x

x

Titolo e diffamazione: quando un articolo di giornale degrada a tweet

Nota parzialmente critica a Cassazione civile, Sezione III, 16 maggio 2017

di Fabio Ferrari

 

Il titolo di un articolo di giornale è idoneo ad integrare, ex se, il reato di diffamazione a mezzo stampa. Ciò risulta a maggior ragione vero innanzi all’evolversi delle modalità di fruizioni delle informazioni, le quali appaiono oggigiorno acquisite in modo sempre più frammentario e sbrigativo. Tale superficialità, pertanto, impone delle significative conseguenze nella valutazione dell’evento lesivo, dovendosi conferire meno importanza al legame complessivo tra titolo e testo.

Il fatto che il titolo di un articolo giornalistico sia idoneo ad integrare, ex se, un contenuto diffamatorio non è una novità: la giurisprudenza di legittimità, con una certa frequenza, ha confermato che la lesione dell’onore può derivare non solo dal testo nella sua interezza, bensì anche dagli elementi più in rilievo e sintetici del medesimo, quali titolo, sottotitolo, occhiello, foto, didascalia[1].

In modo assai condivisibile, però, queste affermazioni sono quasi sempre state accompagnate da una precisazione di fondamentale importanza: la diffamazione è rilevabile solo qualora il titolo sia in sé e per sé in grado di rivelarsi lesivo; il lettore, cioè, deve poter cogliere appieno l’offesa attraverso esso, così da potersi ritenere già integrato, esaustivamente, il pregiudizio dell’altrui onore, senza alcun bisogno di approfondire il tema con il corpo centrale dello scritto. Al contrario, un titolo che esprime una diffamazione generica, meramente intuitiva, approssimativa (o in ogni caso impossibile da cogliere nei suoi elementi costitutivi senza la completa lettura) non può configurare da sé alcun illecito; in questo caso, dunque, sarà proprio il testo, nella sua interezza, determinante per chiarire il carattere ingiurioso o meno dell’incipit: se la base diffamatoria del titolo troverà conferma nel rimanente contenuto del pezzo, la lesione sarà accertata; se, diversamente, la complessità della narrazione rivelerà uno scritto rispettoso dei limiti imposti al diritto di cronaca e critica, l’iniziale pregiudizio recato dal titolo sarà assorbito, e definitivamente stemperato, dall’innocuo testo.

Così, solo per fare qualche esempio, l’autonoma capacità diffamatoria del titolo è stata rilevata in una recente pronuncia della Cassazione[2]: in essa si è ribadito come, pur dovendosi in linea di principio dare una lettura congiunta dell’intero pezzo, i singoli elementi di questo possono risultare idonei a ledere l’onore altrui; a maggior ragione, puntualizza la Corte, innanzi «all’icastica perentorietà» del titolo, spesso in grado di forviare il lettore «frettoloso» e proteso ad un’analisi «superficiale» del testo. Nella fattispecie, il pezzo titolava «(…) truffa all’Imec. Spuntano altri indizi per i tre alla sbarra», precisando però solo nel corpo centrale che si trattava non di un rinvio a giudizio, bensì di una “mera” udienza in camera di consiglio ex artt. 409 e 410 c.p.p.

Al contrario, la lettura del testo – e non solo del titolo – si è resa necessaria in due diversi casi, giungendo peraltro a risultati opposti: nel primo, il titolo recitava «Professore abusivo sloggiato dagli agenti»; qui, negando la diffamazione, si è ritenuto che sia il senso compiuto dell’aggettivo abusivo all’interno della vicenda, sia la reale identità del docente non potevano essere appieno compresi senza l’attenta lettura dell’intero testo[3]. Nel secondo, la contesa era sorta a seguito della cassazione di una sentenza d’appello assolutoria nei confronti di Caio: questa decisione, però, non inficiava minimamente l’accertata innocenza del soggetto, essendo basata su “meri” presupposti formali; tuttavia, il titolo – «Giurò il falso, torna sotto processo» – e il relativo testo lasciavano intendere il contrario, essendo privi delle dovute precisazioni; da ciò, dunque, la constatazione della diffamazione[4].

 

Chiarito a sommi capi il contesto giurisprudenziale, è esattamente in questo scenario che si pone la sentenza qui annotata.

L’ex Governatore della Regione Sicilia S. C., ritenendo leso il proprio onore, agiva in giudizio a causa di un articolo pubblicato su un importante quotidiano nel 2003: in esso, secondo l’attore, l’attenta costruzione grafica del titolo e della foto lasciavano chiaramente intendere una certa vicinanza tra egli e un noto boss mafioso, in un momento temporale assai precedente rispetto alla condanna dello stesso S. C. per il reato di favoreggiamento personale aggravato alla criminalità organizzata. Il gruppo editoriale resisteva in giudizio, vedendo accolta la propria difesa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta dopo l’iniziale soccombenza in I grado: in particolare, i giudici del gravame sottolineavano come, pur trattandosi di un articolo precedente alla condanna definitiva dell’uomo politico, i fatti di cronaca dell’epoca avevano già abbondantemente accertato una certa “vicinanza” tra l’attore e gli ambienti criminali; a questo, doveva aggiungersi il consolidato principio per il quale tanto è maggiore la carica politica, quanto più ampio deve ritenersi il diritto di cronaca e critica[5]. Sulla base di questi e altri elementi, pur rilevando alcune «espressioni imprecise sotto il profilo tecnico» nell’articolo, la Corte d’Appello accoglieva il ricorso del gruppo editoriale, negando il carattere diffamatorio dell’intero pezzo: quest’ultimo, pertanto, andava letto nel suo complesso, senza prestare esclusiva – e dunque parziale – attenzione alla configurazione del titolo.

Richiamando la giurisprudenza sopra descritta, la Suprema Corte ha ritenuto invece necessario cassare con rinvio.

Per quanto qui interessa, di fondamentale importanza non è la contestazione alla Corte d’Appello della mancata analisi autonoma del solo titolo e della sua possibile portata ingiuriosa…in sé e per sé; ciò che appare ben più importante è la motivazione su cui questo passaggio si erige.

Si tratta di un punto della pronuncia di estrema chiarezza, meritevole dunque di essere riportato per intero:

«Posto che è indubbio che le modalità della comunicazione sono diventate, col trascorrere del tempo, sempre più rapide ed essenziali – basti pensare alla velocità dei sistemi che la rete internet mette oggi a disposizione della grande massa dei consumatori, limitando in alcuni casi i messaggi ad un certo numero di caratteri – è giocoforza ammettere che tale rapidità rende ancora più importante la valutazione circa l’idoneità anche del solo titolo di un articolo di giornale a rivestire una potenzialità diffamatoria. Ciò in quanto la rapidità ora richiamata fa sì che di frequente i fruitori di un quotidiano o di un settimanale si limitino proprio a scorrere i titoli, magari attraverso la home page presente in internet, in vista di un’informazione sintetica che non obbliga ad una lettura dilatata nel tempo. Ne consegue che la valutazione della portata diffamatoria attraverso la lettura congiunta del titolo e dell’articolo riveste un’importanza minore rispetto al passato, proprio perché la fruizione dell’informazione è diventata più veloce, con ricadute importanti anche in ordine alla superficialità che inevitabilmente ne consegue».

Dunque, in sintesi, il cambiamento oggettivo delle modalità di lettura in essere – recenti indagini statistiche sembrano confermare l’analisi della Suprema Corte[6] – deve incidere sulla valutazione del tema in oggetto: il rapporto cioè tra titolo, testo e contenuto diffamatorio. Maggiore è la superficialità della lettura, minore deve essere l’attenzione che il giudice pone alla complessità del pezzo, al significato e alla narrazione che esso esprime nel suo complesso: è invece sempre di più il titolo – e gli elementi ad esso affini – che merita attenzione, stante la connaturata, fisiologica eloquenza estetica.

Questo argomento, per quanto comprensibile, non è però del tutto condivisibile.

Un articolo di giornale non è un tweet: il titolo richiama l’attenzione del lettore e nomina il pezzo, ma altro non è che la testa di ponte di un lavoro ben più corposo, che risulta comprensibile solo se letto nel suo complesso. Non è affatto un caso, a questo proposito, che di norma il titolo sia conferito dal direttore responsabile, non dall’autore del pezzo: un conto è l’etichetta, altro è il prodotto.

È senza alcun dubbio corretto affermare che un titolo, in sé e per sé, può in taluni casi integrare il reato di diffamazione, pur disgiunto dal resto dello scritto; lo è ancora di più nel “contesto sociale” descritto dalla Corte di cassazione; ma altro – tutt’altro – discorso è cristallizzare una sorta di dottrina della superficialità, scambiando in questo modo il piano descrittivo con quello prescrittivo: il fatto che la lettura sia sempre meno attenta – descrizione – non può avere delle ricadute immediate e automatiche – prescrizione – sulla disciplina della diffamazione.

Il rischio di uno scollamento definitivo tra testo e titolo è serio, soprattutto se si carica di eccessivo e aprioristico valore l’idea per cui «la lettura congiunta del titolo e dell’articolo riveste un’importanza minore rispetto al passato». Come è giusto, già oggi il titolo può integrare da sé una portata ingiuriosa, ma la sentenza in esame sembra proporre un’evoluzione ulteriore sul punto, teorizzando la scissione tra titolo e testo a prescindere dal caso concreto.

Si potrebbe forse obiettare che il passaggio descritto funge più che altro da argomento ad adiuvandum, confermando in realtà le medesime – e più rassicuranti – tesi tratte dalla precedente giurisprudenza. È indubbio però che una pronuncia così netta rappresenta quantomeno uno scatto in avanti, a maggior ragione tenendo conto del suo possibile impiego pro futuro; ciò appare vero, soprattutto, considerata la nota disinvoltura con la quale spesso si abusa del precedente giudiziario, disancorandolo completamente dal suo presupposto teorico fondamentale: i fatti di causa.

Pertanto, a meno di non volere obliterare la categoria degli articoli di giornale, sarebbe forse opportuno ricordare che di essi si sta trattando, cioè di scritti che non si esauriscono nelle poche parole con cui sono presentati in grassetto al pubblico: i fatti, i ragionamenti e le narrazioni in essi contenuti non sono quasi mai comprensibili tramite un sintetico, per quanto icastico, titolo.

Se, dunque, l’evolversi del concreto modo di approcciarsi agli scritti da parte del lettore non può essere del tutto irrilevante, al contempo non può divenire esauriente e determinante. Se, ancora, il marketing del titolo induce talvolta il giornale a debordare dai confini del lecito, sarà quel singolo caso a dover essere valutato, rebus sic stantibus.

Per Hegel la lettura del quotidiano era la preghiera mattutina del cittadino: è vero che ogni concetto deve certo sapersi evolvere, adattandosi ai tempi; ma l’idea che nello spazio di un tweet possa esaurirsi anche la più laica delle intercessioni appare, forse, un po’ eccessivo.

[1] Tale principio, a prescindere dalla decisione assunta nel caso concreto, è affermato ex pluribus in: Cass. civ., sez. III, 7 agosto 2013, n. 18769, CED 627845; Cass. civ., sez. III, 27 gennaio 2009, n. 1976, CED 606390; Cass. civ., sez. III, 5 aprile 2005, n. 7063, CED 584298.

[2] Cass. civ., sez. III, 7 agosto 2013, n. 18769, cit.

[3] Cass. civ., sez. III, 27 gennaio 2009, n. 1976, cit.

[4] Cass. civ., sez. III, 5 aprile 2005, n. 7063, cit.: «Nel giudizio d’appello non fu consentito l’intervento della parte civile per difetto di procura al difensore. Impugnata la sentenza per cassazione dalla parte civile, la S.C. accolse il ricorso, ritenendo la legittimità del mandato conferito dalla parte civile al difensore, e rinviò il processo alla Corte d’appello di Firenze, la quale, infine, confermò l’originaria assoluzione pretorile».

[5] Cfr., per esempio, Cass. pen., sez. V, 16 maggio 2007, n. 29433, CED 236839.

[6] Cfr., tra le molte, https://www.informagiovani-italia.com/il_lettore_tipo.htm ove, premessa la difficoltà di descrivere con canoni comuni il cosiddetto lettore tipo (stante l’eterogeneità delle abitudini personali di ciascuno), si sottolinea comunque il macro dato relativo al tempo massimo consentito per catturare l’attenzione del lettore, ossia trenta secondi: se l’articolo non convince a proseguire la lettura entro questo brevissimo intervallo, l’attenzione volgerà inevitabilmente altrove

 

Redatto il 4 dicembre 2017