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Restorative justice e rivalutazione del ruolo della vittima nelle modalità di risposta al reato

Restorative justice e rivalutazione del ruolo della vittima nelle modalità di risposta al reato
Restorative justice e rivalutazione del ruolo della vittima nelle modalità di risposta al reato

Con la legge 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. “Legge Orlando”), il Governo è stato delegato ad adottare i decreti legislativi diretti alla riforma dell’ordinamento penitenziario.

In particolare, le modifiche andranno apportate nel rispetto di alcuni criteri direttivi, tra cui rientra laprevisione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative”. Una nuova dimostrazione di come la recente normativa sia improntata, sia pur timidamente rispetto ad altre realtà europee, verso una nuova forma di giustizia penale, caratterizzata dalla creazione di spazi d’interazione tra vittima e reo.

 

La conciliazione al fianco della giustizia penale tradizionale

L’appartenenza esclusiva dello ius puniendi allo Stato si presenta come uno dei pilastri imprescindibili della cultura giuridica occidentale: è il potere pubblico, attraverso le sue istituzioni, a sanzionare tutte quelle condotte percepite dalla comunità come antisociali, attribuendo un ruolo relativamente marginale alla vittima del reato e prevenendo, così, vere e proprie forme di vendetta personale.

Una rivalutazione del ruolo della persona offesa all’interno della vicenda penale può tuttavia rinvenirsi nell’attuale scenario giuridico europeo, in cui da tempo viene fatto spazio a istituti non certo diretti ad una “punizione privata” dell’autore del reato, ma improntati, al contrario, verso un incontro dialogico finalizzato al raggiungimento di un “accordo riparativo” tra vittima e reo, il cui esito potrà poi influenzare, più o meno intensamente, la decisione del giudice.

Tant’è che alcuni autori hanno parlato di vera e propria riscoperta, in chiave moderna, della riparazione in favore della vittima del reato, svincolata dall’anacronistica attitudine vendicativa. Difatti, l’espressione “giustizia privata” non implica necessariamente il concetto di vendetta, ma anche quelli di riparazione e riconciliazione: una giustizia riparativa, per l’appunto, in cui lo Stato assume il ruolo di mero osservatore, lasciando la possibilità a vittima e reo, generalmente coadiuvati da un mediatore, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato.

 

La restorative justice nel diritto internazionale e dell’Unione Europea

Le Organizzazioni Internazionali hanno iniziato ad interfacciarsi con la giustizia riparativa sul finire del secolo scorso: risale al 1999, infatti, la prima raccomandazione del Consiglio d’Europa sul tema, la quale ha dato, insieme alla successiva Risoluzione ONU del 2002, l’incipit per un nuovo modo di intendere la giustizia penale.

Nel diritto dell’Unione Europea, il passo più importante è stato compiuto con la Direttiva 2012/29/UE, che ha il merito di aver individuato i criteri base da rispettare in riferimento alla restorative justice. Punto essenziale della presente direttiva è la tutela della vittima del reato: il tentativo di conciliazione, che avviene alla presenza attiva di un mediatore, va pertanto esperito nell’interesse della vittima e soltanto quando questa, a seguito di un’adeguata informazione circa le modalità e i potenziali sviluppi della procedura, sia espressamente d’accordo nell’intraprendere tale strada o nel proseguirla. Il fine di tali previsioni è quello di scongiurare la strumentalizzazione della persona offesa a vantaggio del reo.

Ulteriore requisito ai fini dell’esito positivo della mediazione è l’assunzione di responsabilità da parte dell’autore del reato, previsione che implica la necessità di garantire la confidenzialità dell’incontro. Le eventuali dichiarazioni rese dalle parti durante il tentativo di conciliazione non potranno, inoltre, essere utilizzate all’interno del processo penale.

Se da un lato la direttiva in questione ha il pregio di dettare gli standards inderogabili della mediazione penale, dall’altro la stessa suscita non poche perplessità. Una su tutte la sua effettiva portata vincolante: è ormai appurato che gli Stati membri non sono obbligati a dotarsi di mezzi di conciliazione quanto, invece, a garantirne una specifica disciplina ove gli stessi venissero previsti.

 

L’esperienza belga e quella tedesca: l’ampia accessibilità della mediazione penale

Nel tentativo di superare la visione reo-centrica del processo penale, diversi Stati europei hanno avviato, sin dagli anni novanta, differenti sperimentazioni in tema di restorative justice.

In Belgio, già dal 1994, l’autore del reato può ottenere, in relazione agli illeciti per cui il P.M. ritiene che si possa applicare la pena di massimo due anni di reclusione, l’archiviazione delle indagini attraverso il pagamento di una somma a titolo risarcitorio nei confronti della vittima. Per favorire l’attività riparativa, il Pubblico Ministero può disporre l’esperimento di un vero e proprio tentativo di conciliazione.

Nel 2005, inoltre, viene introdotta una forma di mediazione penale estesa a tutti i tipi di reato, accessibile in ogni momento (dalla fase delle indagini a quella dell’esecuzione) ed autonoma rispetto al processo penale, senza la previsione uno specifico beneficio per il reo. Uno spazio, dunque, a carattere puramente dialogico, privo di esiti standardizzati, in cui le parti possono raggiungere un accordo o limitarsi a semplici chiarimenti, il cui esito potrà essere considerato dal giudice ai fini della commisurazione della pena.

Una simile situazione è rinvenibile nell’esperienza tedesca, in cui la mediazione penale si caratterizza per una forte accessibilità sia sul piano del momento processuale (è possibile esperire la conciliazione in qualsiasi fase del procedimento), sia su quello della tipologia di reato, ove non sussistono limitazioni (in altri ordinamenti, come ad esempio quello austriaco, la mediazione è invece preclusa per reati di particolare gravità).

 

La situazione in Italia: tra mera riparazione e conciliazione

Il legislatore italiano ha dimostrato di poter attribuire una certa rilevanza alla riparazione, a volte prescindendo, tuttavia, dal riconoscimento di idonei spazi dialogico-conciliativi diretti all’incontro delle volontà dei due soggetti, sicché alcuni degli istituti cui si fa riferimento, seppur sovente ricollegati al settore della giustizia riparativa, non sono inquadrabili nella categoria della restorative justice così come delineata dalla Direttiva 29/2012/UE, in quanto basati su condotte riparatorie non necessariamente concordate dalle parti. Si pensi, ad esempio, alla causa di estinzione del reato prevista dall’art. 35 del D. Lgs. 274 del 2000 e a quella, di recente introduzione, di cui all’162-ter del codice penale, di seguito analizzata.

Introdotta dalla precitata riforma Orlando, la nuova causa di estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie (art. 162-ter del codice penale), rappresenta una ipotesi di definizione alternativa del procedimento che aveva interessato, sino ad ora, soltanto la giurisdizione di pace. Nonostante le intenzioni del legislatore, la concreta efficacia deflattiva dell’istituto si prospetta molto limitata, data l’applicabilità circoscritta ai soli reati perseguibili su querela rimettibile e la mancata estensione anche a quei reati che, pur perseguibili d’ufficio, vanno a ledere interessi meramente individuali, caratterizzandosi per un disvalore sociale alquanto ridotto.

Si noti, inoltre, come la dichiarazione di estinzione del reato possa avvenire a prescindere dal consenso della persona offesa, purché il giudice ritenga congruo il risarcimento offerto dal reo. Il nuovo istituto, di conseguenza, non può in alcun modo ricollegarsi al concetto di restorative justice così come inteso nella normativa dell’Unione Europea, in quanto meramente diretto alla concessione di un beneficio per l’autore del reato, a prescindere dall’esito di un’attività dialogica tra questi e la persona offesa (si rammenti, peraltro, che la spontanea volontà della vittima è uno dei requisiti essenziali previsti dalla Direttiva 29/2012/UE).

 

La conciliazione tra vittima e autore del reato tende ad avere un ruolo rilevante, invece, nell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova.

Sussistendone i rigidi presupposti (tra cui il rispetto dei limiti edittali di pena previsti ai fini dell’accesso al beneficio), l’imputato (o indagato) può chiedere di essere assegnato all’ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE) per lo svolgimento di un programma trattamentale, con annessa sospensione del processo penale in corso. Il giudice, al termine del periodo fissato, valuta in udienza l’esito della prova (la quale deve consistere, inoltre, in condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose dell’illecito e, ove possibile, nel risarcimento del danno cagionato, nonché nel lavoro di pubblica utilità) e, in caso positivo, dichiara l’estinzione del reato.

Proprio il programma di trattamento della messa alla prova, ai sensi dell’art. 464-bis del codice di procedura penale, deve in ogni caso prevedere “le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa”, con la conseguente possibilità, per quest’ultima, di partecipare (anche se in via eventuale) all’elaborazione e alla esecuzione del programma, nel rispetto dei dettami stabiliti dalla Direttiva 29/2012/UE.

Istituto ancor più vicino al modello di giustizia riparativa prospettato dalla normativa dell’Unione Europea, è quello previsto dall’art. 29 D. Lgs. 274 del 2000, che riguarda l’udienza di comparizione dinanzi al Giudice di Pace. In tale fase processuale, se il reato è perseguibile su querela di parte, il giudice è tenuto a promuovere la conciliazione tra querelante e imputato, al fine di addivenire alla remissione della stessa. Inoltre, il legislatore ha previsto la possibilità, per lo stesso organo giudicante, di “avvalersi dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio”, specificando peraltro che “le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’attività di conciliazione non possono essere in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione”.

Il processo minorile, inoltre, è uno dei settori che ben si presta alla valorizzazione della riparazione, considerando la giovane età dell’autore del reato e l’auspicabile ricorso a sanzioni poco afflittive. Ciò in particolare per quanto concerne la fase iniziale del procedimento: le attività riparatorie (e/o di conciliazione) potranno essere positivamente valutate dal giudice in relazione ad istituti previsti in ottica favor rei quali, ad esempio, quello del perdono giudiziale ex art. 169 del codice penale.

Della delega posta in essere con la c.d. “riforma Orlando” si è già fatto cenno: il settore dell’esecuzione penale, in cui la riparazione viene da tempo riconosciuta come parte integrante del recupero sociale del condannato (si pensi, ad esempio, alla misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali, nelle cui prescrizioni deve stabilirsi che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima), vedrà l’introduzione di alcuni meccanismi di giustizia riparativa. Novità per le quali gran parte della dottrina auspica, come caratteristica essenziale, quella della bi-direzionalità, al fine di assicurare la partecipazione attiva di entrambi i soggetti e di scongiurare, in tal modo, che i nuovi istituti operino a vantaggio esclusivo del reo.

 

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