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Internet e le nuove tecnologie: cosa è il cyberbullismo e come si relaziona alla normativa vigente

Internet e le nuove tecnologie: cosa è il cyberbullismo e come si relaziona alla normativa vigente
Internet e le nuove tecnologie: cosa è il cyberbullismo e come si relaziona alla normativa vigente

[Contributo selezionato da Filodiritto tra quelli ricevuti nell’ambito del concorso promosso da ELSA nel 2016 sul tema: “Internet e le nuove tecnologie”]

 

Indice:

Introduzione e statistiche

Sent. Vivi Down c. Google s. r. l.

Sent. Tiziana Cantone

La legge Italiana

Comparazione tra leggi Statunitensi e normativa dell’Unione Europea

Conclusioni

 

Uno tra gli argomenti caldi della cronaca, il cyberbullismo rappresenta sempre di più una minaccia sociale. Con questo breve saggio si mira a delinearne i contorni, presentando innanzitutto due esempi concreti risolti dalla giurisprudenza. Si procederà poi ad analizzare il trattamento che le leggi Italiane ed estere gli riservano - in una prospettiva comparatistica.

Partendo dalla definizione che Smith diede, il cyberbullismo (o bullismo on-line) consiste in una forma di prevaricazione volontaria e ripetuta nel tempo, attuata mediante uno strumento elettronico, perpetrata contro un singolo o un gruppo con l’obiettivo di ferire e mettere a disagio la vittima di tale comportamento che non riesce a difendersi (Smith et al., 2006[1]).

Alcuni studi condotti in merito hanno evidenziato diverse forme di questo fenomeno:

  • Flaming: messaggi online violenti e volgari (vedi “flame”) diretti a suscitare battaglie verbali in un forum.
  • Molestie(harassment): spedizione ripetuta di messaggi insultanti mirati a ferire qualcuno.
  • Denigrazione: sparlare di qualcuno per danneggiare gratuitamente e con cattiveria la sua reputazione, via e-mail, messaggistica istantanea, gruppi su social network, etc.
  • Sostituzione di persona(“impersonation”): farsi passare per un’altra persona per spedire messaggi o pubblicare testi reprensibili.
  • Inganno: (trickery); ottenere la fiducia di qualcuno con l’inganno per poi pubblicare o condividere con altri le informazioni confidate via mezzi elettronici.
  • Esclusione: escludere deliberatamente una persona da un gruppo online per provocare in essa un sentimento di emarginazione.
  • Cyber-persecuzione(“cyberstalking”): molestie e denigrazioni ripetute e minacciose mirate a incutere paura.
  • Doxing: diffusione pubblica via internet di dati personali e sensibili.
  • Minacce di morte[2]

Tutte queste forme di violazione della dignità delle persone mostrano dunque un denominatore comune: l’utilizzo delle nuove tecnologie. Certamente, tale minaccia sociale esisteva già prima del loro impiego massiccio, ma le percentuali di persone colpite invitano a non sottovalutare il fenomeno, che è diffuso soprattutto tra i ragazzi e gli adolescenti.

Statistiche:

È proprio su questa fascia d’età (11-17 anni) che si è concentrato l’ultimo studio condotto dall’ISTAT nel 2014[3]: esso rivela che in quell’anno, poco più del 50% degli intervistati ha subito offese e/o violenze e, di questi, quasi un terzo le vive ripetutamente.

“Vittime” e “carnefici” sono in generale coetanei e (forse a sorpresa) residenti al Nord (23%). Sono le ragazze le più colpite (20,9% contro il 19,8% dei ragazzi) e i soprusi sono registrati in maggioranza nei licei (19,4% piuttosto che negli istituti tecnici e professionali, rispettivamente 16% e 18,1%). Analizzando però i dati strettamente inerenti il cyberbullismo, si nota che quasi il 6% di coloro che utilizzano uno smartphone e/o PC “denuncia di aver subito ripetutamente azioni vessatorie tramite sms, e-mail, chat o sui social network”. 

 

Rispetto al bullismo “classico”, la sua versione on-line presenta una novità nelle conseguenze: infatti, se da un lato il mero bullismo poteva rimanere circoscritto, questo è di fatto impossibile se attuato in Rete. Come ormai è noto, infatti, una volta che un contenuto di qualsiasi natura finisce in Rete, è oltremodo difficile, se non addirittura impossibile, cancellarlo. È irreversibile.

Un altro studio condotto dalla Telefono Azzurro ONLUS ha dimostrato che dal Settembre 2015 al Giugno 2016 è stato gestito 1 caso al giorno di bullismo o cyberbullismo, un dato allarmante giacché riguarda i più piccoli[4].

 

Sentenza Vivi Down c. Google:

A questo proposito, è proprio un minore la vittima del caso “Vivi Down c. Google”.

Al centro della situazione sono un gruppo di ragazzini che, senza consenso alcuno, hanno messo in rete un video che li riprende all’interno di una scuola mentre offendono pesantemente un coetaneo affetto da sindrome di Down e l’associazione Vivi Down. Quello che però ha trasformato il caso in un vero e proprio leading case è la presa di posizione assunta dalla Corte di Cassazione con riferimento alla responsabilità degli Internet providers.

Nel caso di specie, l’Associazione ricorrente aveva intentato un procedimento penale contro quattro host providers presso Google. L’accusa è quella di diffamazione - verso il minore e verso l’associazione - e di trattamento illecito di dati personali.

 

Giudizi di merito - I grado:

In primo grado, il giudice aveva assolto gli imputati dal concorso nel delitto di diffamazione ex articolo 595, c.p. posto che non si comprende come i manager avrebbero potuto impedire ex ante la realizzazione del reato in questione, ed in ogni caso perchè il d. lgs 196/2003 (Codice della privacy) nel nostro ordinamento esclude un obbligo di vigilanza degli host providers su quanto diffuso dagli utenti. Affinché si configuri una responsabilità per omissione, il nostro ordinamento prevede infatti che si rinvenga I. una posizione di garanzia in capo all’imputato e II. l’effettiva possibilità per lo stesso di eseguire un preventivo controllo sui contenuti immessi. La posizione di garanzia non può delinearsi per l’Internet host provider in quanto manca una specifica disposizione. Relativamente al secondo punto, è materialmente impossibile per un ISP operare un controllo effettivo su ogni video caricato da terzi, stante l’ingente numero di dati. Del resto, come afferma la Corte, <<l’obbligo del soggetto web di impedire l’evento diffamatorio imporrebbe allo stesso un filtro preventivo su tutti i dati immessi in rete, che finirebbe per alterarne la sua funzionalità>>.

In merito al trattamento illecito, viene però rinvenuta una responsabilità degli imputati sulla base dell’articolo 167 del decreto legislativo 70/2003 (e-commerce), avendo dovuto questi avvisare gli uploaders sugli “obblighi agli stessi imposti dalla legge, del necessario rispetto degli stessi, dei rischi che si corrono non ottemperandoli” (ex articolo 13, ibid.).

Giudizi di merito - II grado:

Contro la sentenza è stato proposto appello, nel quale il giudice ha avallato la decisione circa l’inesistenza di una responsabilità per il delitto di diffamazione. Inoltre ha cancellato, ed è questo che rileva, la condanna dei manager di Google per illecito trattamento dei dati personali, rinvenendo la responsabilità nei soli soggetti che hanno caricato il video sul Web.

La Corte d’Appello di Milano ha infatti rilevato che l’articolo 167 del Codice Privacy non menziona l’art 13 dello stesso tra le disposizioni che, se violate, configurano l’elemento oggettivo della fattispecie in questione. Piuttosto, è l’art 161 che sanziona la violazione di tale obbligo di informativa, peraltro con sole sanzioni di tipo amministrativo.

In ogni caso, la Corte ha assolto gli imputati “perché il fatto non sussiste”, visto che manca l’elemento soggettivo (qui, dolo specifico) richiesto dalla norma di reato. Non è infatti possibile ammettere che gli host providers abbiano tratto profitto dalla pubblicazione del video, stante la mancanza di advertising links sul video in questione o, comunque, considerata la gratuità della piattaforma su cui è stato pubblicato. Infine, bisogna considerare che gli imputati non erano in alcun modo a conoscenza del contenuto del video, e di conseguenza non gli si può addebitare di aver agito con l’intento di recare ad altri un danno.

 

Giudizio di legittimità:

In ultimo grado, la Corte ha confermato la posizione assunta dai colleghi dell’Appello. Innanzitutto ha confermato che l’articolo 167 si applica ai soli titolari (ed eventualmente responsabili) del trattamento dei dati personali - ergo non ai manager di Google, stante la loro estraneità circa l’illiceità dei contenuti e la mancanza di un loro effettivo potere decisionale sul trattamento da riservarvi. I veri titolari del trattamento dei dati, dunque i veri responsabili, sono gli uploaders del video.

Sulla base di queste considerazioni emerge questa importante novità: l’articolo 17 della normativa sull’e-commerce rappresenta “il punto di equilibrio fra la libertà del provider e la tutela dei soggetti eventualmente danneggiati nella fissazione di obblighi di informazione all’autorità”.

Quello che preme sottolineare è il fatto che la Corte abbia individuato il confine della responsabilità degli ISP facendo sì riferimento alla normativa sul commercio elettronico (in particolare, articolo 1, co. 2, lett. b)), ma interpretandolo alla luce del Codice Privacy: “l’articolo 1, comma 2, lett. b)  non ha di per sé la funzione di rendere inoperanti comunque in ogni fattispecie che riguardi la materia della protezione dei dati personali le norme in materia di commercio elettronico. Più semplicemente, detta clausola ha la funzione di chiarire che la tutela dei dati personali è disciplinata da un corpus normativo diverso da quello sul commercio elettronico; corpus normativo che rimane applicabile in ambito telematico anche in seguito all’emanazione della normativa sul commercio elettronico. Da ciò discende l’ovvia conseguenza che l’applicazione delle norme in materia di commercio elettronico deve avvenire in armonia con le norme in materia di dati personali; armonia perfettamente riscontrabile […] nell’ambito di responsabilità penale dell’Internet hosting provider relativamente ai dati sensibili caricati dagli utenti sulla sua piattaforma[5].

La Corte si è però discostata da un punto nella sentenza impugnata: la responsabilità può rinvenirsi solo negli uploaders, non anche negli host providers, poiché se da un lato è vero che “il concetto di trattamento è assai ampio e prescinde dall’inserimento dei dati in una vera e propria banca-dati, potendosi concretizzare in qualunque operazione di utilizzazione e diffusione di tali dati, anche per mezzo di rappresentazione fotografica o di ripresa video”, dall’altro si esclude la sua configurazione in questo caso dal momento che “è proprio la natura del servizio reso ad escludere [...] un obbligo generale di controllo in capo ai rappresentanti di Google Italy s.r.l., gestore del servizio stesso[6].

 

Sentenza T. Cantone:

Sfortunatamente, i casi di cyberbullismo non riguardano solo i minori ma anche gli adulti.  Di casi del genere la cronaca è piena e spesso il finale è tragico.

Viene in rilievo a questo proposito il caso Tiziana Cantone. La 31enne è stata protagonista di una vicenda che risale alla primavera del 2015, quando alcuni video hot girati assieme al suo amante sono stati diffusi su Internet. La donna ha denunciato l’accaduto ed è stata aperta un’indagine.

Come riportato da alcuni giornali, la donna e il suo amante erano soliti filmare i propri rapporti sessuali. Talvolta, anzi, dietro la telecamera c’era il partner stesso, mentre la donna si trovava in situazioni di intimità con un altro (o addirittura altri due) uomini. Per circostanze dapprima non chiare, ma che poi sono state ricostruite nel corso dei processi, un video di questi è iniziato a circolare su alcuni social (tra i quali, ad esempio, whatsapp - applicazione che, a differenza di altre - non osta a contenuti di natura pornografica), restando però limitata al solo Napoletano l’area di diffusione. Non ci è voluto molto tempo prima che la faccenda degenerasse: altri video si sono aggiunti a quello già pubblicato, il nome della donna campeggia sul filmato, la sua faccia è riconoscibile e la frase infelice che ad un certo punto pronuncia (“stai facendo un video? bravo.”) firmerà la sua condanna. La donna comincia a diventare oggetto di scherno non solo da parte di chi la conosce, ma anche da tutto quel popolo del Web là fuori, che, dietro uno schermo, trasforma questi fotogrammi in “meme”, crea parodie, vignette, canzoni. Viene addirittura creata una linea di merchandise di magliette e tazze.

Il dolore di Tiziana è così forte che decide di (per non dire “si trova costretta ad”) andarsene, trasferirsi in un posto dove nessuno dovrebbe conoscerla o riconoscerla. Inevitabilmente, inizia a soffrire di depressione, ha crisi di panico e tenta il suicidio due volte, ma si salva. Successivamente decide di tornare a vivere nel Napoletano con la madre, ma le cicatrici restano ancora vive sulla pelle.

Il processo viene avviato nel maggio 2015, quando la civilista Manzillo chiede al giudice del Tribunale di Napoli un provvedimento ex 700, codice civile, ossia un provvedimento d’urgenza per ottenere la cancellazione di tutte le pagine che, direttamente o indirettamente, contenevano riferimenti a Tiziana e ai video hard divenuti ormai virali. La richiesta verrà accolta, venendo riconosciuta la lesione del diritto alla privacy, ma soltanto a distanza di un anno. Nel frattempo, dunque, le immagini continuano a circolare, vengono trasformate in parodie sempre più offensive e la fragilità della ragazza, stando alle parole di chi le era più vicino, si acuisce.  Come riportato da Nextquotidiano, che ha raccolto la testimonianza di un’amica della donna, <<nei mesi scorsi mi aveva confidato di essere davvero distrutta. [...] È finita in questo schifo senza poter fare nulla. Quei video hanno cambiato per sempre la sua vita. L’ultima volta che l’ho incontrata mi era sembrato però che stesse un po’ meglio. Mi aveva parlato della sua voglia di gettarsi tutto alle spalle, di chiudere con il passato». Ma quel proposito non è riuscito a portarlo avanti, e Teresa vorrebbe adesso vedere in faccia quelli che hanno insultato la sua amica: “Mi chiedo come si possa essere così feroci, come sia possibile accanirsi contro una ragazza che non ha fatto nulla di male. Quei video sono stati un errore? Ma per favore. Se andassimo a cercare nei cellulari degli stessi che le hanno gettato la croce addosso sono certa che troveremmo molto di peggio”.[7]

Quest’ultima affermazione solleva un punto interessante: il carattere ambivalente della tecnologia: per un verso, infatti, essa è strumento prezioso per la creazione e conservazione di nostri ricordi, poiché ci consente di averli a pronta disposizione; per un altro, tuttavia, è strumento da “maneggiare con cautela”: occorre ponderare la scelta di pubblicare qualcosa sulla rete, giacché si sa (ma forse non si ripete abbastanza) che una volta fatto, il processo è irreversibile. Certo, non tutto quello che finisce in Rete è contenuto “ultra-sensibile”, ma resta, è incancellabile. E può dare luogo a forme di violenza come il cyberbullismo. In questo caso, la sentenza dei giudici non menziona questo termine, parlando piuttosto in generale di “violazione del diritto alla privacy della donna”[8], ma, con un’attenta analisi, potrebbe ricondursi questo fenomeno ad almeno due forme di cyberbullismo summenzionate: innanzitutto la “rivelazione” di materiale privato in rete da cui poi è scaturita la seconda tipologia, la “denigrazione”, in quanto le condotte realizzate hanno avuto di mira proprio il danneggiamento della reputazione della donna.

Quello che emerge dunque dai dati sopra riportati è, essenzialmente, che l’uso distorto della Rete rende questa un’arma di condivisione e  diffusione “senza limiti” di contenuti e dati personali, generalmente senza il consenso della persona cui si riferiscono, e che innesta un circolo vizioso di nocumento e sofferenza verso chi lo subisce.

 

Cosa fa la legge al riguardo?

Bisogna chiedersi a questo punto quali tutele appronti la legge italiana relativamente al tema del cyberbullismo.

Da qualche mese è in discussione alle Camere un disegno di legge intitolato “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”.

La proposta è così strutturata: al primo articolo viene fornita una definizione di bullismo e di cyberbullismo, da intendersi quest’ultimo come “qualunque comportamento o atto, anche non reiterato, rientrante fra quelli indicati al comma 2 [“ l’aggressione o la molestia reiterate, da parte di una singola persona o di un gruppo di persone, a danno di una o più vittime, anche al fine di provocare in esse sentimenti di ansia, di timore, di isolamento o di emarginazione, attraverso atti o comportamenti vessatori, pressioni e violenze fisiche o psicologiche, istigazione al suicidio o all’autolesionismo, minacce o ricatti, furti o danneggiamenti, offese o derisioni, anche aventi per oggetto la razza, la lingua, la religione, l’orientamento sessuale, l’opinione politica, l’aspetto fisico o le condizioni personali e sociali della vittima” NdR] e perpetrato attraverso l’utilizzo della rete telefonica, della rete internet, della messaggistica istantanea, di social network o altre piattaforme telematiche. Per cyberbullismo si intendono, inoltre, la realizzazione, la pubblicazione e la diffusione on line attraverso la rete internet, chat-room, blog o forum, di immagini, registrazioni audio o video o altri contenuti multimediali, effettuate allo scopo di offendere l’onore, il decoro e la reputazione di una o più vittime, nonché il furto di identità e la sostituzione di persona operati mediante mezzi informatici e la rete telematica al fine di acquisire e manipolare dati personali, ovvero di pubblicare informazioni lesive dell’onore, del decoro e della reputazione della vittima”.

Successivamente, si prevede  la formazione di un piano di azione integrato finalizzato alla predisposizione di strumenti di prevenzione e di contrasto dei fenomeni, realizzando un sistema di raccolta di dati per monitorare l’evoluzione degli stessi. Il piano dovrà essere elaborato da un tavolo tecnico composto da rappresentanti di alcuni ministeri (MIUR, Ministeri della Salute, Lavoro e politiche sociali, Giustizia) ed altresì figure quali il Garante per la protezione dei dati personali e quello per l’infanzia e l’adolescenza.

Viene richiesta poi la collaborazione di altri soggetti più “vicini” ai cittadini: ad esempio, è previsto che nel triennio 2016-2018 il MIUR adotti linee di orientamento per la prevenzione ed il contrasto di cyberbullismo che includano la formazione del personale scolastico ed il ruolo attivo di studenti con esperienze passate di peer-to-peer education in materia. I servizi sociali attivi sul territorio si impegneranno infine in specifici progetti personalizzati volti non soltanto al supporto di minori vittime di cyberbullismo, ma anche alla rieducazione dei minori artefici di tali condotte.

Infine, i servizi scolastici sono chiamati a predisporre attività di educazione all’utilizzo della rete Internet, in particolare ai diritti e ai doveri nascenti dall’uso delle tecnologie, in un’ottica di prevenzione.

Occupandosi poi della procedura da avviare a seguito della realizzazione della condotta, è stabilito che il soggetto “vittima” dell’atto possa presentare un’istanza per l’oscuramento, la rimozione o il blocco dei contenuti offensivi direttamente all’ISP (Internet service provider) o ad altro operatore che gestisca il sito web relativo, i quali dovranno dotarsi di meccanismi appositi per adempiere alla richiesta e provvedere entro le 24 ore dall’inoltro dell’istanza. Qualora questi non provvedano, è ammesso il ricorso al Garante della privacy che, ricevuta la medesima istanza e proceduto alla verifica del mancato intervento del gestore, potrà provvedere.

Il disegno di legge, non ancora entrato in vigore ma sottoposto all’esame finale alla Camera dei Deputati, ha già suscitato forti polemiche, che principalmente fanno rilevare l’inadeguatezza delle misure approntate. Sono molte le voci di chi sostiene che sia materialmente quasi impossibile per il gestore di siti web rispondere a tutte le istanze che gli saranno inoltrate. Inoltre, alcuni temono che ci sarà una notevole compressione della libertà di manifestazione del pensiero (in particolare nella forma della satira), dato che sono represse le condotte che violano “l’onore e la reputazione”, due concetti dai confini interpretativi labili. In questa fase finale, si confida quindi in emendamenti che trovino un bilanciamento fra tutela contro queste condotte e il rispetto della libertà di cui all’articolo 21, Cost, in tutte le sue declinazioni.

Fino ad ora, comunque, per sopperire alla mancanza di una specifica legge sul fenomeno del cyberbullismo, i pratici del diritto hanno fatto riferimento a norme già vigenti di carattere civile, penale ed altresì amministrativo.

Ad esempio, il titolo XII, Libro II, c.p. prevede agli articoli 595, 610 e 612  i reati di diffamazione, violenza privata e minaccia, solo per citarne alcuni. In ambito civilistico, si è soliti fare riferimento alle nozioni di danno morale, biologico ed esistenziale[9].

Il d. lgs. 196/2003 - meglio noto come Codice della Privacy - stabilisce poi un doppio obbligo per coloro che vogliano divulgare dati personali attraverso un dispositivo elettronico, consistenti innanzitutto nell’informare la persona interessata delle modalità e finalità del trattamento dei dati ed altresì ottenerne il preventivo consenso.

 Comparazione tra leggi Statunitensi e normativa comunitaria:

Se questa è la normativa italiana relativa al cyberbullismo, negli Stati Uniti il fenomeno rischia di porsi in contrasto con la disposizione costituzionale di cui al primo emendamento, che sancisce che “il Congresso non promulgherà leggi [...] che limitino la libertà di parola o di stampa”.

Ciò detto, benché numerosi studi condotti a livello nazionale dimostrino l’elevato numero di vittime del cyberbullismo, il Governo non ha ancora emanato una legge apposita sul fenomeno. Talvolta però esso è affrontato dalle scuole in maniera indiretta quando si sovrappone a discriminazioni razziali, etniche, religiose, essendo le scuole legalmente obbligate ad affrontarlo almeno su questo piano.

A livello dei singoli Stati, si sono adottate disposizioni normative, ma solo sette di essi lo chiamano “cyberbullying” e lo considerano un crimine. Gli altri o non lo prendono del tutto in considerazione ovvero lo definiscono “bullismo elettronico” senza riconnettere ad esso sanzioni penali.

Gli Stati in questione sono: Arkansas, Louisiana, Missouri, Nevada, North Carolina, Tennessee e Washington State.

In Arkansas il cyberbullismo è un crimine, cui è ricollegata la previsione di una sanzione di reclusione per breve periodo o una multa fino a mille dollari. È reato dal 2011, ed è considerato di “serie B”.

In Louisiana la disciplina è diversa a seconda che l’autore sia maggiore di 17 o minore di 17 anni: nel primo caso le sanzioni sono di natura reclusiva e/o pecuniaria, nel secondo è previsto il rinvio al Children’s code.

In entrambi gli Stati, la disciplina è “off-campus” nel senso che le condotte considerate devono avere un’incidenza sulla vittima che si ripercuota in ambito scolastico. Ad esempio, affinché sia configurato il reato, la vittima deve essere intimorita di recarsi a scuola, non sentirsi sicura nell’ambiente scolastico, e comportamenti simili.

In Missouri invece il reato è di classe A, salvo che non sia realizzato da minori di anni 21, nel qual caso regredisce a crimine di classe D.

In Nevada il reato in questione prevede altresì una delega al Governo per lo sviluppo di politiche di educazione rivolte non solo a personale scolastico ma anche alle famiglie. Quel che è peculiare è che in caso di realizzazione del reato le sanzioni previste sono particolarmente gravi, richiamando quelle di stalking.

In North Carolina, il Senate amend prevede che il reato si configuri qualora la vittima sia il minore ovvero anche il genitore di questo. La pena prevista è lievemente diversa a seconda che l’artefice sia maggiore o minore di anni 18 (classe 1 ovvero classe 2).

In Tennessee il reato prevede sanzioni più aspre rispetto a quelle finora indicate, ma sempre della natura di pena reclusiva e/o pecuniaria.

Nello Stato di Washington, infine, il reato è stato affiancato alla disciplina per il Bullying Act, ed è prevista l’adozione da parte delle scuole di politiche per contrastarli, individuando al riguardo un responsabile nel distretto della scuola per la ricezione ed il trattamento di reclami.

Quest’ultima disposizione si avvicina a quanto previsto nel disegno di legge che al momento è in discussione alla Camera nel nostro ordinamento. In entrambi i contesti, infatti, i legislatori decidono di puntare non tanto sulla previsione di punizioni severe, quanto piuttosto su progetti di (ri)educazione e che coinvolgano anche attivamente alunni e personale scolastico.

La considerazione di fondo è, in ogni caso, che la maggioranza degli Stati Americani non ha introdotto una specifica normativa in materia di cyberbullismo, ma si è semplicemente limitata ad inserirne la disciplina in quella del bullismo classico, senza peraltro farvi conseguire sanzioni di tipo penali. Queste misure sono oltremodo necessarie, in quanto dati agghiaccianti provengono dai maggiori siti di statistica a livello nazionale.

Ad esempio, negli Stati Uniti d’America il Cyberbullying research center ha svolto un sondaggio nel periodo 2004-2016 tra 15 mila studenti di vario grado scolastico in tutti gli Stati federati. Da questo lungo ed accurato lavoro è risultato che il 28% degli intervistati ha dichiarato di essere stato vittima di cyberbullismo in un certo momento della sua vita – ma la percentuale ha subito oscillazioni di anno in anno[10]. Il dato preoccupante è che la percentuale è andata innalzandosi negli ultimi tre anni, essendo al momento al 33.6%[11].

A livello federale, ancora manca una legge che disciplini in maniera completa ed efficace il fenomeno. Due proposte sono state presentate nel 2009, ma ancora non sono state approvate. Una prima, la c.d. Megan Meier Cyberbullying Prevention Act è stata avanzata da una rappresentante dello Stato California a seguito di una triste vicenda di cyber-bullismo realizzata attraverso l’uso di un social network e che ha visto come vittima una ragazzina di nome Megan Meier, suicidatasi a seguito dell’accaduto.

La proposta non è però giunta in porto a causa delle critiche provenienti da entrambi i fronti politici: sia repubblicani che democratici hanno infatti sottolineato come la proposta fosse in forte contrasto con il disposto del Primo Emendamento, nonché per la sua apparente scarsa efficacia in termini di attuazione.

L’altra proposta, lo Student Internet Safety Act, ha invece suscitato maggiore consenso, in quanto prevede politiche di rieducazione ed il coinvolgimento attivo del personale scolastico. In ogni caso, però, manca ancora l’approvazione del Committee on Education and Labor cui viene lasciata l’ultima parola in questi casi.

In definitiva, manca nell’ordinamento giuridico federale una legge specifica in materia di cyberbullismo, impedendo di fatto la prevenzione nonchè la repressione del fenomeno. L’unica forma di tutela di cui possono avvalersi le vittime è il ricorso a norme civili o penali su cyberstalking, molestie o diffamazione.

Tornando al livello dell’Unione, è utile un raffronto tra questa normativa e quella statunitense.

Preliminarmente, è importante fare un distinguo tra Unione Europea e Consiglio d’Europa. Nel primo caso, si è registrato fin dalle prime apparizioni degli strumenti tecnologici un’attenzione particolare dell’Unione verso questi, concretizzatasi dal 2002 in numerose direttive. Fondamentalmente ispirate al fine ultimo della Comunità, ossia la creazione di un mercato unico caratterizzato dalla libertà di circolazione di persone, merci e servizi, gli atti normativi più importanti sono la direttiva n. 19, relativa all’accesso, che sancisce il carattere “aperto” della Rete, consentendone dunque l’utilizzo a chiunque e con qualsiasi mezzo finalizzato ad una libera manifestazione del pensiero. Strettamente connessa è altresì la direttiva n. 58 in materia di privacy.

Dal 2009 queste direttive hanno subìto modifiche, prendendo in considerazione la c. d. neutralità della rete, ossia il divieto di introdurre limitazioni alla pubblicazione di contenuti da parte degli utenti, considerato che la Rete nasce neutrale. La questione richiede però prudenza, in quanto non viene in gioco soltanto il diritto di libera manifestazione del pensiero (presente sia in ordinamenti nazionali che nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE), ma anche la possibilità che da un esercizio improprio possa derivare nocumento alla sfera personale di altri soggetti.

Proprio per questo, la disciplina prevista dal Consiglio d’Europa aggiunge all’affermazione del principio di libera manifestazione del pensiero, realizzata anche attraverso le tecnologie informatiche, l’avvertenza che vi sono «formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, […] alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui […]»[12]. In questo modo l’organizzazione internazionale prevede l’esigenza di bilanciamento tra i due valori, sembrando propendere per una valorizzazione dei diritti dell’individuo come persona rispetto a quelli di libera espressione del pensiero. Oltre alla disposizione appena considerata, può aggiungersi l’articolo 24 della stessa Carta che dichiara il diritto alla protezione e alla cura necessaria per il benessere di bambini e adolescenti. L’esigenza di bilanciamento tra i due valori in gioco è avvalorata dal fatto che la libertà di espressione può risultare in comunicazione e ricezione di dichiarazioni offensive e violente rivolte a questi soggetti deboli e potendosi dunque ben qualificare come “cyberbullismo”. Proprio sulla base di questa possibilità, le organizzazioni ed istituzioni sovranazionali si sono attivate su vari fronti: ad esempio, il Parlamento Europeo ha emanato una risoluzione non legislativa dal titolo “Protecting children in the digital world” dando impulso alla educazione per minori, genitori ed insegnanti. La Commissione Europea ha elaborato il “Daphne III Funding Programme”: uno degli obiettivi del progetto è assicurare protezione a bambini e giovani contro ogni forma di violenza sia disponendo misure preventive sia assicurando supporto alle vittime. Successivamente, durante il Safer Internet Day del 2009 (10 febbraio), la Commissione ha iniziato la campagna contro il cyberbullismo con la partecipazione di tutti gli stati membri, affiancati anche da Islanda e Norvegia. Quello che rende il fenomeno maggiormente allarmante risiede nella estensione della Rete. I social network non hanno limiti di frontiere statali, si spingono oltre, rendendo più difficile l’applicazione di misure nazionali per affrontare il problema. È per questo che, ad avviso della Commissione, la soluzione più efficace sia un’azione paneuropea. La prospettiva è per l’appunto quello di una sinergia dei diversi Paesi per affrontare un problema comune quale quello del cyberbullismo predisponendo rimedi comuni. Il progetto Delete cyberbullying è nato nel Febbraio 2013, riconoscendo esplicitamente la gravità del pericolo che il fenomeno in questione genera, idoneo a provocare danni sostanziali ed immediati. Individuare, controllare e prevenire il bullismo on-line sono le parole-chiave per la sua eliminazione, ed è in questa direzione che si muove la Commissione Europea quando incoraggia gli istituti scolastici e le famiglie all’adozione di “buone pratiche”. Infine, il progetto sollecita l’adozione di raccomandazioni dettagliate per l’adozione di policies transnazionali e nazionali.

Considerazioni finali:

Questi sono solamente alcuni esempi di come siano orientate le politiche nazionali dei diversi Paesi nel mondo. Quello che emerge è dunque una sostanziale consapevolezza del fatto che il fenomeno del cyberbullismo non si possa combattere se non puntando in primo luogo a progetti di prevenzione. Ne consegue che si incoraggiano sempre di più i genitori e gli insegnanti ad educare al rispetto degli altri e altresì ad inserire nelle attività didattiche corsi al corretto e consapevole uso di Internet, specificando i diritti e doveri di ciascun utente.

Nell’ottica Europea sembra perciò prevalere l’esigenza di proteggere i diritti dell’individuo in quanto persona. Diversamente, nel dibattito Statunitense emerge la necessità di garantire la piena attuazione del Primo Emendamento, a scapito di altri diritti propri dell’individuo, in primis la dignità umana.

I due sistemi si sbilanciano dunque sui due poli distinti, ma non mancano di riconoscere come, essenzialmente, il cyberbullying sia un problema reale, una pestilenza del nostro secolo che continuerà a colpire vittime su vittime, impotenti di fronte ad esso fino a che non si raggiunga una soluzione concretamente efficace.

 

[1] Smith, P.K. (2006), An investigation into cyberbullying, its forms, awareness and impact, and the relationship between age and gender in cyberbullying, in anti-bullyingalliance.org.uk/

[2] tratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Cyberbullismo#cite_note-willardeduc-5

[3]http://www.istat.it/it/files/2015/12/Bullismo.pdf?title=Bullismo++tra+i+giovanissimi+-+15%2Fdic%2F2015+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf

[4] http://www.womenews.net/bullismo-e-cyberbullismo-un-caso-al-giorno-gestito-da-telefono-azzurro/

[5] Cass. pen., Sez. III, 17 dicembre 2013 (dep. 3 febbraio 2014), n. 5107, Pres. Mannino, Rel. Andronio

[6] vedi nota 3.

[7] http://www.nextquotidiano.it/tiziana-cantone-la-storia-giudiziaria-del-video-lindagine-induzione-al-suicidio/

[8] Vedi nota 2

[9] definiti come: "il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale, al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto normativamente stabilito dall’art. 5 lettera c) DPR 03/03/2009 n. 37, ma in ragione della differenza ontologica fra le due voci di danno che corrispondono a due momenti essenziali della sofferenza dell’individuo: il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana”. V. ex multis Cass. 30/07/2015 n° 16197, pag. 11 della decisione.

[10] http://cyberbullying.org/summary-of-our-cyberbullying-research

[11] Ibid.                                                                  

[12] Art. 10, co. 2, Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali.

 

Elenco delle abbreviazioni:

NASA: North American Space Agency

NFS: Network file system

MIUR: Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

c.p.: codice penale

  1. lgs.: decreto legislativo

v.: versus

 

Bibliografia:

WILLARD, NANCY., Educator’s guide to Cyberbullying, 2007, http://cyberbully.org/ data di consultazione 13 Ottobre 2016.

NEXTQUOTIDIANO, Tiziana Cantone: la storia giudiziaria del viedo e l’indagine per induzione al suicidio, 14 Settembre 2016, http://www.nextquotidiano.it/tiziana-cantone-la-storia-giudiziaria-del-video-lindagine-induzione-al-suicidio/ , data di consultazione 13 Ottobre 2016.

PATCHIN, J. W., HINDUJA S., Cyberbullying research center, 2007-2016, http://cyberbullying.org/summary-of-our-cyberbullying-research, data di consultazione 25 Ottobre 2016.

 

Sentenze:

Cass., Sez. III, 30 Luglio 2015, n. 16197, in LeggiOggi, 21 Ottobre 2015, http://www.leggioggi.it/2015/10/21/risarcimento-danno-non-patrimoniale/ , data di consultazione 25 Ottobre 2016.

Cass., sez. III Penale, 17 Dicembre 2013 - 3 Febbraio 2014 n. 5107, www.Juriswiki.it , data di consultazione 25 Ottobre 2016.

 

Fonti del diritto:

Articolo 10, co. 2, Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.

Amend, Senate Bill 707, North Carolina.

Bullying Act, Washington State.