenere l’anonimato e diritto di ogni persona di conoscere le proprie origini

In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione […]”.

Questo è il principio di diritto enunciato, nell’interesse della legge, dai Giudici della Suprema Corte a Sezioni Unite nella sentenza sopra indicata, che risolve i contrasti giurisprudenziali creatisi a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 278 del 2013 e per effetto dell’inerzia del legislatore: il figlio maggiorenne, nato da una donna che al momento del parto non lo ha riconosciuto e ha deciso di rimanere anonima, ha diritto di conoscere le proprie origini.

1. La censura della Corte Costituzionale

Con la citata sentenza del 2013, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 28, comma 7 della Legge n. 184 del 4/5/1983 (Diritto del minore ad una famiglia), così come sostituito dall’articolo 177, comma 2, Decreto Legislativo n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di interpellare, su richiesta del figlio e mediante l’applicazione di un procedimento stabilito dalla legge, la madre che, al momento del parto, abbia dichiarato di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione. La norma, infatti, negava tout court l’accesso alle informazioni nei confronti della madre che aveva reso la dichiarazione ai sensi dell’articolo 30, comma 1, Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000.

Esso si presentava come norma di chiusura, eccessivamente rigida secondo il parere del Giudice delle Leggi, di un sistema (quale quello previsto ai commi 5, 6 e 8 della medesima norma) che attribuisce al figlio adottivo che abbia raggiunto i venticinque anni di età il diritto potestativo di accedere alle informazioni sulla propria origine e sulla identità dei genitori biologici, nonché l’esercizio del medesimo diritto, anche prima del compimento del venticinquesimo anno, all’adottato comunque maggiorenne che presenta istanza di autorizzazione presso il Tribunale dei Minorenni del luogo di residenza, sul presupposto di gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica.

Nel 2005, l’articolo 28, comma 7, in esame, era già stato sottoposto al vaglio di legittimità costituzionale; in quella occasione, la Corte Costituzionale dichiarò infondata la questione sollevata, ritenendo che l’assolutezza del diritto all’anonimato rappresentava “espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda”.

Tra le due pronunce della Consulta si inserisce, per ordine temporale, la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 25 settembre 2012 n. 33783, che ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per la mancanza, all’interno della legislazione nazionale, di strumenti idonei a bilanciare gli interessi coinvolti: il diritto della madre biologica all’anonimato e il diritto del figlio adottato di conoscere la propria identità. La Corte Europea ha, così, avuto modo di chiarire che nell’ambito della tutela per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali v’è anche la possibilità di accedere alle informazioni relative alla propria “identità di essere umano”, e condannava, quindi, l’Italia per aver dato prevalenza incondizionata agli interessi della donna che ha partorito.

2. Il caso

Il figlio maggiorenne nato da parto anonimo adiva il Tribunale dei minorenni di Milano, per la verifica, mediante interpello riservato, della persistenza della volontà della madre biologica a non voler essere nominata. Avverso il rigetto dell’istanza, il deducente proponeva reclamo presso la Corte di Appello di Milano, sezione delle persone, dei minori e della famiglia, la quale rigettava il gravame e confermava la decisione del Giudice di prime cure; riteneva la Corte di dover negare la possibilità di dare seguito alla richiesta del figlio in assenza dell’intervento del legislatore che fornisca ed indichi ai giudici gli strumenti e le modalità per procedere ad interpello riservato, essendo numerose le possibili modalità attuative del principio sancito ed a seguito della riserva di legge espressamente prevista nella pronuncia della Corte Costituzionale.

Effettivamente, si prende atto che la censura della Consulta ed il ritardo del Parlamento nel colmare il vuoto normativo, in tal modo creatosi, hanno provocato numerosi contrasti nell’ambito della giurisprudenza di merito. In particolare, due diversi orientamenti sono maturati in seno ai Tribunali dei minorenni: da una parte, quello sopra riportato a cui aderisce il Tribunale di Milano e, dall’altra, quello che ammette la possibilità di interpello anche in assenza della legge, (anche) in forza dei principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella decisione del 25 settembre 2012 n. 33783, già nota.

3. La decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione

Le Sezioni Unite si sono, così, pronunciate su impulso del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, al quale è pervenuta la nota del Presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, al fine di sottoporre alla sua attenzione e valutazione il contrasto giurisprudenziale, sorto su una materia tanto delicata come quella che qui ci occupa, ed al fine di dirimerlo.

Senza presunzione di esaustività, la questione di diritto esaminata dal Procuratore Generale nella richiesta presentata ai sensi dell’articolo 363, comma 1, Codice di Procedura Civile, si concentra essenzialmente su due punti:

1) il giusto bilanciamento tra i contrapposti diritti delle persone coinvolte;

2) la corretta interpretazione della pronuncia della Corte Costituzionale ed il suo inquadramento nell’ambito delle diverse tipologie di provvedimenti e, quindi, i limiti dei poteri dei giudici di merito; in altre parole, se l’efficacia della sentenza debba essere rimandata al successivo intervento del legislatore recante la disciplina del procedimento mediante il quale il giudice possa interpellare la donna che ha partorito, secondo criteri che le garantiscano in modo assoluto il diritto alla riservatezza e in assenza del quale il Tribunale dei Minorenni non potrebbe dar seguito alla richiesta del figlio adottato, interessato a conoscere le proprie origini; o se, al contrario, l’efficacia del principio sancito dalla Consulta possa essere applicato dai giudici di merito, pur in assenza della legge.

Orbene, sulla base di tali considerazioni di diritto, la Suprema Corte spiega, innanzitutto, che la sentenza n. 278/2013 della Corte Costituzionale è una sentenza di accoglimento, con la quale viene dichiarata la illegittimità costituzionale di una norma, che, dunque, non potrà più avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

Il rigetto dell’istanza del figlio adottato di accedere alle informazioni relative alle proprie origini ed ai genitori biologici comporterebbe, secondo i Giudici di Legittimità, l’applicazione di una norma ormai rimossa dal nostro ordinamento, in quanto giudicata illegittima in forza dei principi sanciti dalla Carta Costituzionale.

Si tratta, inoltre, di sentenza “additiva di principio”, che dichiara la illegittimità costituzionale di una norma “nella parte in cui non prevede” qualcosa; per cui, per effetto di tale dichiarazione, la norma investita vive nell’ordinamento con l’aggiunta del principio ordinatore.

Pertanto, oltre a quella di fornire al legislatore un orientamento al fine di rimediare al vuoto normativo che si crea con la dichiarazione di incostituzionalità, le sentenze additive di principio svolgono una ulteriore funzione: cioè quella di fornire ai giudici, medio tempore, dei criteri guida al fine di individuare per il singolo caso la regola da applicarsi che sia espressione del principio emesso dalla Corte Costituzionale.

Sulla scorta del quadro normativo di riferimento ed in applicazione delle indicazioni contenute nel principio additivo, i giudici, quindi, possono dare seguito alla richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, mediante un procedimento che trovi il giusto equilibrio tra questo ed il diritto alla riservatezza della donna.

In ogni caso, l’eventuale conferma della volontà espressa nella dichiarazione di anonimato da parte della donna che ha partorito, resa a seguito di interpello, costituisce, un limite insuperabile per il figlio.

A questo punto, se, da un lato, sembra risolta la questione relativa all’accoglimento della domanda del figlio adottato, dall’altro, resta ancora aperta quella sul procedimento da applicarsi. Infatti, le stesse Sezioni Unite, nella pronuncia in commento, danno atto dell’applicazione di diversi protocolli adottati da alcuni Tribunali dei Minorenni, pur nel pieno rispetto di quel principio ordinatore sull’assoluta riservatezza dell’interpello; si auspica, pertanto, un sollecito intervento da parte del legislatore nazionale.