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Certezza del diritto e altro ancora: commento della giurisprudenza penale di legittimità del 2016

Certezza del diritto e altro ancora: commento della giurisprudenza penale di legittimità del 2016
Certezza del diritto e altro ancora: commento della giurisprudenza penale di legittimità del 2016

Premessa

Come d’abitudine, l’ufficio del Massimario della Cassazione ha pubblicato ad inizio anno la relazione in cui sintetizza e ordina gli orientamenti espressi dalla Suprema Corte nell’anno precedente.

È un’occasione preziosa che ha un duplice pregio: mette a disposizione una raccolta ragionata di scelte interpretative e chiarisce il senso che i giudici di legittimità attribuiscono alla propria funzione.

È la stessa relazione a riconoscerlo: “Si tratta di una analisi della giurisprudenza non limitata alla mera rappresentazione delle sentenze, con elencazione delle massime. Lo sforzo compiuto è stato quello di individuare le ragioni “intrinseche” delle decisioni intervenute, con riguardo alle esigenze sostanziali sottese ed alle tecniche argomentative utilizzate”.

Ciò perché “i principi e la loro ordinata registrazione possono contribuire a realizzare l’esigenza costituzionale della certezza del diritto, intesa come strumento per l’attuazione del superiore principio della uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (…) rispetto al quale mal si concilia la possibilità che classi omogenee di fatti siano decise in senso asimmetrico” (pag. 24 della relazione).

La relazione, per il solo fatto di essere pubblicata e offerta al pubblico, acquisisce poi un’ulteriore valenza: non solo strumento di lavoro ad uso interno ma mezzo di comunicazione  esterna e di sollecitazione al confronto: la giurisdizione dà conto di sè e consente che i suoi prodotti vengano verificati e condivisi o criticati.

È giusto raccogliere questo invito perché le decisioni di legittimità non solo rendono concrete e individualizzano le previsioni astratte e generali del legislatore ma influenzano in modo rilevante la vita dei cittadini, indicandogli ciò che è permesso e ciò che è vietato e definendo la dimensione delle loro libertà.

Si guarderà allora con attenzione agli spunti più significativi della relazione.

Tutte le volte che sarà necessario, si spingerà lo sguardo più oltre nella convinzione che le decisioni giudiziarie e la giurisprudenza complessiva non possano esaurire in se stesse la loro giustificazione. Occorrono termini di comparazione esterni, scelti in modo da verificare la tenuta dell’opera complessiva dei giudici e la loro capacità di attribuire un senso accettabile alle norme.

Si procederà senza alcun pregiudizio positivo o negativo. Le decisioni di giustizia meritano il più alto rispetto in quanto espressioni di una funzione statuale fondamentale. Ma è giusto guardarle per quelle che sono, opere umane, influenzate – e non potrebbe essere altrimenti - da una congerie di fattori: visioni personali, spirito dei tempi, spinte sociali, input mediatici e quant’altro ancora.

Di questo si parlerà nei paragrafi che seguono. Lo si farà selettivamente, privilegiando gli orientamenti che, più degli altri, permettono di comprendere se i giudici di legittimità abbiano assicurato non solo la certezza del diritto ma anche una visione costituzionalmente orientata, un adeguato coordinamento con la legislazione sovranazionale che influenza il nostro ordinamento e, ultimo ma non meno importante, il rispetto dei limiti oltre i quali l’attività interpretativa si trasforma in una vera e propria creazione di diritto.

Si presterà attenzione anche alle parole: quelle che i giudici interpretano e le altre che usano per motivare le decisioni. Non certo per un’inutile analisi stilistica ma perché il linguaggio non è mai neutro ed esprime visioni, al pari dei concetti di cui è veicolo.

 

La messa alla prova: in particolare l’impugnazione del provvedimento di rigetto

L’istituto della messa alla prova, disciplinato dagli artt. 168 bis e ss. Cod. pen., è stato introdotto dalla Legge 67/2014 che lo ha configurato come una causa estintiva del reato.

La sua funzione è chiarissima: agevolare la deflazione dei procedimenti penali e offrire in chiave rieducativa un percorso di reinserimento a coloro che subiscano un procedimento per un reato di non elevata offensività.

La messa alla prova è parte integrante del pacchetto di misure legislative che dovrebbero ovviare alle critiche impietose mosse dalla Corte europea dei diritti umani al nostro Paese per la sua incapacità di far fronte al cronico sovraffollamento carcerario.

La novità dello strumento e l’insufficiente chiarezza di talune delle norme che lo disciplinano hanno reso necessari plurimi interventi della giurisprudenza di legittimità.

La questione qui esaminata riguarda l’impugnazione dell’ordinanza predibattimentale di rigetto della domanda di ammissione alla messa in prova.

Come spesso accade, si erano formati due orientamenti contrapposti, il primo favorevole all’immediata ricorribilità per cassazione (con la facoltà aggiuntiva di ripresentare la richiesta nel successivo grado di giudizio), il secondo che invece ravvisava la necessità di appellare il provvedimento solo unitamente alla sentenza di primo grado.

Inevitabile il ricorso alle Sezioni unite che hanno risolto la questione con la sentenza n. 33216 del 31 marzo 2016, Rigacci, aderendo al secondo indirizzo.

Il collegio di legittimità si è mostrato consapevole della divergenza della sua scelta rispetto alle caratteristiche essenziali che il legislatore ha attribuito all’istituto: ammissione di un nuovo esame in secondo grado della domanda di messa alla prova a fronte di una chiarissima indicazione legislativa volta a contenere la fase valutativa al più tardi entro la dichiarazione di apertura del dibattimento; conseguente depotenziamento dell’idoneità deflattiva dell’istituto.

Ciò nonostante, ha ritenuto prevalente l’interesse dell’accusato al riesame nel merito della sua domanda.

C’è ancora un altro aspetto degno di nota: nella vicenda processuale sottostante la domanda di accesso al beneficio era stata proposta per la prima volta nella fase predibattimentale, sebbene si fosse tenuta l’udienza preliminare. Ciò perché la pubblica accusa aveva riqualificato il fatto e contestato una diversa fattispecie di reato che, a differenza della precedente, rientrava nei limiti edittali fissati dall’art. 168 bis.

La relazione del Massimario (pag. 67) ammette candidamente che “A rigore, dunque, l'istanza sarebbe stata inammissibile” (la contestazione iniziale comportava la necessità dell’udienza preliminare e in tal caso la domanda di messa alla prova, ai sensi dell’art. 464 c.p.p., avrebbe dovuto essere presentata entro la discussione conclusiva dell’udienza stessa e sarebbe stata dichiarata inammissibile per le ragioni già chiarite).

Segue la giustificazione: la nuova contestazione, se fatta per tempo, avrebbe legittimato una citazione diretta a giudizio e reso possibile all’imputato chiedere la messa alla prova fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento;  è quindi conforme alla ratio della norma ritenere ammissibile la domanda tardiva, così tenendo conto sia della natura sostanziale della messa alla prova sia della sua finalità deflattiva.

Sicchè – prosegue la relazione – sarebbe possibile “l'allargamento delle maglie di accesso al beneficio in commento fino a ricomprendere l'ipotesi in cui l'imputato, pur in presenza di una contestazione che esuli dai casi di cui all'art. 550, cit., presenti, ugualmente, prima dell'apertura del dibattimento, l'istanza di sospensione, prospettando una qualificazione del fatto a lui favorevole”.

La soluzione delle Sezioni unite esprime una logica piuttosto faticosa.

Vuole tutelare l’interesse dell’accusato ad avere una risposta meditata ma gli nega la facoltà di impugnare immediatamente il provvedimento di rigetto perché – si afferma – è bene che anche il giudice di seconda istanza possa dire la sua sulla base di un apposito punto di gravame nel merito. Eppure, l’indirizzo scartato non solo prevedeva l’immediata ricorribilità ma ammetteva esplicitamente il diritto dell’interessato a ripresentare la domanda al giudice del grado successivo.

Riconosce l’importanza dello scopo deflattivo ma tiene potenzialmente aperta la fase delibativa di merito della domanda fino al giudizio di appello.

Soprattutto, così facendo, configura la messa alla prova in modo sensibilmente diverso da quello immaginato dal legislatore.

La disciplina legislativa ha una sua coerenza di fondo: l’istituto serve a decongestionare il processo penale sicchè chi vuole cogliere l’opportunità deve farlo entro termini tassativi che, per riconoscimento unanime, sono decadenziali; specularmente, il provvedimento giudiziale deve essere dato tendenzialmente nella stessa udienza in cui la domanda è stata presentata, o in alternativa in un’udienza camerale ad hoc.

La possibilità dell’accusato di reagire al rigetto della sua istanza è ampiamente tutelata e strutturata con chiarezza: se il provvedimento negativo è stato emesso nelle indagini preliminari, l’interessato può infatti ripresentare la domanda al giudice dibattimentale; in generale, il provvedimento decisorio può essere oggetto di ricorso per cassazione ad opera sia dell’imputato che del PM. Non sono contemplati altri mezzi di impugnazione, ivi compreso l’appello.

Non sembra azzardato a questo punto affermare che le Sezioni unite hanno ignorato sia il tenore letterale delle norme prese in esame (sostanzialmente riscrivendole) che la volontà legislativa, con buona pace dei criteri interpretativi fissati nelle Preleggi.

Di più: si fatica a comprendere il senso di questa operazione, sembrando che l’interesse processuale e sostanziale dell’accusato non ne esca affatto rafforzato ma semmai frustrato.

 

La nuova configurazione del delitto di false comunicazioni sociali e il rilievo delle operazioni valutative

L’art. 9 della Legge 69/2015 ha parzialmente modificato l’art. 2621 Cod. civ. abrogando l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” che seguiva all’espressione “fatti materiali non rispondenti al vero” e aggiungendo l’aggettivo “rilevanti” ai fatti materiali.

Ne è derivato un dibattito incentrato sul significato che, a seguito della novella, si deve attribuire al termine “fatto” contenuto nella fattispecie incriminatrice.

La questione del contendere è stata se “la nozione di fatto (…) ricomprenda nell’area punitiva della norma incriminatrice soltanto i dati oggettivi della realtà sensibile, oppure possono essere false anche le valutazioni di bilancio, ossia le stime di valore contabile in esso contenute”, tema questo “potenzialmente dirompente posto che quasi tutte le voci di bilancio sono frutto di una qualche valutazione” (pag. 167).

I giudici di legittimità si sono divisi, dando vita a due orientamenti inconciliabili.

Il primo di essi, espresso da Sez. 5^, sentenza n. 33774/2015, Crespi, ha ritenuto che l’eliminazione dell’inciso avesse comportato l’abrogazione parziale del falso valutativo.

Il secondo, espresso dalla medesima sezione con la sentenza n. 890/2015, Giovagnoli, si è detto al contrario convinto della sovrapponibilità tra la vecchia e la nuova disciplina del falso in bilancio e della conseguente permanenza della rilevanza penale del falso estimativo.

Una questione non proprio nuova, per la verità, se si considera la risalenza nel tempo, ben prima della riforma del 2015, della questione sulla possibilità astratta, negata da più di uno studioso, di considerare falsa una valutazione di bilancio.

Bisogna comunque ricordare che nella visione maggioritaria, soprattutto in ambito giurisprudenziale, la falsità ricorreva tutte le volte in cui fosse stato alterato il vero legale attraverso la violazione dei principi normativamente richiesti di chiarezza e precisione. Questa alterazione, beninteso, era considerata possibile anche se compiuta attraverso una valutazione.

Sullo sfondo, comunque, l’argomento di maggior peso a favore della rilevanza delle valutazioni era la sostanziale impossibilità di distinguere, nel contesto del bilancio che si fonda in larga parte su stime, tra verità oggettiva e giudizi o previsioni. Sicchè, ove fosse prevalsa la tesi dell’esclusione dei fatti estimativi dall’area della rilevanza penale, si sarebbe per ciò stesso varata un’interpretazione abrogativa della fattispecie.

Finì quindi per prevalere un indirizzo che, usando come perno il criterio della ragionevolezza, attribuiva indiscutibile rilievo penale alle valutazioni discrezionali così irragionevoli da trasformarsi in veri e propri artifici contabili.

La modifica apportata dalla Legge 69/2015 ha ovviamente rilanciato la discussione e dato vita al conflitto che si è visto. 

L’indirizzo propenso a ravvisare l’abrogazione parziale ha utilizzato tutti i principali criteri interpretativi: il tenore letterale (la pura e semplice scomparsa dell’inciso), la ratio legis  (desunta dal nuovo oggetto dell’ipotesi omissiva, cioè i fatti materiali rilevanti e non più le informazioni, sottolineando con ciò l’intento legislativo di togliere rilievo penale ad ogni condotta valutativa) e il criterio sistematico (nella fattispecie di ostacolo alla vigilanza ex art. 2638 Cod. civ. l’inciso “ancorchè non rispondenti al vero” è stato mantenuto il che  conferma che il legislatore ha voluto operare una precisa distinzione).

L’indirizzo di segno opposto ha affermato, per contro, che “Qualora (…) le valutazioni intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa e possono, quindi, dirsi veri o falsi”.

Ha inoltre valorizzato il dato testuale previgente, osservando che quando il legislatore usa l’avverbio “ancorchè” sta formulando una proposizione concessiva alla quale non si può attribuire alcuna rilevanza decisiva in quanto “ancillare” rispetto a quella principale e quindi dotata di mera valenza esplicativa o chiarificatrice. Ne deriva, anche per questa ragione, che la soppressione dell’inciso non toglie e non aggiunge nulla alla disciplina precedente.

Non è mancato un ulteriore approfondimento semantico, questa volta incentrato sull’aggettivo “materiale” che segue al termine “fatto”.

Materialità, in questa visione, corrisponde a essenzialità e, unitamente alla rilevanza (che suggerisce a sua volta un’imprescindibilità a fini informativi), allude a tutti i dati essenziali che consentono di offrire una “rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico di esercizio”.

Ne consegue che i fatti economici inseriti nel bilancio per assicurarne la finalità informativa non possono essere intesi come fatti in senso naturalistico ma come dati informativi il che vale sia per gli enunciati descrittivi che per quelli estimativi.

È questo il quadro in cui sono intervenute le Sezioni unite con la sentenza n. 22474/2016, Passarelli.

Il collegio ha definito il bilancio come un “documento dal contenuto essenzialmente valutativo il cui redattore compie valutazioni guidate” secondo un metodo convenzionale in gran parte regolato dalla normativa civilistica.

Non ha senso contrapporre i fatti materiali alle valutazioni perché “un bilancio non contiene fatti ma il  racconto di tali fatti. Vale a dire: un fatto, per quanto "materiale", deve comunque, per trovare collocazione in un bilancio, essere "raccontato" in unità monetarie e, dunque, valutato (o se si vuole apprezzato)”.

E ancora: “A ben vedere, insomma, l’atto valutativo comporta necessariamente un apprezzamento discrezionale del valutatore ma si tratta, nel caso dei bilanci (…) di una discrezionalità tecnica. Ebbene le scienze contabilistiche appartengono senz’altro al novero delle scienze a ridotto margine di opinabilità; pertanto, la valutazione dei fatti oggetto di falso investe la loro materialità”.

La restante parte della motivazione ha ricalcato le argomentazioni della sentenza Giovagnoli, cui ovviamente le Sezioni unite hanno aderito, sicchè la si può omettere.

La decisione fin qui commentata appare largamente condivisibile.

Non si può seriamente mettere in dubbio che il bilancio sia un documento interamente caratterizzato in senso valutativo e che ciò dipenda in larga parte da indicazioni legislative. È eloquente in tal senso l’art. 2423 bis Cod. civ. che elenca i principi di redazione di tale atto. Quando dispone che la valutazione delle voci sia fatta secondo prudenza, che queste siano rilevate e presentate tenendo conto della sostanza dell’operazione o del contratto, che si tenga conto dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, questa norma non suggerisce ma prescrive stime discrezionali affidate al filtro del redattore e comunque congrue alla finalità di corretta informazione che il  bilancio deve assolvere.

È quindi altrettanto indiscutibile che la pretesa abrogazione dei falsi estimativi equivarrebbe ad un’abrogazione integrale del delitto di false comunicazioni sociali e creerebbe un intollerabile vuoto di tutela per un bene di elevato valore giuridico.

Ciò che qui si vuole mettere in rilievo, tuttavia, non è tanto la condivisibilità della scelta interpretativa quanto piuttosto alcuni passaggi testuali della motivazione che, per un verso o per un altro, meritano una sottolineatura.

Colpisce l’immagine del bilancio come un racconto. Fatto di conversioni monetarie, d’accordo, ma pur sempre un racconto. È come se l’estensore si fosse concesso un attimo di pausa, si fosse liberato degli obblighi linguistici connessi al suo ruolo e avesse scelto di usare parole per una volta comprensibili all’uomo comune. Il che è insolito in generale ma addirittura imprevedibile se rapportato al tema dei bilanci che certo non è tra quelli che possono accendere passioni.

Qui piace pensare che sia un primo passo, consapevole o no poco importa, per ridurre la distanza tra il linguaggio iniziatico della casta giuridica e quello di tutti gli altri. Cosa utile per rendere più comprensibili ai cittadini le sentenze che vengono emesse in loro nome e agevolarne in tal modo il controllo sociale.

Un accenno, infine, all’inclusione della contabilità tra le scienze “a ridotto margine di opinabilità”.

È condivisa l’idea che la contabilità e l’economia aziendale siano branche non autonome della scienza economica. Ebbene, uno dei massimi pensatori economici dello scorso secolo, l’austriaco Joseph Schumpeter, così risolse il  quesito sulla classificazione degli studi economici:  “Al pari della fisica teorica, la teoria economica non può  procedere senza schemi o modelli semplificatori; le sue proposizioni possono essere definite ipotesi, assiomi, postulati, assunzioni o persino principi; ma a rigor di logica, sono arbitrarie creazioni dell'analista,  strumenti foggiati al fine di produrre risultati interessanti[1].

Né scienza nè ridotto margine di opinabilità, allora, ma solo ipotesi più o meno rigorose, esattamente come le valutazioni di bilancio.

La riforma delle misure cautelari e i suoi effetti

Negli ultimi anni il legislatore è più volte intervenuto sulla  materia cautelare, con riforme che, nel loro complesso, dovevano dichiaratamente restituire alla custodia in carcere la sua natura di strumento di ultima istanza, utilizzabile solo nel caso di verificata inidoneità di strumenti meno afflittivi.

La decifrazione interpretativa dell’impatto delle riforme, iniziata dalla Corte di Cassazione nel 2015, è proseguita nell’anno successivo ed ha richiesto anche l’intervento delle Sezioni unite.

Un permanente banco di prova è il requisito dell’attualità del pericolo di fuga e di reiterazione del reato, novità introdotta dalla Legge 47/2015.

La declinazione di questo requisito in relazione al pericolo di reiterazione ha generato varie e non sempre conciliabili posizioni.

È emerso un primo orientamento, espresso ad esempio da Sez. 1^, n. 47199/2016, D’Avino, che non gli attribuisce un particolare e differenziato significato rispetto al preesistente requisito della concretezza del pericolo. Gli si è contrapposta un’altra visione, manifestata tra le altre da Sez. 3, n. 44933/2016, Stanzione, che invece considera attualità e concretezza in termini di autonomia ed esige di conseguenza una motivazione differenziata da parte del giudice della cautela.

Vi è stato infine, in posizione intermedia, un indirizzo, desumibile per esempio da Sez. 4, n. 19187/2016, Di Natale, secondo il quale occorre «quale che sia l’interpretazione che si voglia adottare a riguardo del requisito dell’attualità, che le condizioni dell’attività illecita sono ancora persistenti; e ove tali elementi non vengano reperiti la conclusione non può che essere quella dell’assenza di attuali esigenze cautelari».

Si inserisce nello stesso filone Sez. 4^, n. 8607/2016, Sinisi, che fa coincidere l’attualità con la riconosciuta esistenza di “occasioni prossime favorevoli”.

Sul conflitto sono intervenute, sia pure incidentalmente (l’oggetto centrale era il contrasto sul braccialetto elettronico per i detenuti agli arresti domiciliari), le Sezioni unite con la sentenza n. 20769/2016, Lovisi,  che si è apertamente schierata a favore dell’autonomia dei requisiti dell’attualità e della concretezza, avallando al tempo stesso l’argomento della “alta probabilità del determinarsi di occasioni favorevoli alla commissione di nuovi reati”.

Sembrava che potesse bastare ma, come ricorda la relazione del Massimario, “anche in relazione al periodo successivo alla sentenza Lovisi, non sembra possibile ritenere che sia ormai venuto meno il contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza delle Sezioni semplici. Non appare quindi fuori luogo ipotizzare una rimessione della questione controversa alle Sezioni unite” (pag. 216).

La stessa situazione caotica è dato registrare anche quando l’attualità è riferita al pericolo di fuga.

I contrasti segnalati nella relazione per l’anno 2015 sono proseguiti immutati nel 2016.

Si pretende talvolta che il rischio di fuga sia imminente (Sez. 2^, n.44526/2015, Castillo Quintana) mentre in altri casi (Sez. 5^, n. 7270/2015, Giugliano) si esclude che l’attualità «debba essere desunta da comportamenti materiali, che rivelino l'inizio dell'allontanamento o una condotta indispensabilmente prodromica».

In altri ancora (Sez. 2^, n. 45458/2016, Busu), secondo una logica che qui sfugge, l’attualità è stata affermata per il fatto che il sodalizio al quale apparteneva il ricorrente disponesse di una pluralità di appoggi logistici all’estero mentre è stato negato rilievo alla presentazione spontanea di costui alla polizia giudiziaria, sul presupposto che si trattasse di una strategia volta a precostituire una situazione a lui favorevole.

Un’altra questione di rilievo ha riguardato la convivenza tra il requisito dell’attualità e la presunzione relativa di esistenza delle esigenze cautelari sancita dall’art. 275 comma 3 c.p.p.

Occorreva stabilire se quella presunzione esonerasse dall’obbligo di una verifica sull’effettiva ricorrenza di una qualche esigenza cautelare oppure no.

Anche in questo caso i contrasti già insorti nel 2015 sono rimasti tali e quali nel 2016.

All’indirizzo (Sez. 6^, n. 42630/2015, Tortora, seguita da altre analoghe nel 2016) per il quale la valutazione dell’esistenza delle esigenze cautelari “deve precedere temporalmente e logicamente quella riferita alla scelta della misura concretamente adottabile” si è contrapposto l’altro (Sez. 3^, n. 38856/2016, Miano) per il quale “L’apparente antinomia tra l’art. 275 comma 3 e l’art. 274 c.p.p. non può essere risolta interpretativamente in favore della prevalenza della seconda, che è generale, laddove la prima norma, che sancisce la presunzione relativa, è speciale”.

C’è ugualmente conflitto tra chi sostiene che non esiste un obbligo motivazionale sull’attualità delle esigenze cautelari (Sez. 5^, n. 44644, Leonardi) e chi, per contro, ne ravvisa l’ineludibile necessità (Sez. 3^, n. 15927, Rappazzo).

Certezza del diritto, valorizzazione dello scopo legislativo, tutela della libertà personale come bene inviolabile? Ognuno giudichi da sé.

La ricognizione non sarebbe comunque completa se mancasse di prendere in considerazione la tematica del cosiddetto braccialetto elettronico.

La Legge 10/2014 ha modificato l’art. 275 bis c.p.p. prescrivendo al giudice che applica la misura degli arresti domiciliari di disporre, salvo che ne escluda la necessità, procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, dopo averne accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria e con il consenso dell’interessato.

È però accaduto che in un numero elevato di casi la polizia giudiziaria non disponesse degli strumenti necessari il che impediva l’esecuzione della misura.

Come di consueto, la scena si è divisa tra chi riteneva che questa evenienza giustificasse il ricorso alla misura più gravosa della custodia carceraria (tra le altre, Sez. 5^, n. 5065/2016, Berti) e chi, al contrario, affermava che l’impossibilità d’uso di quegli strumenti non dovesse privare l’interessato dell’opportunità di essere ammesso ad un regime meno afflittivo di quello carcerario, essendo già stata fatta una prognosi favorevole in tal senso.

A sanare il conflitto sono intervenute le Sezioni unite, con la già citata sentenza Lovisi.

Il principio di diritto affermato è stato che l’indisponibilità del congegno elettronico non produce alcun automatismo, né a favore della custodia cautelare in carcere né a favore degli arresti domiciliari per così dire semplici. Spetta quindi al giudice cautelare verificare preventivamente la disponibilità del congegno e, nel caso manchi, darne atto e valutare quale sia la misura più adatta a far fronte alle specifiche esigenze cautelari rapportabili al destinatario della richiesta cautelare.

Il presupposto della decisione è stato individuato nell’impossibilità di attribuire agli arresti domiciliari controllati la natura di misura cautelare autonoma.

Una soluzione saggia, capace di conciliare adeguatamente sicurezza sociale e diritto degli individui a non vedere sacrificata oltre il necessario la loro libertà personale.

 

Il reato di associazione mafiosa

Il tema, purtroppo, è di perenne attualità.

Per il forte radicamento delle organizzazioni criminali in molte parti nel nostro Paese, anzitutto. Per la mutevolezza di tali organizzazioni, sorprendentemente capaci di sopravvivere e rigenerarsi anche dopo le più intense ondate repressive e di convivere con la modernità, cui si adeguano con rapidità, sfruttando efficacemente le opportunità economiche e tecnologiche che ne derivano. Ma anche per le oggettive difficoltà di comprensione e analisi che la mutevole costanza del fenomeno mafioso, cui spesso si associa il concetto baumaniano di liquidità, provoca in chi deve perseguirlo, giudicarlo, fronteggiarlo legislativamente.

  • Concorso esterno ed effetti della sentenza Contrada

Un primo e ricorrente terreno di verifica è la fattispecie di concorso esterno.

Il principale input per la giurisprudenza dello scorso anno è venuto dalla più che nota sentenza Contrada c. Italia del 14 aprile 2015 della Corte EDU.

Nell’occasione l’Italia è stata riconosciuta responsabile della violazione dell’art. 7 della CEDU sul presupposto che la condanna inflitta al ricorrente per concorso esterno era stata irrogata per fatti commessi quando questa fattispecie non aveva ancora raggiunto il grado di chiarezza e prevedibilità, solo in presenza del quale si può affermare che un individuo è nelle condizioni di comprendere con esattezza gli effetti dei suoi comportamenti e può essere chiamato a risponderne.

L’immediata reazione della giurisprudenza nazionale è stata di rigetto verso una simile impostazione.

I giudici di legittimità (Sez. 2^, n. 34147/2015, Agostino e altri) hanno dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato degli artt. 110 e 416 bis cod. pen. – nella parte in cui consentono l’incriminazione del concorso esterno – per un preteso contrasto con gli artt. 25 comma 2 e 117 Cost. e 7 CEDU.

Chiave di volta della pronuncia è stato il disconoscimento della derivazione giurisprudenziale della fattispecie che deve invece essere considerata a tutti gli effetti di matrice legislativa.

Alle stesse conclusioni era arrivata, poco prima della sentenza Contrada,  la Consulta (sentenza 48/2015).

Le cose non sono cambiate nel 2016 ed anzi il principio della derivazione legislativa si è consolidato attraverso nuove conferme (sentenze nn. 18132/2016, Trematerra, e 2653/2016, Paron).

Risposta ugualmente negativa ha avuto un quesito collaterale, se cioè la sentenza Contrada fosse idonea a mutare la sorte di procedimenti definiti con sentenza irrevocabile per fatti assimilabili a quelli attribuiti al Contrada stesso e, in ipotesi, quale fosse lo strumento più opportuno per ottenere l’effetto perseguito.

Il caso probabilmente più noto è quello deciso da Sez. 5^, n. 28676/2016, Dell’Utri.

L’interessato, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti commessi prima del 1994, ha inoltrato alla Corte un ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. chiedendo la revoca della sentenza in applicazione dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile  per difetto dei presupposti legittimanti, non essendo stato riscontrato e neanche dedotto alcun errore di fatto nella sentenza impugnata. Non è stato quindi necessario che il  collegio decidente si confrontasse con la questione centrale degli effetti prodotti nell’ordinamento interno dalla sentenza Contrada.

L’interessato non ha desistito, tentando in seconda istanza la carta dell’incidente di esecuzione ma non ha avuto miglior sorte. Sia la Corte territoriale che la Cassazione (Sez. 1^, n. 44193/2016, Dell’Utri) hanno concluso nel senso dell’inammissibilità.

La motivazione di legittimità è di particolare interesse.

È stata anzitutto ammessa senza tentennamenti la rilevanza delle decisioni della Corte EDU anche per situazioni esterne identiche a quella decisa, sempre che siano state affermate, esplicitamente (in applicazione dell’art. 61 del Regolamento della Corte) o implicitamente, la natura generale della fonte della violazione e la necessità di misure riparatorie collettive.

È comunque indispensabile, se la violazione sia invocata da soggetti diversi dal ricorrente in sede europea e dipenda dall’applicazione di una norma di legge, stimolare un incidente di legittimità costituzionale della medesima per violazione dell’art. 117 Cost.

Solo di seguito, se la questione è accolta e la norma dichiarata incostituzionale, è possibile chiedere la revisione del giudicato (se occorra un nuova cognizione di merito) o proporre un incidente di esecuzione negli altri casi.

Nel caso di specie, il collegio di legittimità ha ritenuto che le condizioni presupposte per l’ammissibilità dell’incidente di esecuzione difettassero: la decisione di Strasburgo non poteva essere considerata un leading case di portata generale, le vicende processuali non erano identiche, la questione non poteva essere risolta in sede esecutiva poiché richiedeva scelte discrezionali tra differenti possibili opzioni, come tali precluse al giudice dell’esecuzione.

Un’ottima decisione che, oltre ad essere argomentata in piena coerenza alle norme nazionali ed europee, ha il merito di indicare un percorso chiaro che prima mancava.

  • Distinzione tra concorrente esterno e partecipe

Si è avvertita la necessità di distinguere in modo rigoroso tra queste due figure.

Sez. 1^, n. 21642/2016, Caravello, ha attribuito una valenza dinamico – funzionale al partecipe che è tale quando assume un ruolo effettivo e adempie a compiti funzionali agli scopi dell’organizzazione. È invece concorrente esterno chi, senza essere inserito stabilmente nell’associazione, fornisce un contributo causalmente rilevante per la conservazione e il consolidamento delle capacità operative, complessive o settoriali, della medesima.

Il contributo così caratterizzato permette di distinguere il concorso esterno da altre fattispecie, come ad esempio la procurata inosservanza di pena, per le quali è invece sufficiente un aiuto episodico ad uno o più singoli associati. 

  • L’insediamento di organizzazioni mafiose in territori diversi da quelli di origine

Come già si diceva, è un dato consolidato e progressivo la tendenza delle organizzazioni di tipo mafioso a “delocalizzarsi”, cioè a trasferire almeno in parte le loro attività criminali in luoghi diversi e distanti da quelli in cui sono nate e si sono consolidate.

Gli aggregati mafiosi migranti hanno da un lato, e non certo per ragioni nostalgiche, la necessità di preservare la loro natura: devono quindi mantenere un forte collegamento con la zona di origine perché da questo dipende la loro legittimazione ad accreditarsi, anche nelle zone di destinazione, come rappresentanti di un potere criminale riconosciuto e temuto; devono inoltre preservare le caratteristiche essenziali delle “case madri”, non perché temano “inquinamenti ideologici” ma perché sono le più adatte a ridurre i rischi dell’azione repressiva statuale.

Dall’altro lato, quegli stessi aggregati devono affrontare la sfida operativa connessa all’insediamento in territori e comunità sensibilmente differenti da quelli originari: comportamenti sociali almeno in parte distanti da quelli con cui  vi è familiarità, meccanismi economici più avanzati e complessi, opportunità di business più ampie e così via.

Serve allora un adeguato equilibrio tra conservazione e cambiamento che le mafie in movimento, per le ragioni esposte, tendono a cercare non negli interna corporis ma nelle loro manifestazioni esterne.

I mutamenti che ne conseguono sollecitano in più punti l’analisi giurisdizionale.

Tra questi: quand’è che un gruppo mafioso allontanatosi dal suo territorio di origine acquisisce sufficiente autonomia al punto che sia giustificata la competenza del giudice del luogo di destinazione? Quali i parametri da usare per una corretta soluzione della questione?

Le risposte dei giudici di legittimità sono tutt’altro che uniformi.

Per la verità, la relazione del Massimario (pagg. 487 e ss.) è improntata a un cauto ottimismo: “Ad una prima lettura delle motivazioni delle varie sentenze sorge, invero, il dubbio se per qualificare una "locale" come associazione autonoma sia sufficiente l'adesione di questa a moduli organizzativi che riecheggino, per rituali di affiliazione, ripartizione di ruoli e relative qualificazioni nominalistiche, organizzazioni criminali di storica fama criminale, ovvero sia necessaria l'esteriorizzazione od esternalizzazione del metodo mafioso, ossia la proiezione all'esterno di siffatta metodica criminale, con i consequenziali riflessi nella realtà ambientale, in termini di assoggettamento ed omertà. In realtà, il panorama giurisprudenziale complessivamente considerato, piuttosto che controverso, sembra convergere nella affermazione del principio secondo cui l'integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti”.

La relazione cita, come espressione di questa ormai raggiunta consapevolezza, Sez. 6^, n. 44667/2016, Napoli e altri, poiché nella visione ivi espressa “il dato probatorio rappresentativo di quello fenomenico assume un ruolo essenziale”.

La decisione evidenzia la necessità dell’uso del metodo mafioso il quale “deve trovare concreto riscontro nella progettualità e nell'azione del sodalizio, quale suo elemento intrinseco e costitutivo”.

Difatti, “La circostanza che i reati associativi siano, in via generale, concepiti come reati di pericolo in rapporto alla concreta potenzialità criminale del sodalizio non vale a minare il rilievo che l'associazione di stampo mafioso postula l'utilizzo del metodo”.

Sennonchè, “Al tempo stesso va considerato che le associazioni storicamente riconosciute sono state sussunte nella fattispecie come dato presupposto, essendo noto il loro operare in progress. Ed allora risulta sotto tale profilo comprensibile l'affermazione, secondo cui quando si parla di 'ndrangheta non vi è bisogno di ulteriori verifiche circa la concreta utilizzazione del metodo mafioso in rapporto alla riconoscibilità dello stesso, proveniente da una storicamente vissuta esperienza”.

Affermazione, questa, che viene immediatamente rapportata alla cosiddetta mafia silente, espressione che sarebbe nient’altro che una “figura retorica” e che comunque dovrebbe essere definita non più “come associazione criminale aliena dal cd. metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma avvalendosi di quella forma di intimidazione - per certi aspetti ancora più temibile - che deriva dal non detto, dall'accennato, dal sussurrato, dall'evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere”.

Dunque, “una mafia che non ha bisogno di dimostrare ulteriormente alcunché, perché essa è già riconosciuta”.

Si comprende a questo punto che, nella visione della sentenza Napoli, quando “la neo formazione si richiama, mutuandoli, ai canoni operativi di associazioni storicamente riconosciute” la prova dell’esistenza di un nuovo aggregato mafioso “risulta semplificata, essendo necessario e sufficiente verificare la effettiva riconoscibilità nella nuova struttura degli elementi richiamati, ciò alla condizione che l'operatività del sodalizio si sia comunque - e non solo potenzialmente - manifestata con la capacità di evocare in qualsiasi forma nel contesto di riferimento la forza intimidatrice del modello, quale suo elemento costitutivo”.

Aggiungono i giudici che “Parallelamente è necessario verificare se l’organismo dislocato sia o meno centro di imputazioni di scelte criminali. In caso di risposta negativa l'appartenenza del soggetto andrà riferita - anche sotto il profilo della competenza territoriale - alla consorteria di base.

Nel caso, invece, di risposta positiva dovrà verificarsi che l'esperienza criminale si inveri nel nuovo contesto - a prescindere dalla refrattarietà o meno del tessuto sociale, che può reagire in modo diverso alla prospettiva di una penetrazione della consorteria in profondità -, considerando le modalità di concreta manifestazione di quella realtà criminale, che non postula azioni eclatanti ma deve consistere nell'attuazione di un sistema incentrato sull'assoggettamento, derivante dalla forza dell'elemento associativo”.

La relazione prosegue (pagg. 493 e ss.) illustrando “gli elementi rivelatori dell’identità mafiosa della “locale” e “l’esteriorizzazione della metodologia mafiosa” utilizzati dalla sentenza Napoli.

Sono stati valorizzati – è doveroso riconoscerlo – elementi di elevata capacità indiziante e fortemente sintomatici dell’esistenza e dell’operatività di un organismo mafioso sicchè il merito della decisione appare ineccepibile.

Non è su questo, tuttavia, che si desidera porre l’attenzione in questa sede.

Contano piuttosto le parti definitorie, classificatorie e concettuali della sentenza, cioè quelle, non a caso sottolineate con grande rilievo dal Massimario, il cui effetto si spinge oltre i confini del giudicato e concorre a costituire il “formante giurisprudenziale” nel significato attribuitogli da Rodolfo Sacco.

Contano, come si diceva all’inizio, le parole.

Gli ampi passaggi testuali riportati in precedenza, se si è compreso bene il loro senso, possono essere così sintetizzati: l’evocazione di stilemi comportamentali di tipo mafioso comporta un onere probatorio ridotto circa l’uso effettivo e la riconoscibilità del metodo mafioso; un organismo criminale di nuova formazione è mafioso e autonomo se opera all’insegna di questi stilemi, ha la capacità di evocare la forza intimidatrice del modello cui si ispira ed è un centro di imputazione di scelte criminali; non occorrono, perché questo avvenga, azioni eclatanti, essendo sufficiente l’assoggettamento fisiologicamente derivante dalla forza associativa; se queste condizioni mancano, se cioè il neo organismo non è un centro di imputazione nel senso precisato, ciò non provoca il venir meno dell’accusa associativa ma la riferibilità dei comportamenti contestati alla casa madre e lo spostamento della competenza per territorio.

Criteri che, complessivamente considerati ed a prescindere – lo si ribadisce - dall’effettivo merito della specifica vicenda giudicata, sembrano coerenti al postulato secondo il quale la mafia si dimostra da se stessa.

Ancora una volta, ognuno valuti se queste conclusioni siano in linea con la premessa dell’essenzialità del dato probatorio rappresentativo di quello fenomenico e della decisività dei requisiti dell’attualità, effettività e oggettiva riscontrabilità della capacità intimidatoria.

 

L’uso a fini intercettativi dei captatori informatici

L’argomento è stato oggetto di un rilevante chiarimento delle Sezioni unite, contenuto nella sentenza n. 26889/2016, Scurato.

Il collegio ha affermato che “anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa, è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti, mediante l’installazione di un captatore informatico in dispositivi elettronici portatili.

L’intercettazione è tuttavia limitata ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata, anche di tipo terroristico, per tali dovendosi intendere quelli elencati nell’art. 51 commi 3° bis e 3° quater c.p.p. nonché gli altri “comunque facenti capo ad un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”.

L’oggettivo rilievo della decisione ha provocato una vasta eco, spintasi ben al di là della stretta cerchia giuridica. Sono seguiti plurimi commenti tecnici, reazioni sociali favorevoli e contrarie, tra le quali anche un appello pubblico sottoscritto da decine di autorevoli accademici penalisti, preoccupati della possibile lesione di valori costituzionali primari, prese di posizione politiche che si sono riverberate nel testo di proposte di legge attualmente in discussione, articoli di stampa e quant’altro.

L’ampiezza del dibattito rende inutile qualsiasi commento aggiuntivo sulla decisione.

Può invece servire uno sguardo agli eventi giurisprudenziali successivi.

Lo si fa partendo da un preciso presupposto, quello delle caratteristiche essenziali delle Sezioni unite.

Si può convenire che gli interventi di quest’organo servono o dovrebbero servire a tre scopi: la realizzazione al più alto livello della funzione nomofilattica; l’invio di un warning al legislatore in presenza di norme dal significato incerto o di contenuto discutibile o comunque inadeguate a soddisfare gli scopi per cui sono nate; la segnalazione all’intera collettività di un problema destinato ad avere riflessi non solo sui processi ma anche sulle vite dei cittadini, sul modo in cui i loro diritti e doveri si compongono in un equilibrio più generale, sul livello di garanzie che l’ordinamento è disposto a riconoscere.

La decisione Scurato è sicuramente riuscita a soddisfare gli ultimi due scopi: strati insolitamente estesi della collettività hanno avvertito l’importanza della posta in gioco e il legislatore si è mostrato consapevole dell’opportunità di una disciplina normativa più accurata.

Le Sezioni unite paiono invece avere mancato il primo obiettivo: le argomentazioni usate non hanno dissipato, quantomeno non completamente, le incertezze interpretative e, soprattutto, sono state esse stesse fonte di ulteriori ambiguità.

Lo riconosce, sebbene in modo paludato, anche il Massimario (pag. 540): “Le prime valutazioni della decisione illustrata sono state molto differenziate”.

La relazione cita poi Sez. 4^, n. 40903/2016, Grassi e altri, per la sua pertinenza al tema dell’impiego dei cosiddetti virus informatici di Stato.

Si riporta per adesso il commento iniziale che se ne fa: “La vicenda illustrata, invero, rende ulteriormente manifesta la complessità del tema”.

Già, ma bisogna capire perché e per farlo è bene affidarsi alle stesse parole dell’estensore della sentenza Grassi: “gli investigatori scoprivano che gli odierni ricorrenti erano soliti frequentare alcuni internet point. Verificando i computer colà utilizzati, giungevano così ad individuare  una serie di caselle di posta elettronica … attraverso le quali gli imputati inviavano e ricevevano e-mail intrattenendo così una corrispondenza con i loro referenti … Tali contatti informatici avvenivano secondo due diverse modalità. In alcuni casi i messaggi di posta elettronica venivano normalmente spediti in via telematica … In altri … veniva invece adottato il metodo del salvataggio nella cartella “bozze”. Venivano cioè scritte e-mail che non venivano inviate ma rimanevano salvate in modalità “bozze” e potevano essere pertanto visionate da chi, in possesso delle credenziali e della password, successivamente avesse accesso alla casella di posta elettronica … Ebbene, mentre le e-mail ricevute o inviate sono state oggetto di una “normale” intercettazione dei flussi telematici in entrata e in uscita dai PC ubicati nei citati internet point, all’acquisizione dei messaggi lasciati “in bozza” la P.G. è invece giunta secondo una diversa modalità: gli operanti sono infatti direttamente “entrati” nelle varie caselle di posta elettronica dopo essersi procurate le relative password attraverso l’osservazione e il controllo a distanza degli imputati (mediante virus informatici) nell’atto in cui questi digitavano tali password sulle tastiere dei computer in uso presso gli internet point …”.

Questi i fatti, cui è seguito l’inquadramento dei giudici, nei termini che seguono:

L’acquisizione delle password è avvenuta attraverso l’inoculazione di un virus informatico nel computer usato dagli indagati presso l’internet point”.

Un dettaglio ritenuto poco rilevante perché  “Si è usato il programma informatico … così come si è da sempre usata la microspia per le intercettazioni telefoniche o ambientali”.

Un’affermazione piuttosto sorprendente se si considera che il captatore non era stato usato per ascoltare conversazioni telefoniche o tra presenti ma per carpire credenziali di accesso a un servizio di posta elettronica.

Quanto alle mail inviate e ricevute rinvenute nell’account di posta, il collegio le ha considerate comprese nel genere dei flussi comunicativi intercettabili ai sensi dell’art. 266 bis c.p.p.

Ha per ciò stesso negato la loro natura di corrispondenza perché mancava un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente e accreditato per contro la loro appartenenza alla categoria dei documenti di cui all’art. 234 c.p.p.

La soluzione del problema classificatorio e la corrispondente individuazione dello strumento applicabile (intercettazione o sequestro) non erano comunque strettamente necessarie perché, comunque, il GIP aveva autorizzato l’operazione con un decreto che era idoneo a legittimare qualunque forma di acquisizione.

Anche questa complessiva argomentazione non è esente da critiche.

Le Sezioni unite (n. 6/2000, D’Amuri) avevano infatti sostenuto ben altra tesi, che cioè si possa parlare di flussi comunicativi intercettabili solo in relazione a “flussi relativi ad un sistema tecnico che s'innesta nella disciplina delle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche, captate a sorpresa nel corso del loro svolgimento”, condizione che, evidentemente, difettava per le mail inviate e ricevute in epoca precedente alla loro acquisizione.

Quanto poi alle modalità acquisitive, una volta escluso lo strumento intercettivo, non può che farsi ricorso al sequestro presso il gestore del servizio secondo le forme previste negli artt. 254 e 254 bis c.p.p. e alle condizioni stabilite dall’art. 247 comma 1 bis c.p.p.

Il che non si concilia affatto col ragionamento del collegio, secondo il quale che sia intercettazione o sequestro poco importa, tanto un decreto autorizzatorio c’è comunque.

È bene chiarire, intanto, che il decreto c’era ma autorizzava operazioni intercettive e non certo sequestri.

Ed è chiara a chiunque la differenza tra i due mezzi: atto a sorpresa la prima, che per sua stessa natura esclude ogni comunicazione preventiva a chi lo subisce; atto assistito da un consistente pacchetto di garanzie il secondo, ivi compresa la possibilità, ex art. 257 c.p.p., di chiedere il riesame del decreto di sequestro.

Considerazioni che valgono allo stesso modo per l’acquisizione delle mail conservate nella cartella “bozze”.

La loro acquisizione coattiva, preceduta da un’attività corrispondente tecnicamente ad una perquisizione, non poteva certo prescindere da un provvedimento di sequestro che nel caso di specie mancava e non poteva essere sostituito da un decreto di autorizzazione per attività di intercettazione.

Una certa confusione, in conclusione. Istituti differenti assimilati senza alcuna plausibilità, garanzie riconosciute dal legislatore e negate in sede giurisdizionale.

Soprattutto, è stato minimizzato l’uso del captatore informatico, riservandogli poche e banali parole.

Ecco, magari adesso si comprende un po’ meglio a cosa alludesse il Massimario quando ha menzionato la sentenza Grassi come vicenda emblematica della complessità del tema.

 

Qualche questione di dettaglio

Si desidera concludere questo scritto con la semplice citazione di alcune questioni e delle decisioni prese al riguardo.

  • Termini di custodia cautelare e deposito della sentenza

Il tema dibattuto era se, nel caso in cui il giudice depositi la motivazione della sentenza in anticipo rispetto al termine legislativo (che sia quello previsto dalla legge o quello diverso indicato dal giudice), il termine della custodia cautelare sospeso ai sensi dell’art. 304 comma 1 lettera c) c.p.p. riprendesse a decorrere dalla data dell’effettivo deposito o da quella risultante dal periodo indicato in dispositivo.

La soluzione prescelta (Sezioni unite, n. 33217/2016, Cozzolino) è che la sospensione dei termini di durata della custodia cautelare cessa alla scadenza del termine stabilito dalla legge o indicato dal giudice.

  • Inammissibilità del ricorso in Cassazione e prescrizione

Si trattava di chiarire se la Corte di cassazione, adita con ricorso inammissibile, possa dichiarare la prescrizione del reato intervenuta prima della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita dalla parte in quella sede o nei motivi di ricorso.

Le Sezioni unite (n. 12602/2015) hanno affermato che l’inammissibilità del ricorso preclude la possibilità di rilevare d’ufficio l’estinzione del reato per prescrizione. 

  • Inammissibilità parziale del ricorso per Cassazione e prescrizione

Occorreva chiarire se, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna che riguardi più reati, cioè una sentenza plurima o cumulativa, l’ammissibilità di motivi afferenti uno o più di essi renda, per ciò solo, ammissibile il ricorso anche relativamente agli altri reati, i cui pertinenti autonomi motivi risultino inammissibili, con la conseguenza di consentire la dichiarazione di prescrizione anche per essi, qualora sia trascorso il relativo termine.

Le Sezioni unite (sentenza 27.5.2016) hanno risolto il contrasto affermando che anche in questo caso la prescrizione è preclusa, sia pure limitatamente ai reati cui si riferiscono i motivi ritenuti inammissibili.

  • Estradizione e diritti fondamentali

Bisognava stabilire a chi spettasse la prova del rischio per l’estradando di subire trattamenti incompatibili con i diritti fondamentali della persona.

Sez. 6^, 22827/2016, Ramirez Melendez, ha affermato che essa incombe, in prima battuta, sullo stesso destinatario.

Queste pronunce hanno un tratto decisamente omogeneo. Si trattava in tutti i casi di stabilire se consentire oppure no un vantaggio sostanziale (l’estinzione del reato per prescrizione) o procedurale (l’alleggerimento dell’onere probatorio). Si poteva scegliere in varie direzioni, senza che gli equilibri di sistema ne risentissero, eppure si è sempre optato per negare quel vantaggio.

 

Osservazioni conclusive

Come si è chiarito fin dalla premessa, questo scritto non si proponeva di analizzare per intero il complesso delle decisioni che il Massimario ha ritenuto rilevanti per illustrare un anno di giurisprudenza penale di legittimità.

Sono stati quindi selezionati, con esclusione di tutti gli altri, i temi di maggiore originalità o forza simbolica o capacità espressiva di una visione che andasse oltre il dettaglio.

Una scelta, quindi, che porta con sé un elevato grado di discrezionalità e finanche di arbitrio. Del resto, anche la relazione del Massimario è un documento selettivo e possiede le stesse caratteristiche ma non c’è da stupirsene perché la sintesi è necessaria quando si vogliono ragionamenti e non cronache.

Il quadro complessivo che pare di potere cogliere è fatto di luci e ombre.

Decisioni comprensibili e condivisibili si alternano ad altre più vaghe e confuse.

Orientamenti chiaramente nobilitati dalla piena attuazione dei valori costituzionali si incrociano ad altri che ne sembrano invece dimentichi.

Emergono palesemente la consapevolezza che i giudici di legittimità hanno della  pericolosità del fenomeno mafioso e l’impegno a fare fino in fondo la loro parte per contribuire a debellarlo con gli strumenti che gli sono propri. Ma talvolta l’ansia di risultati tangibili, di aria nuova, di liberazione della collettività dal giogo criminale si traducono in prassi applicative che, se portate alle estreme conseguenze, sarebbero di difficile coniugazione con le garanzie fondamentali, anche di rilievo costituzionale, che caratterizzano il nostro ordinamento processuale.

Il perenne conflitto tra sicurezza sociale e libertà individuali produce risposte assai differenziate, alcune delle quali mettono a dura prova l’effettività dell’inviolabilità della libertà personale.

La certezza del diritto, infine, si staglia come un obiettivo tendenziale piuttosto che come un dato acquisito.

Luci e ombre, appunto, dietro le quali – non si deve mai dimenticarlo – vi sono destini umani.

 

[1] J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Bollati Boringhieri, 1972