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Il distacco del lavoratore e la sua difficile regolamentazione in ambito comunitario

Il distacco del lavoratore e la sua difficile regolamentazione in ambito comunitario
Il distacco del lavoratore e la sua difficile regolamentazione in ambito comunitario

Le libertà di circolazione di merci, servizi, capitali e persone, appaiono tra le disposizioni fondamentali del Trattato CE, poiché esse costituiscono i principi cardine su cui si fonda la costruzione del mercato comune, che rappresenta l’obiettivo originario del processo di integrazione europea.

Alla circolazione delle persone il Titolo terzo dedica complessivamente due capi: il primo (artt. 39-42) si riferisce ai lavoratori subordinati mentre il secondo, con gli artt. 49 e 50 richiama all’eliminazione non solo di ogni discriminazione e restrizione posta in essere nei confronti dei prestatori di servizi ma anche tra i vari Stati membri.

Il principio della circolazione delle persone trova, inoltre, fondamento nell’art. 3 del trattato Ue, che statuisce per i lavoratori il diritto di circolare in un altro Stato membro per soddisfare reali richieste di lavoro e retribuzione, costituendo, in tal modo, la base del sistema giuridico lavoristico dell' UE.

La pratica del distacco di lavoratori ha dato origine a fenomeni di dumping sociale, dovuto alle differenze esistenti nel costo del lavoro e protezione sociale tra i Paesi membri. Oltre alle immediate conseguenze negative, (Op.cit.: http://www.lavorowelfare.it/2017/11/20/la-nuova-disciplina-europea-sul-distacco-di-lavoratori/) dovute alla disparità nella retribuzione del lavoratore distaccato rispetto ai cittadini dello Stato membro in cui svolge l’attività, il dumping sociale ha effetti anche a lungo termine, causando il rischio che gli Stati si trovino costretti ad abbassare gli standard di tutela domestici per far fronte alla concorrenza europea. Da qui l’esigenza di una dovuta armonizzazione in grado di coniugare il principio di territorialità (lex loci laboris), preposto alla salvaguardia dell'ordinamento dello Stato ospitante, al principio di personalità dei distaccati. Ciò al fine di salvaguardare i diritti acquisiti in ambito lavorativo, nel loro Paese d’origine.

La figura del distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi è stata disciplinata, come noto, dalla Direttiva 96/71/Ce, che si inserisce nel quadro delle norme dettate dal Trattato delle Comunità europee in materia di prestazione di servizi. La base giuridica del provvedimento risiede negli artt. 47c.2 e 66 del Trattato. La Direttiva rappresenta il primo corpo normativo omogeneo che dispone per il superamento degli impedimenti consentendo di individuare le condizioni di lavoro applicabili ai lavoratori che, a titolo temporaneo, eseguono lavori in uno Stato membro diverso dallo Stato la cui legislazione disciplini il rapporto di lavoro (Cfr. Commissione Ce, L’applicazione della Direttiva 96/71/Ce, cit., p. 3)

La libera prestazione di servizi determina situazioni di mobilità del lavoro e comporta, dunque, l’individuazione di soluzioni tecnico normative volte a risolvere il problema dell’attuazione del diritto del lavoro di uno Stato ospite, quandunque quest’ultimo costituisce una barriera, di natura giuridica, per l’accesso e la circolazione di lavoratori di un altro Stato dell’Unione Europea.

Carattere della Direttiva è quello di instaurare fra le imprese un regime di leale concorrenza in modo da assicurare una tendenziale parità di trattamento tra quelle che svolgono una prestazione di servizi transnazionale e quelle del paese ospitante (P. DAVIES, Posted Workers: single markel orproredion of national labour, in Com. Mar. Law Rev., 1997, p.573 ss.).

A tal proposito, la delineazione delle condizioni di lavoro, applicabili al soggetto distaccato, rappresenta il tentativo di addivenire ad un bilanciamento fra tutela del lavoro e libertà economiche, contemplando sia la necessità di scongiurare la sopravvenienza di pratiche di dumping sociale che potrebbero creare storture funzionali del mercato concorrenziale (G. ORLANDINI, La disciplina comunitaria, cit., p. 465) sia il concetto di sovranità territoriale. Ma anche, infine, il timore dei Paesi membri quando si mette in dubbio l’attuazione delle loro regole interne di diritto del lavoro.

Il legislatore ha inteso imprimere, dunque, una armonizzazione quanto piu esaustiva e perequativa possibile tra i diversi mercati del lavoro, dando vita ad un mercato unico ed integrato, ritenendo fondamentale che imprese nazionali ed estere evitino di intraprendere competizioni fra loro sui mercati locali, poiché queste risulterebbero viziate dai diversi livelli di tutela previsti dalle rispettive normative lavoristiche. La fissazione di standard di tutela del lavoratore per le imprese operanti nel contesto comunitario, deriva anche dalla volontà di alcuni paesi dell’Unione Europea di salvaguardare dalla concorrenza straniera i propri mercati interni ed i rispettivi ordinamenti lavoristici.

In linea generale, le posizioni su descritte mettono in luce che la Direttiva "si muove lungo la via stretta della difficile conciliazione tra le esigenze della libertà di prestazione dei servizi e la necessità di garantire quantomeno il rispetto del nucleo dei principi fondamentali del diritto del lavoro del paese destinatario del medesimo" (S. GIUBBONI, Diritti sociali e mercato, cit., pp. 116-117)

Quest’ultima, in considerazione dei suoi contenuti, è espressamente finalizzata a “definire un nucleo di norme vincolanti ai fini della protezione minima cui deve attenersi nel paese ospite il datore di lavoro…” (Cfr. G. ORLANDINI, La disciplina comunitaria, cit., p. 466.)

Essa, nello statuire il c.d. nocciolo duro delle tutele o hard-core, appare anomala rispetto alle altre Direttive comunitarie sia in quanto -nell’affrontare il problema di diritto internazionale privato consistente nella delineazione delle norme di conflitto- finisce per rientrare fra le fonti integrative delle disposizioni della Convenzione di Roma, sia poiché non può essere reputata uno strumento di hard law europeo per l’armonizzazione dei diritti nazionali.

La Direttiva, dovendo coniugare la tutela dei lavoratori con l’interstatualità della circolazione degli stessi, “does not try to harmonize the rules of the Member States categorized as mandatory. It merely identifies those employment conditions which the guest undertaking must respect” (Cfr.  C. BARNARD, Ec Emploiment Law, cit., p. 288).  

La Direttiva tende ad affermare la logica per cui le norme del paese ove viene erogata la prestazione di servizi debbono prevalere su quelle che regolano il contratto tra l’impresa ed il lavoratore distaccato in armonia con l’ordinamento del paese d’origine.

Tuttavia, la sussistenza di modelli statuali di contratto collettivo tra loro diversi, rende notevolmente difficile l’armonizzazione fra le fonti che disciplinano il distacco, e i contratti collettivi comparati.

Sul punto adduce un certo rilievo anche l’art. 3.8 della stessa citata direttiva, che afferma: “In mancanza di un sistema di dichiarazione di applicazione generale di contratti collettivi o di arbitrati di cui al primo comma, gli Stati membri possono, se così decidono,avvalersi dei contratti collettivi o arbitrati che sono in genere applicabili a tutte le imprese simili nell’ambito di applicazione territoriale e nella categoria professionale o industriale interessate nonché di quelli conclusi con le organizzazioni sindacali più rappresentative”. Precisa ulteriormente il richiamato articolo: “…che i contratti collettivi si intendono quelli che devono essere ossequiati da tutte le imprese situate nell’ambito di applicazione territoriale e nella categoria professionale interessate”.

Posto che una tale precisazione non appare in alcun atto di recepimento, v'e' da fare un’ulteriore distinzione in ambito europeo. Difatti in alcuni Paesi UE le contrattazioni collettive non godono di efficacia erga omnes in quanto sono le stesse fonti di diritto ad essere differenti tra loro. Giova appena ricordare che nell ambito UE insistono Paesi ove vigono ordinamenti giuridici sia di common law che di civil law e pertanto non e' possibile estendere le tutele universalmente garantite dai CCNL senza un intervento dirimente della norma europea. Ma la considerazione per cui la Direttiva si attua, a parte qualche ipotesi, in quasi tutti i settori produttivi, ha indotto a pensare -soprattutto nel periodo immediatamente successivo alla sua emanazione - che la contrattazione collettiva non svolga una funzione così incisiva nella statuizione delle tutele per i soggetti distaccati. In realtà, quindi, a più di un decennio dalla promulgazione della Direttiva, si è constatato che, in forza della logica sottesa al modello di host state control, l’incidenza della contrattazione collettiva è aumentata fortemente rispetto al passato, quando, in ragione della sua settorialità, veniva ritenuta residuale.

In linea generale, dunque, permane l’alternanza fra i modelli di host state control home state control dato che non viene stabilita a priori una gerarchia fra gli stessi ed, ergo, una prevalenza dell’uno sull’altro.

Il modello di controllo sovranazionale, inteso come regolamentazione sovranazionale e introdotto con la normazione europea prevede, a dispetto degli altri due, il conferimento delle competenze agli organismi istituzionali centrali dell’Unione Europea: ciò avviene tramite l’impiego del criterio dell’armonizzazione, che consente di creare un mercato unico, dotato di un proprio regime giuridico unitario, teso ad eliminare la disomogeneità delle regole di accesso determinata dalla presenza di discipline statali fra loro differenti. I modelli menzionati risultano particolarmente funzionali al tentativo di dare una lettura sistemica all’articolata ed intricata materia della libera prestazione dei servizi nel panorama comunitario. A tal fine occorre declinarli nel diritto vivente perché solo in questo modo è possibile comprendere le logiche sottese alla disciplina dettata dal Trattato e dalle fonti secondarie ad esso collegate, nonché gli assunti contenuti nelle decisioni della Corte di Giustizia ed i relativi percorsi argomentativi.

L’ordinamento è pure intervenuto nel tempo sull’istituto del distacco, invero per lo più in maniera frammentaria o sporadica sia a livello nazionale che comunitario per quanto si e’ sempre avvertita la carenza di un quadro normativo che armonizzasse e recepisse a livello comparatistico la disciplina de qua tra gli Stati UE (Cfr. F. CAPURRO, Il distacco, cit. p. 260).  

Con la Direttiva di Applicazione 2014/67 lo sforzo del legislatore comunitario è andato verso una migliore definizione del framework normativo del distacco, integrando e regolamentando, così, la precedente direttiva 96/71. Lo scenario europeo, dopo più di vent’anni dalla prima iniziativa legislativa, ha subìto dei notevoli cambiamenti, quali l’allargamento a Est dell’Unione e la crescente globalizzazione economica e finanziaria. Le Istituzioni europee hanno quindi deciso di riformare la disciplina per adeguarla alle sfide contemporanee

La riforma voluta dalla direttiva presenta diversi caratteri di novità. Al lavoratore distaccato viene garantito un nucleo minimo di tutele: tra queste, in particolare, periodi massimi di lavoro e minimi di riposo, durata minima delle ferie annuali, sicurezza, salute e igiene sul lavoro, parità di trattamento tra uomo e donna e tariffe minime salariali. Tali condizioni devono essere stabilite e recepite dalla legge nazionale o da contratti collettivi definiti di applicazione generale.

Il primo problema che sorge dall’applicazione dell’attuale direttiva riguarda la retribuzione: il concetto di tariffa minima salariale non include bonus, indennità e rimborsi che sono invece garantiti al lavoratore cittadino dello Stato membro. Contestualmente, l’azienda continua a versare i contributi nel Paese d’origine, evitando quindi di far fronte ai trattamenti previdenziali previsti nel Paese di distacco del lavoratore. La proposta di riforma della direttiva prova a superare tale condizione, sostituendo il principio di “tariffa minima salariale” con quello più comprensivo di “retribuzione”. I lavoratori distaccati godranno non solo di un allineamento del salario rispetto ai locali, dopo un certo periodo di tempo, ma anche dell’equiparazione degli oneri sociali aggiuntivi.

Un secondo elemento di novità riguarda la durata del distacco: l’accordo raggiunto dai ministri del Lavoro dell’UE prevede un periodo massimo di un anno, oltre il quale il Paese ospitante sarà considerato come quello in cui il lavoratore svolge abitualmente la sua attività. Egli sarà quindi soggetto alle norme del Paese stesso.

Infine, la Direttiva sul distacco di lavoratori si applicherà anche ai casi di subappalto e lavoro somministrato. Nel primo caso, la principale conseguenza è che gli Stati avranno la facoltà di subordinare l’aggiudicazione di un appalto e il conseguente subappalto alla garanzia di prevedere certe condizioni di retribuzione.

In conclusione, la riforma si configura certamente come un successo verso la progressiva realizzazione di un’Europa sociale basata sul principio di eguaglianza. Tuttavia rimane una questione ancora aperta: la Direttiva infatti "... prevede che ai lavoratori distaccati venga garantito un nucleo minimo di tutele quando questo è previsto dalla legge o da contratti collettivi di applicazione generale (Op cit.:http://www.lavorowelfare.it/2017/11/20/la-nuova-disciplina-europea-sul-distacco-di-lavoratori/).  Questo aspetto dunque appare non avere in conto della varietà dei sistemi contrattuali presenti negli Stati europei. La contrattualistica deve essere rivista in chiave comparata al fine di evitare di applicare al ribasso il principio dell’equal pay. In questi terminisarebbe forse necessario riconoscere il diritto dei sindacati nazionali di contrattare nell’interesse dei lavoratori europei distaccati. Infine, è necessario sottolineare l’opportunità che il testo della riforma rimarchi il principio della libertà d’espressione, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE ma mai abbastanza evidenziato nelle norme giuridiche. Tali novità, ancora in profonda evoluzione, sottendono seri e rigorosi approfondimenti che investono il campo della ricerca. Ma in contemporanea il verificarsi di fattispecie che rimbalzano all’onore delle cronache (si veda ad esempio il recente caso Ryanair) lasciano intendere quanto sia calzante nella vita reale la necessita di dare regolamentazione a tali casi di specie. La comparatistica dei sistemi giuridici europei, specie in ambito lavoristico, appare una ipotesi di ricerca assai stimolante sui futuri assetti normativi europei i quali, riflettendosi sugli ordinamenti giuslavoristici nazionali, ne influenzano e condizionano le spinte normative interne.