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Il risarcimento del danno nei confronti della P.A.

La responsabilità della pubblica amministrazione
Il risarcimento del danno nei confronti della P.A.
Il risarcimento del danno nei confronti della P.A.

Il tema della responsabilità della pubblica amministrazione è sempre stato oggetto di un vivace dibattito sia all’interno della dottrina che della giurisprudenza, in considerazione delle notevoli implicazioni che esso comporta sotto il profilo risarcitorio. Oggi, la maggior parte delle questioni problematiche sono state risolte dal legislatore, attraverso le novità introdotte con il codice del processo amministrativo. Si tratta di una questione particolarmente rilevante se si pone l’attenzione al diritto fondamentale alla difesa garantito dall’art 24 della Costituzione che afferma che tutti hanno il diritto di agire in giudizio per la difesa, non solo dei propri diritti, ma anche degli interessi legittimi.

Ciò nonostante, fino alla storica sentenza numero 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, all’interno del nostro ordinamento vigeva  il “dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi”. In altri termini, l’eventuale lesione cagionata ad un privato da un provvedimento della pubblica amministrazione che agiva in veste autoritativa (e non quindi iure privatorum) non attribuiva al primo il diritto ad ottenere alcun tipo di risarcimento. A tale conclusione si giungeva sulla base di due ordini di argomentazioni.

In primo luogo, si applicava un’interpretazione restrittiva dell’articolo 2043 del codice civile, a norma del quale “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che l’ha commesso a risarcirlo”.

Secondo l’interpretazione giurisprudenziale allora dominante, non poteva considerarsi "ingiusto" il danno derivante dalla lesione di un interesse legittimo: ne conseguiva che la pretesa risarcitoria del privato sarebbe stata giustificata soltanto laddove ad essere incisa fosse una situazione qualificabile come diritto soggettivo. Situazione difficilmente configurabile in presenza di un danno derivante da un provvedimento amministrativo illegittimo.

Per limitare gli effetti negativi di tale interpretazione, una parte della giurisprudenza iniziò a distinguere tra interessi legittimi pretensivi (diretti al conseguimento di uno specifico provvedimento amministrativo e della relativa e connessa utilità sostanziale) ed interessi legittimi oppositivi (volti, cioè, ad impedire provvedimenti amministrativi lesivi delle proprie situazioni soggettive). Mentre per i primi non sarebbe stata possibile alcuna tutela, per la risarcibilità di quelli oppositivi si richiamava la “teoria della degradazione”.

Secondo tale teoria, l’emanazione di un provvedimento amministrativo illegittimo affievoliva (o meglio degradava) la posizione giuridica di diritto soggettivo a interesse legittimo oppositivo; il privato poteva in tal modo ottenere la tutela della propria posizione giuridica ma prima aveva l’onere di adire il G.A., al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento con efficacia ex tunc, con conseguente “riviviscenza” del diritto soggettivo medio tempore affievolito a interesse legittimo; solo successivamente, poteva rivolgersi al G.O. per ottenere il risarcimento del danno subito.

La teoria della degradazione venne fortemente criticata perché non garantiva al privato una tutela adeguata: quest’ultimo avrebbe dovuto adire due giudici diversi, con tutti i pregiudizi che ne conseguivano sotto il profilo dell’allungamento delle tempistiche processuali e della diminuzione delle chances di ottenere il risarcimento.

Tale teoria, che già di per sé incontrava il limite di potersi applicare esclusivamente ai soli interessi oppositivi, non superava comunque la seconda delle argomentazioni poste alla base del dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi.

Infatti, pur ammettendo tale risarcibilità in astratto, la giurisprudenza evidenziava come in nessun modo il giudice amministrativo avrebbe avuto in concreto i poteri per garantire il risarcimento richiesto dal privato, in considerazione della natura esclusivamente impugnatoria del giudizio amministrativo.

La sentenza 500 del 1999

Con la sentenza 500 del 1999, le Sezioni Unite superarono entrambe queste argomentazioni. Decisivo, in tal senso, è stato il ruolo  della giurisprudenza sovranazionale che, fin dalla nota pronuncia Francovich, spinse per il superamento del tradizionale assetto raggiunto dalla giurisprudenza italiana.

Si impose una nuova e più ampia lettura dell’art 2043 del codice civile, in forza della quale va considerato ingiusto anche il danno derivante dalla lesione di un mero interesse legittimo.

Inoltre, le Sezioni Unite superarono anche la critica secondo cui il giudice amministrativo non avrebbe avuto i necessari poteri per imporre il risarcimento, affermando che, nelle controversie risarcitorie, la giurisdizione non fosse del giudice amministrativo ma del giudice ordinario (che, come noto, possiede gli strumenti per garantire al privato un risarcimento effettivo del danno subito).

Successivamente alla sentenza 500 del 1999, una delle questioni che più ha visto lo scontro tra i giudici civili e quelli amministrativi è stata senza dubbio quella della pregiudizialità tra l’annullamento dei provvedimenti amministrativi e il risarcimento dei danni scaturiti da tali provvedimenti.

La giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato riteneva necessario, affinché il privato potesse ottenere il risarcimento dei danni, il previo annullamento del provvedimento illegittimo che tali danni aveva provocato. In altri termini, il privato per ottenere il risarcimento avrebbe dovuto adire, in primo luogo, il giudice amministrativo per l’annullamento dell’atto e, solo successivamente, quello civile per il risarcimento.

Si riteneva, infatti, che il giudice ordinario (che come abbiamo visto le Sezioni Unite ritenevano essere il giudice competente per il risarcimento del danno) non avesse poteri di annullamento, ma esclusivamente quello di disapplicazione  riconosciuto dalla LAC.

Contrapposto a tale orientamento del Consiglio di Stato, vi era quello della Cassazione che riteneva che il privato potesse ottenere tutela direttamente dal giudice ordinario, senza necessità del previo annullamento in sede amministrativa.

Questo perché  la teoria della pregiudizialità non garantiva quella tutela “piena ed effettiva” che la Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. 204/2004 e Corte Cost. 161/2006) ha imposto di assicurare al privato. Quest’ultimo sarebbe stato, infatti,  gravemente pregiudicato nella sua richiesta di risarcimento se avesse dovuto proporre due domande distinte, a due giudici diversi, pur di ottenere la tutela desiderata.

 

Il Codice del processo amministrativo

Con il codice del processo amministrativo è stata infatti definitivamente sancita la possibilità di proporre – in caso di cattivo esercizio del potere amministrativo – un’azione risarcitoria autonoma. L’articolo 30 del decreto legislativo n. 104/2010 prevede, infatti, in proposito, che: ”l’azione di risarcimento del danno è proposta nel termine di 120 giorni decorrente dal giorno in cui il fatto s’è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva immediatamente da questo. Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti ed esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’impugnazione nei termini di decadenza, degli atti amministrativi illegittimi”.

La soluzione offerta dal legislatore al problema della pregiudiziale amministrativa appare intermedia rispetto alle contrapposte tesi già richiamate. Se, infatti, viene riconosciuta, da un lato, la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni causati da provvedimenti illegittimi a prescindere dall’annullamento degli stessi, viene però previsto un termine decadenziale molto breve per poter esperire tale rimedio, in luogo dell’ordinario termine quinquennale di prescrizione per gli illeciti extracontrattuali. Si è, così, tentato di risolvere uno dei problemi che, secondo la giurisprudenza amministrativa, avrebbe posto la previsione di un’azione risarcitoria autonoma, ossia l’eccessiva incertezza in cui l’ordinario termine di prescrizione lascerebbe gli enti pubblici rispetto alle conseguenze dei propri provvedimenti non annullati.

Nonostante oggi si possa affermare che molti dei principi enunciati nella sentenza 500 del 1999 siano in gran parte superati (ad esempio la giurisdizione sulle controversie risarcitorie da lesione di interessi legittimi spetta al giudice amministrativo), la portata innovativa di tale decisione è stata storica.

Tuttavia, il superamento del dogma dell’irrisarcibilità dell’interessi legittimi ha creato diversi problemi: in particolar modo, la giurisprudenza si è interrogata sulla natura della responsabilità a cui va incontro la pubblica amministrazione e, nonostante si debba dare atto di sentenze di segno contrario, la tesi maggioritaria è quella che ne afferma la natura “aquiliana”.

Varie sono le conseguenze che l’adesione ad una tale tesi comporta: il termine di prescrizione è quinquennale, l’onere della prova è a carico del privato danneggiato e, infine, il privato è tenuto a dimostrare la colpa della pubblica amministrazione.

Si può, pertanto, affermare che il privato può ottenere tutela risarcitoria innanzi al giudice amministrativo per il danno da provvedimento, ma solo se riesce a dimostrare cumulativamente l’illegittimità del provvedimento stesso, la colpa della pubblica amministrazione e la spettanza del bene della vita che gli è stato ingiustamente negato.

Occorre a questo punto soffermarsi sul ruolo svolto da tali elementi nel giudizio di responsabilità della pubblica amministrazione.

 

Il giudizio sulla spettanza del bene della vita

Il primo requisito che viene in considerazione è il cosiddetto giudizio controfattuale sulla spettanza del bene della vita; si tratta di un giudizio di tipo prognostico, in forza del quale il giudice dovrà accertare se, in assenza dell’illegittimità posta in essere dalla pubblica amministrazione con il provvedimento, il privato avrebbe ottenuto il bene della vita a cui aspirava.

Solo in caso di esito positivo di tale verifica il privato ha diritto al risarcimento richiesto; in altri termini, l’illegittimità del provvedimento è condizione da sola necessaria ma non sufficiente per risarcire il privato.

Una tale asserzione trova d’altronde conferma nell’ambito della legge 241 del 1990 che, al secondo comma dell’articolo 21 octies, afferma che non è annullabile il provvedimento amministrativo che, pur colpito da un vizio formale o procedimentale, non sarebbe nel merito potuto essere diverso da quello emanato dalla pubblica amministrazione.

Quindi l’illegittimità del provvedimento non può da sola giustificare la tutela risarcitoria del privato, in quanto occorre tenere in considerazione l’interesse opposto vantato dalla p.a. alla stabilità e alla certezza degli atti amministrativi; tali interessi impongono di mantenere fermo un provvedimento che, pur colpito da un vizio formale, non avrebbe attribuito al privato il bene della vita richiesto anche in assenza di quel vizio.

Occorre però chiedersi come il giudice possa compiere un tale giudizio controfattuale. Se vi è la possibilità di riesercitare il potere da parte della pubblica amministrazione, quest’ultima sarà chiamata a svolgere nuovamente la sua attività; se, invece, ciò non è più  possibile, il giudice si troverà costretto a sostituirsi alla pubblica amministrazione nell’esercizio del potere.

Nessun problema si pone nel caso di attività vincolata:  in questo caso il giudice può sostituirsi alla pubblica amministrazione e accertare se, in presenza di un provvedimento legittimo, il privato avrebbe o meno ottenuto il bene della vita richiesto.

Se, invece, l’attività da cui discende il provvedimento illegittimo è di tipo discrezionale, si ritiene che il giudice possa effettuare un controllo solo di tipo “estrinseco” ovvero volto a verificare se la soluzione adottata dalla pubblica amministrazione sia tra quelle astrattamente conformi allo scopo della norma.

Il vero problema si pone invece, laddove il giudice amministrativo debba giudicare la spettanza del bene della vita in assenza di qualsiasi precedente pronuncia della pubblica amministrazione. In questi casi il giudice non potrà stabilire con certezza se la pretesa del privato sarebbe stata o meno degna di accoglimento e, pertanto, ciò che la giurisprudenza ritiene risarcibile, non è tanto la perdita di un bene della vita ingiustamente negato, ma la perdita della chances di poterlo conseguire.

In quest’ultima ipotesi, il valore economico del risarcimento dovrà essere parametrato alle reali possibilità di vittoria del privato: normalmente la giurisprudenza ricava tale somma frazionando il valore della vittoria (ad esempio in una gara di appalto) per il numero dei partecipanti.

Occorre tuttavia sottolineare come il giudizio controfattuale appena descritto venga dal legislatore alcune volte eccezionalmente pretermesso: in questi casi, il privato avrà diritto ad ottenere un risarcimento a prescindere dalla spettanza del bene della vita.

Esemplificativamente, si può richiamare “il danno da mero ritardo” che garantisce al privato la possibilità di essere risarcito per il solo fatto che la pubblica amministrazione non abbia rispettato le tempistiche procedimentali imposte dalla legge, anche in presenza di un provvedimento sfavorevole.

Tra l’altro, è necessario sottolineare come il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita sia l’unico elemento della sentenza 500 del 1999 rimasto ancora oggi attuale nel nostro ordinamento.

Occorre a questo punto analizzare l’altro requisito richiesto dalle Sezioni Unite al fine di fondare il giudizio di responsabilità della pubblica amministrazione nel caso di emissione di un provvedimento illegittimo, ovvero la colpa della stessa.

 

La colpa della pubblica amministrazione

Con la sentenza 500 del 1999 le Sezioni Unite, se, da una parte hanno ammesso la risarcibilità del danno subito dal privato nel caso di lesione di un interesse legittimo, dall’altra parte hanno, però, introdotto un limite a tale possibilità, subordinandola al riscontro della colpa della pubblica amministrazione.

Fino a tale storico arresto giurisprudenziale, la colpa della pubblica amministrazione veniva considerata una “colpa in re ipsa” nell’illegittimità del provvedimento emanato: una volta accertato tale requisito, la pubblica amministrazione non aveva possibilità di andare esente dalla responsabilità, neanche dimostrando la scusabilità dell’errore in cui era incorsa, ad esempio perché la norma utilizzata era poco chiara perché oggetto di dibattito giurisprudenziale, oppure perché i fatti dedotti in giudizio non erano univocamente interpretabili.

Era una sorta di “colpa specifica”, propria del diritto penale per violazione delle norme di legge sul procedimento amministrativo.

La nozione di colpa in re ipsa venne abbandonata dalle Sezioni Unite proprio per arginare e limitare i casi in cui la pubblica amministrazione potesse essere chiamata a risarcire il danno da provvedimento.

Sì pose però il problema di individuare una nozione di colpa che fosse compatibile con l’azione amministrativa, stante l’impossibilità di utilizzare i coefficienti psicologici di rimproverabilità propri delle persone fisiche.

Sì individuò una tipologia di colpa particolare ovvero la “colpa dell’apparato”, che è ben diversa dalla colpa del pubblico funzionario che pone in essere materialmente il provvedimento. È, infatti, una colpa che si realizza in caso di violazione delle regole di buona amministrazione, correttezza ed imparzialità che sono proprie dell’agire amministrativo.

Tuttavia, anche tale nozione di colpa è stata oggetto di critiche.

In primo luogo in un’ottica di protezione del privato: quest’ultimo, infatti, difficilmente avrebbe la capacità di dimostrare dall’esterno le violazioni di tale regole da parte della pubblica amministrazione, con conseguente indebolimento della tutela garantita dall’ordinamento.

In secondo luogo, perché la nozione di "colpa dell’apparato" presentava alcune ambiguità non accettabili: si sottolineava come, se da una parte, la giurisprudenza affermava che la nozione di colpa fosse diversa da quella di illegittimità, dall’altra parte, tuttavia, pretendeva di accettarla attraverso gli stessi criteri con i quali si verificava l’illegittimità di un provvedimento, ovvero quelli dell’eccesso di potere o della violazione di legge.

L’errore inescusabile

Per superare queste critiche la giurisprudenza cambiò il concetto di colpa che oggi va ritenuto esistente quando la p.a. commette un errore inescusabile nello svolgimento del procedimento che si conclude con l’emanazione del provvedimento illegittimo.

Al fine di alleggerire il compito del privato danneggiato (a cui ex articolo 2043 del codice civile spetta l’onere di dimostrare la colpa) la giurisprudenza ha introdotto in passato degli indici rilevatori di un errore inescusabile della pubblica amministrazione.

Era tale l’errore quando, ad esempio, derivava dall’applicazione di una norma chiara e non contestata, oppure quando i fatti erano semplici ed inequivocabili. In presenza di tali allegazioni, sarebbe stato onere della pubblica amministrazione dimostrare il contrario, ovvero provare la scusabilità dell’errore cui era incorsa.

Successivamente si affermò un orientamento giurisprudenziale ancora più favorevole al privato secondo cui la dimostrazione da parte di quest’ultimo dell’illegittimità del provvedimento avrebbe automaticamente determinato l’inversione dell’onere della prova, a prescindere dall’esistenza di qualsiasi indice presuntivo.

Non si trattava di un ritorno a quel concetto di colpa in re ipsa affermato dalla giurisprudenza  precedente alle Sezioni Unite del 1999, come, invece, paventato da qualcuno: infatti la nozione di colpa in re ipsa non ammette la prova contraria come, invece, fa quella prevista dalla tesi sopra descritta.

In altri termini, il privato era evidentemente agevolato nella prova della colpa, ma alla pubblica amministrazione residuava comunque la chance di dimostrare di essere esente da qualsiasi giudizio di rimproverabilità.

 

La giurisprudenza comunitaria

Un ruolo non marginale, nell’ambito della tematica relativa alla colpa della pubblica amministrazione, è stato ricoperto dalla giurisprudenza comunitaria che si è interessata più volte dell’argomento.

Una prima fondamentale sentenza è stata quella con cui, nel 2004, la Corte di Giustizia ha affermato l’illegittimità di un ordinamento nazionale che imponeva al privato l’onere di dimostrare la colpa della pubblica amministrazione, al fine di ottenere il risarcimento per il danno da provvedimento

Questa interpretazione della sentenza della Corte di Giustizia, particolarmente favorevole al privato, rendeva di fatto inutile il tentativo operato da una parte minoritaria della giurisprudenza nazionale di inquadrare la responsabilità della pubblica amministrazione nell’alveo della responsabilità contrattuale “da contatto sociale”.

Tale minoritaria tesi aveva come unico scopo quello di alleggerire l’onere probatorio posto a carico del privato: inquadrando la responsabilità della pubblica amministrazione nell’ambito dell’articolo 1218 del codice civile, sarebbe stato, infatti, onere della pubblica amministrazione dimostrare di aver correttamente eseguito la propria prestazione, dovendo il privato essere esclusivamente onerato dell’obbligo di allegare l’inadempimento della stessa.

Come detto, tale tesi è stata superata in conseguenza del riconoscimento delle agevolazioni probatorie al privato anche nell’ambito della responsabilità aquiliana.

Sul punto è nuovamente intervenuta la Corte di Giustizia nel 2010 affermando che anche un sistema che contempli la colpa presunta è in contrasto col diritto comunitario. In altri termini, non è comunitariamente compatibile una disciplina che assegni, in qualsiasi modo, rilievo alla colpa nell’ambito del giudizio risarcitorio intrapreso dal privato contro la pubblica amministrazione.

Per valutare l’importanza di tale pronuncia, si deve fare riferimento alla disciplina sull’inefficacia del contratto tra la pubblica amministrazione e l’aggiudicatario in caso di annullamento della procedura di gara.

Il codice del processo amministrativo prevede, infatti, due forme di tutela in capo al privato: la prima è quella “specifica” che garantisce a chi è stato illegittimamente escluso dalla gara il subentro nel contratto; la seconda è quella “per equivalente” che si applica ogni volta in cui il giudice ritenga, nell’esercizio del suo potere discrezionale, di non attribuire al ricorrente il bene della vita illegittimamente attribuito ad altri poiché è presente un interesse generale che impone di mantenere in vita il contratto.

La disciplina in esame è stata oggetto della pronuncia della Corte di Giustizia del 2010, la quale ha ritenuto che, laddove non venga dichiarata l’inefficacia del contratto, e quindi non venga riconosciuta la tutela in forma specifica al ricorrente, il giudice deve riconoscere a quest’ultimo, d’ufficio e senza necessità di prova dell’elemento soggettivo, il risarcimento del danno subito e provato.

Diversamente opinando, secondo il giudice comunitario, il rimedio per equivalente non sarebbe un’alternativa valida ed effettiva rispetto a quelle in forma specifica che, come noto, opera a prescindere dalla dimostrazione dell’elemento soggettivo.

In altri termini, poiché il rimedio per equivalente va considerato, non solo uno strumento risarcitorio in senso stretto, ma una misura sostitutiva della tutela specifica, non può essere sottoposto alla dimostrazione di requisiti più stringenti e selettivi rispetto all’altra forma di tutela prevista.

In forza di ciò, la Corte concluse nel senso che una normativa nazionale non può subordinare il risarcimento dei danni derivanti da violazioni della pubblica amministrazione commesse nel corso di gare d’appalto alla dimostrazione della colpevolezza di tale violazione.

La prevalente giurisprudenza nazionale ha, tuttavia, limitato l’impatto di tale pronuncia ritenendo che il principio espresso debba essere applicato esclusivamente al settore degli appalti, ed, in particolare, a quelli sopra soglia. Fuori da quest’ultimo settore la responsabilità della pubblica amministrazione, lungi dall’essere oggettiva, richiede sempre la dimostrazione della colpa.

Infine, per ciò che concerne la quantificazione del danno risarcibile dalla pubblica amministrazione occorre distinguere tra il risarcimento per equivalente e quelle in forma specifica.

Con il primo, il danneggiato ottiene una somma di denaro pari al valore del bene della vita perduto o leso, mentre con il secondo viene rimesso nella medesima situazione in cui si trovava prima della commissione dell’illecito.

 

La quantificazione del danno

Ai fini della quantificazione del danno da attività illegittima della pubblica amministrazione, si possono applicare le norme dettate dal codice civile con riferimento alla disciplina dell’inadempimento delle obbligazioni.

Fondamentale, in tal senso, è l’articolo 1223 del codice civile che afferma che il risarcimento deve essere integrale, ovvero corrispondente al danno emergente ma anche al lucro cessante. Nel caso di danno derivante da esclusione illegittima dalla gara, la giurisprudenza ritiene che debbano essere risarcite, non solo le spese sostenute dal concorrente per la partecipazione alla stessa, ma anche le attività economiche che non sono state realizzate in conseguenza dell’illegittimità che ha dato luogo alla mancata aggiudicazione.

Ove la quantificazione del danno risulti particolarmente difficile, l’articolo 1226 del codice civile prevede la possibilità che la liquidazione avvenga in via equitativa da parte del giudice. Infine, il rinvio all’articolo 1227 consente di escludere il risarcimento dei danni che il privato avrebbe potuto evitare impugnando tempestivamente il provvedimento dannoso.

Merita di essere sottolineato il fatto che, oggi diversamente da quanto fatto in passato, la giurisprudenza ammette il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad un illegittimità della pubblica amministrazione. Si sottolinea, infatti, come l’articolo 30 c.p.a. faccia genericamente riferimento alla “condanna al risarcimento del danno ingiusto”, senza precisare che esso debba avere necessariamente  natura patrimoniale.

La possibilità per il privato di accedere al risarcimento del danno in forma specifica è desumibile dall’articolo 30, comma 2, c.p.a. che opera un espresso rinvio all’articolo 2058 del codice civile. Dunque, in presenza dei requisiti previsti dal codice civile, il privato potrà ottenere la reintegrazione in forma specifica del bene della vita richiesto.

È necessario evidenziare, che detta tutela risarcitoria in forma specifica non  può operare per gli interessi pretensivi, con un ordine rivolto all’amministrazione di emanare un certo provvedimento avente un certo contenuto. In tal caso, infatti, non si tratterebbe di risarcimento, che deve essere rivolto all’eliminazione delle conseguenze dell’illecito, ma di azione di esatto adempimento, disciplinata dall’articolo 34 c.p.a., tesa a ottenere la stessa prestazione originariamente dovuta e illegittimamente negata.

In conclusione, oggi lo stato dell’arte in tema di responsabilità della p.a. è il seguente: il privato non ha l’obbligo di rivolgersi prima al giudice amministrativo per l’annullamento del provvedimento ma può chiedere direttamente il risarcimento dei danni; lo deve fare, però, nel termine di decadenza di 120 giorni e la sua mancata impugnazione potrà essere valutata dal giudice per la quantificazione della somma da risarcire. L’onere della prova della colpa della p.a. spetta normalmente al privato, il quale potrà giovarsi delle presunzioni previste dalla giurisprudenza. Nel campo degli appalti, però, si riconosce (sulla spinta della giurisprudenza sovranazionale) una sorta di responsabilità oggettiva della p.a., con la conseguenza che nel giudizio risarcitorio la colpa non assumerà alcun significato.

Naturalmente, il risarcimento del privato è sempre subordinato alla verifica, da parte del giudice, della spettanza del bene della vita richiesto, controllo che sarà differente a secondo del tipo di attività (vincolata o discrezionale) esercitata dalla p.a.