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La problematica legittimità della c.d. clausola sociale negli appalti pubblici: la conferma della tendenza ad una tutela “debole” dei diritti dei lavoratori

Nota a Consiglio di Stato, Seziona Terza, Sentenza n. 2078 del 05 maggio 2017
La problematica legittimità della c.d. clausola sociale negli appalti pubblici: la conferma della tendenza ad una tutela “debole” dei diritti dei lavoratori
La problematica legittimità della c.d. clausola sociale negli appalti pubblici: la conferma della tendenza ad una tutela “debole” dei diritti dei lavoratori

1. Premessa

Una recente pronuncia del Consiglio di Stato (sentenza n. 2078 del 05.05.2017, resa dalla sez. III) rappresenta l’occasione per sviluppare delle brevi riflessioni circa l’effettiva latitudine applicativa della c.d. clausola (di salvaguardia) sociale negli appalti pubblici, che risponde, con ogni evidenza, anche sulla spinta di direttive comunitarie[1], all’intento di garantire idonee forme di tutela ai lavoratori già impegnati nell’erogazione di servizi, ovvero nell’espletamento di appalti, connotati da rilievo pubblicistico, sia sub specie di mantenimento (tendenziale, come si dirà in appresso) dei livelli occupazionali pregressi e sia per garantire la promozione di standard elevati di tutela sociale[2] e di modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative che rispettino, in ossequio, del resto, ai principi affermati dall’articolo 36 della Costituzione, la dignità di coloro che sono chiamati a svolgerle.

In relazione a quel che precede è appena il caso di precisare che una disamina puntuale dell’istituto de quo presupporrebbe un’analisi ad ampio spettro che involgerebbe, necessariamente, un’attenta esegesi di una pluralità di disposizioni normative, ivi comprese talune previsioni del codice civile, e della contrattazione collettiva.

Evidenti ragioni di spazio inducono, tuttavia, chi scrive a limitare le proprie considerazioni unicamente al profilo afferente il diritto amministrativo.

 

2. La sentenza del Consiglio di Stato

Orbene, operata tale doverosa premessa (di carattere eminentemente metodologico) corre l’obbligo di evidenziare, in via preliminare, come il provvedimento giurisdizionale sopra richiamato costituisca l’esito di una controversia originata dall’avvenuta aggiudicazione, risalente all’ottobre del 2015 (e, dunque, nella vigenza del decreto legislativo n. 163 del 2006), da parte di un’Asl calabrese, del servizio di ristorazione.

Il concorrente secondo classificato nell’ambito della procedura di affidamento de qua impugnava la deliberazione di aggiudicazione definitiva, in uno con gli atti ad essa presupposti e connessi, dinanzi al competente TAR Calabria, deducendo la sussistenza di una pluralità di vizi di legittimità fra cui, per quanto di specifico interesse in questa sede, la prospetta violazione della c.d. clausola sociale, alla luce della disciplina dettata dall’articolo 12 bis della legge regionale della Calabria n. 26 del 2007 e ss.mm.ii.

La società ricorrente evidenziava, inoltre, come la sopra menzionata previsione normativa risultasse sostanzialmente ribadita dall’articolo 21.3 del capitolato speciale d’appalto e che, per l’effetto, sussisteva un obbligo di assunzione, in capo al soggetto subentrante nella gestione del servizio di che trattasi, di tutte le figure professionali, prescindente dai livelli e dai ruoli ricoperti, precedentemente impegnati nell’erogazione del servizio medesimo e quantificati, nel caso di specie, dalla stazione appaltante in 69 unità lavorative.

Orbene l’offerta tecnica dell’aggiudicatario, sempre nella prospettazione della società ricorrente, avrebbe difettato di univocità nell’indicare il numero delle persone impiegate nel rendere il servizio, in quanto: a) nella relazione tecnica allegata all’offerta ci si riferiva ad una miglioria nel servizio offerto in ragione della “aggiunta, rispetto all’organico attualmente impiegato di n. 2 unità con la qualifica di hostess con un monte ore giornaliero pro capite pari a 4h”, lasciando così intendere che sarebbero state impiegate 71 unità; b) nell’allegato n. 1 a tale relazione, però, il numero delle unità lavorative impiegate saliva a 76; c) in sede di giustificazione dell’offerta, sottoposta a giudizio di congruità, si è tenuto conto solo del costo di 65 unità lavorative.

Il RTI aggiudicatario della procedura d’appalto che viene in rilievo proponeva, a sua volta, ricorso incidentale per la declaratoria di illegittimità delle previsioni del relativo capitolato speciale, se interpretate nel senso di vincolare l’aggiudicatario all’assunzione di tutto il personale già impiegato dal precedente affidatario del servizio.

Il TAR Calabria, sede di Catanzaro, con sentenza n. 1392 del 2016, resa dalla sez. I, ha respinto entrambi i ricorsi (principale ed incidentale) evidenziando che la previsione di cui all’ articolo 12 bis della legge regionale n. 26 del 2007 “attiene di per sé alla fase di esecuzione del contratto d’appalto e pertanto l’eventuale violazione di tale obbligo incide sul rapporto privatistico instaurato a valle dell’aggiudicazione del contratto, consentendo all’amministrazione l’esercizio dei poteri di autotutela privatistica attribuitile dalla legge”, non rinvenendosi, peraltro, nella lex specialis di gara statuizioni tali da indurre a ritenere che la rilevanza di detto obbligo venga anticipata alla fase dell’evidenza pubblica.

Il giudice di prime cure, inoltre, ha ritenuto infondata anche la censura relativa al difetto di chiarezza che avrebbe connotato, a giudizio del ricorrente, l’offerta dell’aggiudicatario, in quanto, dall’esame della documentazione di gara, si rileva che la miglioria offerta dal soggetto che si è aggiudicato l’appalto, ossia 2 hostess, si presta ad essere interpretata non solo sotto un profilo quantitativo (due unità lavorative in più), ma anche – alternativamente – sotto il profilo qualitativo (due unità lavorative con qualifiche in passato non presenti).

La discrasia tra il numero di unità lavorative indicate nell’offerta (76) ed il numero di unità lavorative indicate nella giustificazione dell’anomalia (65) si spiega agevolmente, nella ricostruzione operata dal TAR Calabria, tenendo conto che in sede di verifica dell’anomalia il costo del lavoro è stato calcolato facendo riferimento al costo medio orario riferito a ciascun livello retributivo e riportato nelle tabelle ministeriali, il quale definisce, in realtà, il costo dell’ora lavorativa effettiva, comprensiva dei costi di sostituzione alla quale il datore di lavoro deve provvedere nel caso di malattia, ferie, permessi, assenteismo del dipendente.

Avverso la pronuncia giurisdizionale sopra sintetizzata il ricorrente principale proponeva appello dinanzi al massimo organo di giustizia amministrativa riproponendo, ex plurimis, la doglianza relativa alla violazione del più volte menzionato articolo 12 bis della legge regionale n. 26 del 2007, e delle corrispondenti previsioni del bando di gara, che imponevano un obbligo di riassorbimento di tutti i lavoratori già alle dipendenze del precedente gestore alla data del 31 luglio 2013, indicato in un apposito documento “Elenco personale ditte cessanti”  dalla stazione appaltante (e pari, si rammenti a 69 unità lavorative).

Il predetto obbligo, conseguentemente, si poneva in stridente contrasto con le argomentazioni poste a fondamento dell’impugnata sentenza, atteso che esso acquisiva immediato rilievo già nel procedimento di individuazione del contraente privato, con l’ulteriore implicazione che l’aggiudicatario (avendo offerto con chiarezza soltanto 65 unità lavorative) avrebbe dovuto essere necessariamente escluso dalla gara.

Al medesimo arresto, ad avviso dell’appellante, si sarebbe dovuti pervenire anche in relazione all’esame dell’offerta tecnica dell’aggiudicatario che veniva qualificata come  ambigua, contraddittoria ed inattendibile quanto al personale da assumere.

Essa, infatti, prevedeva come “miglioria”, assolutamente non qualificabile in senso qualitativo in quanto inserita nel paragrafo A denominato “ Numero del personale in relazione alle fasi di gestione del servizio”, l’assunzione di due hostess per i rapporti con l’utenza (quindi 69+2=71 unità), indicando, nella tabella riepilogativa, 76 unità di cui solo 65 stabilmente impiegate nel servizio e 11 per far fronte a riposi e sostituzioni.

L’appellante sottolineava, inoltre, come in fase di subentro l’aggiudicatario avesse, ad abundantiam, effettivamente assunto soltanto 54 persone.

A fronte delle predette censure l’aggiudicatario, con  atto intestato “Memoria ex articolo 101 c.p.a.”, ma ritualmente notificato alle controparti, riproponeva, a sua volta, le argomentazioni già sviluppate nel ricorso incidentale, deducendo, in particolare, che l’interpretazione prospettata dal ricorrente della c.d. clausola sociale (ossia obbligo di assunzione di tutto il personale già in servizio) sarebbe risultata lesiva della concorrenza e della libertà d’impresa riconosciuta dall’articolo 41 della Costituzione, e comunque contrasterebbe con lo stesso articolo 12 bis della legge regionale n. 26 del 2007 e con il principio di cui all’articolo 69 del decreto legislativo n. 163 del 2006.

Corre l’obbligo di evidenziare che tale ultima previsione normativa, applicabile ratione temporis alla vicenda in esame, riconosceva alla stazione appaltante la possibilità di esigere condizioni particolari per l’esecuzione del contratto, con particolare riferimento ad esigenze sociali o ambientali e costituiva il fondamento, nel previgente codice degli appalti, della c.d. clausola sociale nelle procedure di gara, pur in assenza di un espresso riconoscimento dell’istituto.

A fronte del quadro sinteticamente descritto il Consiglio di Stato ha ritenuto, in via preliminare, di dover provvedere alla delimitazione della portata applicativa della c.d. clausola sociale, alla luce della disciplina dettata dall’articolo 12 bis della legge regionale n. 26 del 2007[3] e delle previsioni dettate, in subiecta materia, dal capitolato speciale d’appalto.

In particolare il massimo organo di giustizia amministrativa ha ritenuto non del tutto condivisibile la tesi del TAR che attribuiva rilevanza alla clausola sociale unicamente nella fase di esecuzione dell’appalto, in quanto “se è vero che il rispetto degli obblighi assunti dall’aggiudicataria in sede di gara riguarda l’esecuzione del rapporto, sicché la verifica del loro inadempimento risulta rimandata alle future dinamiche dell’instaurando rapporto contrattuale, tuttavia assume rilevanza anche nella gara, quale indice sintomatico di ulteriori vizi dell’offerta medesima (ad es., sotto i profili della univocità e completezza dell’offerta, ovvero dell’anomalia dell’offerta)”.

Operata tale premessa il Consiglio di Stato, anche sulla scorta della formulazione testuale, dell’articolo 12 bis della legge regionale e delle disposizioni del capitolato speciale d’appalto che richiamano tale norma, perviene all’affermazione dell’inesistenza di un obbligo assoluto, gravante sul gestore subentrante, di garantire la continuità di tutti i rapporti di lavoro pregressi, in quanto l’obbligo di assunzione risulta, expressis verbis, previsto “compatibilmente con la gestione efficiente dei servizi, con l’organizzazione d’impresa e con la normativa vigente sugli appalti”.

Alle riferite considerazioni di ordine eminentemente letterale i giudici di Palazzo Spada, a sostegno della conclusione raggiunta, aggiungono elementi di carattere sistemico, connessi ad un’interpretazione teleologicamente orientata del quadro ordinamentale, evidenziando, in sostanziale accordo con le tesi sostenute dall’aggiudicatario, che una diversa accezione della clausola sociale (così come delineata dall’articolo 69 del decreto legislativo n. 163 del 2006, dall’articolo 63, comma 4, del decreto legislativo n. 112 del 1999, dall’articolo 29, comma 3, del decreto legislativo n. 276 del 2003, e dalle diverse leggi regionali), comporterebbe una evidente violazione della libertà di iniziativa economica e del principio di concorrenza.

Richiamando precedenti pronunce (Consiglio di Stato, sez. III, sentenze n. 1255/2016 e n. 5598/2015; si vedano anche, sez. IV, sentenza n. 2433/2016 e sez. VI, sentenza n. 5890/2014), i giudici di appello pervengono al seguente arresto: “la c.d. clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d’impresa, riconosciuta e garantita dall’articolo 41 Cost., che sta a fondamento dell’autogoverno dei fattori di produzione e dell’autonomia di gestione propria dell’archetipo del contratto di appalto, sicché tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente; conseguentemente l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante; i lavoratori, che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali; la clausola non comporta invece alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria[1]”.

All’esito della sintetizzata traiettoria argomentativa, ritenute non meritevoli, con ampia motivazione, di positivo apprezzamento, anche le ulteriori censure formulate dalla società appellante, la sentenza in commento conclude, come il cortese lettore avrà certamente intuito, per la reiezione della proposta impugnativa.

 

3. La nuova disciplina della clausola sociale dettata dal decreto legislativo n. 50 del 2016

A seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 50 del 2016 la c.d. clausola sociale risulta essere disciplinata dall’articolo 50 del richiamato provvedimento normativo che così recita: “Per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad alta intensità di manodopera, i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti possono inserire, nel rispetto dei principi dell’Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione da parte dell’aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81. I servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto”.

Come si ha modo di evincere dalla semplice e piana lettura della sopra riportata statuizione, e prescindendo in questa sede da ulteriori rilievi relativi all’estensione oggettiva della norma, la clausola sociale negli appalti pubblici, anche alla luce dello ius superveniens, non ha perso la propria caratteristica essenziale ossia la facoltatività,  atteso che le stazioni appaltanti “possono” e non “debbono” inserire negli atti prodromici ad affidamenti di appalti di lavori e di servizi previsioni ad hoc per la tutela della stabilità occupazionale.

La facoltatività dell’inserimento della clausola sociale determina, peraltro, che il mancato utilizzo della stessa non risulti assoggettata ad obblighi motivazionali specifici in capo alla stazione appaltante[2].

Per altro verso occorre rilevare come anche l’inserimento della clausola sociale, con particolare riferimento all’ipotesi di una tendenziale inadeguatezza dell’importo a base di gara rispetto agli obblighi di tutela previsti dalla lex specialis, possa determinare “problemi” per la stazione appaltante.

Il TAR Calabria, sede di Reggio Calabria, con sentenza n. 209 del 15.03.2017, resa dalla sez. I, ha infatti annullato, su ricorso di un operatore economico che non aveva nemmeno presentato domanda di partecipazione (perseguendo questi, dunque, un interesse strumentale alla rinnovazione degli atti),  una procedura di gara per l’affidamento, da parte del Comune di Palmi, del servizio integrato di gestione dei rifiuti, sulla scorta del rilievo che la continuità occupazionale non può essere perseguita in maniera rigida, aprioristica ed incondizionata, necessitando di un adeguato bilanciamento con i valori della libera concorrenza e della libertà imprenditoriale, richiamati, del resto, sebbene in modo indiretto, nel corpo dell’articolo 50 del decreto legislativo n. 50 del 2016.

In termini più generali occorre evidenziare come l’introduzione dell’articolo 50 nel tessuto ordinamentale non abbia, almeno per il momento, determinato mutamenti sostanziale negli orientamenti della giurisprudenza amministrativa che si muove, fatte salve talune limitate eccezioni, in una logica interpretativa del tutto coincidente con quella sottesa alla pronuncia del Consiglio di Stato in commento.

Nella prospettiva considerata merita di essere segnalata la sentenza n. 231 del 13.02.2017 resa dal TAR Toscana, sez. III, che ha dichiarato, richiamando specifici precedenti del medesimo TAR, l’illegittimità di una clausola sociale redatta in modo  “tale da imporre in termini rigidi la conservazione del personale di cui al precedente appalto………. dovendo invece essa essere formulata in termini di previsione della priorità del personale uscente nella riassunzione presso il nuovo gestore, in conformità alle esigenze occupazionali risultanti per la gestione del servizio, in modo da armonizzare l’obbligo di assunzione con l’organizzazione d’impresa prescelta dal gestore subentrante”.

 

4. Conclusioni

Al termine di questo breve excursus sulla problematica che viene in rilievo, e volendo formulare alcune disorganiche conclusioni, non può non evidenziarsi, come già accennato, che la pronuncia giurisdizionale in commento si ponga in linea di sostanziale continuità con gli orientamenti formatisi, già sotto la vigenza del decreto legislativo n. 163 del 2006, in subiecta materia e sintetizzabili nel senso che la c.d. clausola sociale, connotata, si rammenti, dal carattere della facoltatività, non può essere interpretata come implicante un obbligo assoluto ed incondizionato, per il soggetto subentrante nella gestione di un appalto pubblico, di procedere alla riassunzione integrale di tutti i lavoratori precedentemente impiegati dal precedente affidatario.

Una siffatta interpretazione, oltre a non avere fondamenti testuali nel diritto interno, determinerebbe ex se la violazione di specifici principi posti dalla normativa comunitaria in materia di libertà economica dell’imprenditore, con conseguente illegittimità costituzionale, giusta quanto disposto dall’articolo 117, comma 1, della Carta fondamentale, di eventuali previsioni legislative nazionali che dettassero una disciplina contrastante con detti principi.

Alla luce delle considerazioni sopra sviluppate non v’è chi non veda come il livello di protezione offerto dalle cc.dd. clausole sociali negli appalti pubblici risulti più apparente che reale, ed integrante una forma di tutela debole per i lavoratori, atteso che il loro concreto reimpiego alle dipendenze del nuovo affidatario risulta condizionato da una pluralità di fattori, in precedenza evidenziati, fra cui in particolare spicca quello relativo al modello organizzativo e gestionale da esso affidatario prescelto che ha tutto il diritto di poter svolgere l’appalto “utilizzando una minore componente di lavoro rispetto al precedente gestore, e dunque ottenendo in questo modo economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento” (così Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 2433/2016, cit.).

Nel contesto considerato non sembrano possibili altre opzioni interpretative né, peraltro, parrebbe opportuno, de iure condendo, una innovazione ordinamentale  che delimiti diversamente la latitudine applicativa della clausola sociale prevedendone, da un lato, l’obbligatorietà dell’inserimento nei bandi e negli avvisi di gara per l’affidamento di appalti pubblici, pure più volte proposta specie dalle organizzazioni sindacali, e dall’altro, un’efficacia pienamente cogente in termini di vincolo alla riassunzione di tutto il personale precedentemente impegnato, atteso che tale eventuale provvedimento legislativo correrebbe il serio rischio, per non dire la matematica certezza, di cadere sotto la scure della Corte Costituzionale e/o della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, stante la patente aporia che si verrebbe a determinare con la grundnorm del nostro ordinamento e con le fonti comunitarie lato sensu intese.

In relazione a quanto sopra esposto corre l’obbligo di segnalare, in quanto distonica rispetto agli arresti raggiunti, la sentenza n. 55 del 27.01.2017, resa dal TAR Liguria, sez. II, che offre dell’istituto della clausola sociale una lettura completamente differente affermando, con riferimento a procedura indetta con il previgente codice degli appalti, “che la clausola sociale contenuta nel bando non era affatto indeterminata, e che essa tutela – conformemente alla disciplina contrattuale collettiva………– tutto il personale addetto all’unità produttiva interessata” di talché “la stessa assume portata cogente sia per gli offerenti che per l’amministrazione…..Né la società ricorrente può addurre, a giustificazione del proprio rifiuto ad ottemperare ad un obbligo liberamente assunto, generiche quanto indimostrate esigenze organizzative”, giungendo, alla conclusione che è proprio “l’inserimento nella lex specialis della così detta clausola sociale che realizza, a livello del singolo appalto, il necessario contemperamento tra il diritto di iniziativa economica e le finalità sociali di salvaguardia occupazionale”.

Per completezza d’esposizione si evidenzia, da ultimo, come, ad onor del vero, sussista nel nostro ordinamento una disposizione normativa, connotata dal carattere della specialità, che prevede l’obbligatorio inserimento della clausola sociale ed il conseguente integrale riassorbimento del personale.

Il riferimento è all’articolo 177, comma 1, del decreto legislativo n. 50 del 2016 che così recita: “Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 7, i soggetti pubblici o privati, titolari di concessioni di lavori, di servizi pubblici o di forniture già in essere alla data di entrata in vigore del presente codice, non affidate con la formula della finanza di progetto, ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea, sono obbligati ad affidare, una quota pari all’ottanta per cento dei contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni di importo di importo pari o superiore a 150.000 euro e relativi alle concessioni mediante procedura ad evidenza pubblica, introducendo clausole sociali e per la stabilità del personale impiegato e per la salvaguardia delle professionalità. La restante parte può essere realizzata da società in house di cui all’articolo 5 per i soggetti pubblici, ovvero da società direttamente o indirettamente controllate o collegate per i soggetti privati, ovvero tramite operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato”.   

Di tale disposizione si è occupata l’ANAC con il parere n. 856 del 03.08.2016 evidenziandone il “carattere speciale, che …….incide su assetti contrattuali in corso di esecuzione e, dunque, destinata ad avere necessariamente un sensibile impatto sulla stabilità occupazionale del personale impiegato”, con conseguente affermazione dell’obbligo “di carattere generale di riassorbimento di tutto il personale impiegato nell’esecuzione del contratto”.

 

[1] Si veda, da ultimo, la Direttiva 2014/24/UE.

[2] Per una sintetica definizione dell’istituto si veda TAR Puglia, sede di Lecce, sentenza n. 2986 del 01.12.2014, resa dalla sez. I, la cui massima recita: “la clausola sociale anche nota come clausola di protezione o di salvaguardia sociale o clausola sociale di assorbimento è un istituto previsto dalla contrattazione collettiva e da specifiche disposizioni legislative statali (art. 69 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, l’art. 63, comma 4, del d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112, l’art. 29, comma 3, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276), che opera nell’ipotesi di cessazione d’appalto e subentro di imprese o società appaltatrici e risponde all’esigenza di assicurare la continuità del servizio e dell’occupazione, nel caso di discontinuità dell’affidatario”.

[3] La più volte richiamata statuizione normativa regionale così recita: “Fatte salve le previsioni della contrattazione collettiva, ove più favorevoli, la Regione, gli enti, le aziende e le società strumentali della Regione devono prevedere nei bandi di gara, negli avvisi e nelle condizioni di contratto per appalti di servizi, l'utilizzo del personale già assunto dalla precedente impresa appaltatrice, compatibilmente con la gestione efficiente dei servizi, con l'organizzazione d'impresa e con la normativa vigente sugli appalti, garantendo, altresì, le condizioni economiche e contrattuali già in essere. Tale norma si applica anche agli enti sub-regionali, agli enti locali che utilizzano i fondi regionali e comunitari o che esercitano le deleghe della Regione. Le previsioni di cui al comma 1 si applicano in misura proporzionale alla quantità di servizi appaltati e non si applicano ai dirigenti e al personale che esercitano i poteri direttivi”.

[4] Per completezza d’esposizione si segnala come i giudici rilevino, altresì, come nella vicenda devoluta alla loro cognizione, non si concretizzi un’ipotesi di stretta conservazione del modello organizzativo che, secondo un orientamento giurisprudenziale minoritario (invocato dall’appellante), potrebbe comportare un’applicazione “rigida” dell’obbligo di assunzione del personale precedentemente utilizzato nel servizio o quanto meno un onere rafforzato di motivazione sulle scelte di non assorbire tutto il personale (si veda, in tal senso Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 2533/2013). E del resto che, nel caso di specie, non ricorra l’ipotesi sopra prefigurata, risulta dimostrato per tabulas, dalla circostanza che la stessa lex specialis della procedura di gara contemplava un sub-criterio che attribuiva punteggi per il numero del personale e per il grado di professionalità del personale, con ciò palesando in modo inequivoco che il numero degli addetti al servizio non era da intendersi come predefinito e suscettibile unicamente di variazioni incrementali.

[5] Si veda in tal senso la delibera ANAC n. 28 del 18.01.2017 nelle cui conclusioni, testualmente, si legge: “ritiene che l’espressione possono inserire (…) specifiche clausole sociali volte a  promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, contenuta nella  disposizione che prevede l’inserimento di clausole sociali nei bandi di gara (art.  50 del D.lgs 50/2016), riconosca alle stazioni appaltanti una mera facoltà di inserimento  della clausola e che, pertanto, il mancato utilizzo non sia in alcun modo  assoggettato ad obbligo motivazionale”.