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Salute, vita, morte: diritto dei principi o nuova legge?

Salute, vita, morte:  diritto dei principi o nuova legge?
Salute, vita, morte: diritto dei principi o nuova legge?

Dilaga nei giornali, in TV e in rete la discussione sul Progetto di legge unificato, “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”, che dalla Commssione affari sociali della Camera passa all’Aula. Curioso: quasi tutti ne parlano come del disegno di legge “sul testamento biologico”, mentre si tratta del tentativo di dare una disciplina coerente a tutta la relazione di cura. La  discussione infuria, ma come un disco rotto che ricomincia sempre da capo: del progetto si ragiona  poco e male; quel che conta è rianimare le posizioni contrapposte sulla sacralità o disponibilità della vita, sulla libertà di morire, sullo “staccare la spina” e via dicendo. Pochissima informazione, molta disinformazione, falsificazioni e post-verità  in abbondanza.

Si ragiona, o sragiona, come se un diritto vigente non ci fosse. Non è così. Non c’è un vuoto da colmare. Anzi, c’è un diritto che a qualcuno non piace. Grazie al coraggio e alla tenacia dei promotori dei casi Welby ed Englaro e a una serie positiva di sentenze si è costruito in Italia un “diritto dei principi” riguardo alla relazione di cura in tutta la sua ampiezza: un diritto fondato sulla Costituzione, sulla Carta dei diritti dell’UE, sulla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e sulle Convenzioni internazionali in materia bioetica. Questo diritto definisce fondamenti, ratio, limiti della cura, struttura del rapporto terapeutico in funzione della dignità e della salute della persona. Niente di meno, e forse di più.

I principi enunciati  con chiarezza dalla giurisprudenza si snodano l’uno dopo l’altro come una filiera :

a) la salute è intesa come il miglior benessere conseguibile dalla persona nella sua individualissima totalità, fisica e psichica: quindi in ragione non solo di uno standard di valori misurabili ma della percezione di sé nel quadro di senso e di propositi di vita che ciascuno sente e coltiva;

b) la cura è perciò tale solo se appropriata e cioè: proporzionata secondo un rapporto scientificamente valido tra entità del trattamento e benefici attesi, e “a misura” del benessere della specifica persona e quindi delle sue propensioni, convinzioni, scelte di vita; una “beneficialità” standard non giustifica un intervento medico non desiderato o rifiutato; l’intervento senza o contro la volontà del paziente non è cura appropriata cioè non è cura.

c) una cura sproporzionata non può essere avviata; una cura avviata che si riveli sproporzionata deve essere interrotta; la valutazione di necessità/proporzionalità fatta nell’urgenza deve essere riconsiderata a urgenza conclusa.

d) è diritto inalienabile della persona rifiutare le cure; questo diritto va assistito con informazione, sostegno psicologico, offerta di cure alternative o di cure palliative; ma un rifiuto ultimo consapevole è una scelta

e) è diritto inalienabile di ciascuno quello di esprimere un rifiuto anche per il futuro, in vista di una propria sopravvenuta incapacità; questa volontà va rispettata; la parola “rispetto” va intesa nel modo più serio e ragionevole: la volontà va interpetata e concretizzata in relazione alla situazione concreta, con una traduzione in termini operativi che sarà fatta dai curanti  in accordo con le persone che hanno titolo a interloquire (familiari, fiduciario, rappresentante legale) ; in assenza di DAT, va comunque rispettata la volontà altrimenti manifestata e l’identità della persona.

Questi principi sono – occorre ripeterlo – diritto vigente: hanno basi normative di primo rango; sono frutto di una lettura giurisprudenziale, forte di ripetute decisioni conformi della Cassazione e del Consiglio di Stato. È solo ancora poco conosciuto. Ha questo diritto  una certezza sufficiente? Non forte come si vorrebbe, perché il consolidamento in giurisprudenza non può dirsi definitivo. C’è però un modo per dare maggiore certezza a medici e pazienti, ed è già in corso: la produzione di norme deontologiche e di linee guida di buona pratica clinica che recepiscono questi principi; il medico che si attiene a queste linee difficilmente sarà  ritenuto in colpa in sede giudiziale.

Rispetto a questo stato di cose, quali i pregi e i difetti, quale il senso del progetto?

Il progetto ha due pregi maggiori: a) non disegna una legge  “sul testamento biologico” ma un quadro coerente di tutta la relazione di cura, tendenzialmente conforme al “diritto dei principi”; b) ha nell’insieme una buona qualità, che lo distacca non poco dalla produzione legislativa degli ultimi anni  in materia di salute e di bioetica, e da altri progetti in materia di fine vita. Tra i pregi più specifici: la previsione di una figura di fiduciario del paziente; la disciplina della pianificazione condivisa di cure; la previsione di mezzi informatici di raccolta del consenso per le persone non in grado di esprimerlo con i mezzi ordinari; una disciplina snella delle dichiarazioni anticipate; e altri che richiederebbero un commento minuto.

Ha pure lacune e difetti: non definisce i fondamenti e requisiti della cura; non prevede espressamente il limite della proporzionalità; mantiene una formalizzazione del consenso tradizionale che può avvalorare la disastrosa esperienza modulistica che stiamo vivendo; le Dat sono disciplinate in modo tale che  in sede di attuazione, può prevalere una deriva burocratica.

Ma con tutto ciò, il progetto è uno specchio parziale del diritto dei principi vigente, nei quali certamente si incastona. E qui è il senso del progetto e della battaglia politica che è ripresa con tanto clamore. Non si lotta per  introdurre o bloccare  un nuovo diritto, ma per consolidare il diritto dei principi o per  tornare indietro. La battaglia contro il progetto è una battaglia per arretrare di vent’anni.

E allora: sperare che passi? sostenerlo perché passi? Il cuore direbbe ebbene sì, ma…c’è un problema serio, serissimo, che non  sta nel progetto, ma nella macchina politico-legislativa. Il problema è che in questa materia gli equilibri di un testo normativo sono fragilissimi; e che la discussione parlamentare si è sempre dimostrata deleteria in termini di qualità fino a esempi ben noti di idiozia legislativa. Questa  pericolosità  è evidente nella  pletora mediatica di esternazioni di alcuni fra i nostri “legislatori”, capaci di  esprimere con gran pompa e sicumera affermazioni che rivelano ignoranze elementari e soprattutto falsificazioni grossolane. Fa rabbrividire l’idea che in nome della “battaglia politica” si metta mano con questa impavida supponenza  a norme con cui dovremo fare i conti nella vita quotidiana dell’ospedale, nei reparti di terapia intensiva,  nelle sofferenze di chi spera di morire presto. Quante volte, a sentire questi Soloni di talk show,  ci è venuta voglia di chiedere se hanno un padre, una madre, un marito, una moglie, un compagno, un figlio nelle condizioni su cui pontificano?

È questo il timore, la grande e sconsolata apprensione: dopo avere conquistato durissimamente un diritto dei principi che può funzionare, ci capiterà di vederlo sfregiato e rotto da un prodotto legislativo di contrattazione, che genererà altri anni o lustri di battaglie  giudiziarie? E questa è la tentazione: sperare- lo dico con amarezza - contro ogni desiderio e proposito portato avanti per anni, che la legge cada; che la certezza del diritto dei principi si consolidi intanto, entri nella cultura  di medici, giuristi, cittadini, pervada  la deontologia e linee guida di pratica clinica. Che un legislatore migliore – se lo avremo – la renda un giorno più  certamente e chiaramente fruibile.