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Servizi pubblici locali e concorrenza: una “relazione” complicata

Di Giacomo Lev Mannheimer

 

Introduzione

François de La Rochefoucauld scrisse che il vero amore è come i fantasmi: tutti ne parlano, ma ben pochi li hanno visti davvero. Lo stesso si potrebbe dire per la concorrenza nei servizi pubblici locali. Teoricamente già la legge 142 del 1990 aprì il settore, sia pure timidamente, a dinamiche concorrenziali, sotto la spinta dell’influsso comunitario. La riforma del Testo Unico sugli Enti Locali (l. 448/2001) si spinse oltre, definendo come “prioritario” l’obiettivo dell’apertura al mercato nei servizi pubblici locali. E così via, di riforma in riforma, senza tuttavia riuscire a intaccare la sostanza: oggi come trent’anni fa, nei servizi pubblici locali le società a partecipazione pubblica rappresentano la stragrande maggioranza degli operatori attivi sul mercato[1].

Alla fonte di quello che è stato significativamente denominato “capitalismo municipale” vi è una molteplicità di fattori, normativi e ancor prima culturali. Da ultimo, l’abrogazione della norma che consentiva di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica a società interamente pubbliche e controllate dall’ente territoriale (cioè “in house”) solo in situazioni del tutto eccezionali, che non permettessero un efficace ed utile ricorso al mercato, per tramite dei referendum abrogativi del 12-13 giugno 2011, ha determinato una netta battuta d’arresto della concorrenzialità nel settore, proprio nel momento in cui sembrava che stesse iniziando a crearsi un vero e proprio mercato di società specializzate nella gestione dell’acqua, dei rifiuti e del trasporto pubblico locale.

A seguito dei referendum del 2011, pertanto, il legislatore è dovuto intervenire sulle modalità di affidamento dei servizi pubblici da parte degli enti locali, per portare sullo stesso piano la gestione in house e il ricorso al mercato. Il modo in cui ciò è stato fatto, tuttavia, lungi dal garantire il rispetto dell’interesse pubblico, il pieno controllo del servizio da parte degli enti pubblici o una maggiore efficienza, ha mostrato negli anni profonde lacune, patite dalle imprese del settore, dai tribunali amministrativi, e perfino dalle stesse amministrazioni, le quali devono oggi sviluppare barocche analisi di mercato per legittimare pienamente gli affidamenti in house, spesso senza possedere le competenze e le risorse per farlo.

Per queste ragioni, chi scrive ritiene che sia arrivato il momento di ripensare le modalità di affidamento dei servizi pubblici locali: non necessariamente per riconfigurare la gestione in house alla stregua di un’ipotesi straordinaria e derogatoria, ma quantomeno per fare sì che, laddove si dimostri concretamente più efficiente ed economico, il ricorso al mercato abbia la possibilità di essere valutato in modo trasparente dall’ente affidante, dai cittadini che usufruiscono dei servizi, dalle imprese aventi interesse nella gestione del servizio, e dai tribunali amministrativi che dovessero giudicare la scelta dell’amministrazione.

 

La trasformazione dell’in house providing

Prima dei referendum abrogativi del 2011, la gestione dei servizi pubblici locali era regolata dall’art. 23-bis del D.l. 112/2008, secondo cui questa doveva essere conferita, in via ordinaria:

a) a imprese individuate mediante procedure competitive ad evidenza pubblica;

b) a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenisse mediante procedure competitive ad evidenza pubblica e che ad esso fosse attribuita una partecipazione non inferiore al 40%;

c) in deroga ai precedenti punti, a società a capitale interamente pubblico, a condizione che:

  • sussistessero peculiari caratteristiche del contesto territoriale di riferimento che non permettessero un efficace e utile ricorso al mercato;
  • fosse assicurato il rispetto della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente pubblico controllante;
  • fosse data adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi di mercato da trasmettere all’Autorità garante della concorrenza e del mercato perché quest’ultima esprimesse un parere preventivo.

Tale disciplina fu abrogata dal voto referendario del 2011 e sostituita, l’anno successivo, dal D.l. 179/2012, nel quale le forme di affidamento possibili sono tuttavia le stesse previste dalla norma abrogata[2]. Oggi, i servizi pubblici locali di rilevanza economica possono essere gestiti indifferentemente:

a) mediante il mercato, ossia individuando all’esito di una gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario;

b) attraverso il c.d. partenariato pubblico privato, ossia per mezzo di una società mista, e quindi con una gara a doppio oggetto per la scelta del socio o per la gestione del servizio;

c) attraverso l’affidamento diretto in house, senza previa gara, a un soggetto che solo formalmente è diverso dall’ente, ma che ne costituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo, ricorrendo in capo a quest’ultimo i seguenti requisiti:

  • totale partecipazione pubblica delle quote societarie;
  • “controllo analogo”, cioè un controllo da parte dell’ente affidante nei confronti della società affidataria analogo a quello effettuato al proprio interno;
  • realizzazione, da parte della società affidataria, della parte più importante della sua attività a vantaggio dell’ente o degli enti che la controllano.

Ciò che è mutato in misura significativa, per effetto del voto referendario del 2011, è il rapporto sussistente fra le diverse modalità di affidamento elencate poc’anzi. Mentre il D.l. 112/2008 stabiliva che l’affidamento in house costituiva un’ipotesi di deroga alla normale selezione di imprese tramite procedure competitive ad evidenza pubblica nel o per il mercato (cioè attraverso gare per la selezione dell’impresa affidataria, oppure del socio da affiancare all’ente pubblico secondo un impianto societario di partenariato pubblico privato), il D.l. 179/2012 sembrerebbe infatti considerare l’in house come un modo di gestione ordinario dei servizi pubblici locali, e non più come un’eccezione alla regola[3]. E tale conclusione, del resto, è la medesima cui è giunta in questi anni la giurisprudenza amministrativa.

Prima del referendum del 2011, la giurisprudenza italiana era infatti pacificamente conforme a quella della Corte di Giustizia dell’Unione europea, la quale – come si vedrà nel prosieguo – aveva più volte sottolineato la necessità di interpretare restrittivamente i requisiti soggettivi degli affidamenti in house[4], e del Consiglio di Stato, il quale aveva sancito che “la figura dell’in house providing si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti vanno interpretati restrittivamente poiché costituiscono una deroga alle regole generali del diritto comunitario”[5]. Stante l’abrogazione referendaria dell’articolo 23-bis del D.l. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 4 del D.l. 138/2011, viceversa, il Consiglio di Stato ha stabilito che “è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, e che pertanto oggi “l’ordinamento non predilige né l’in house, né la piena espansione della concorrenza nel mercato e per il mercato e neppure il partenariato pubblico privato, ma rimette la scelta concreta al singolo Ente affidante”[6].

Trattandosi di un notevole mutamento di prospettiva, come si configura dal punto di vista del diritto comunitario – che dispone le norme fondamentali per la concorrenzialità nel settore dei servizi pubblici locali all’interno dell’Unione europea – la nuova disciplina?

 

SIEG e concorrenza

La normativa euro-unitaria stabilisce ampi margini di discrezionalità, nei confronti degli Stati membri dell’Ue, per quanto riguarda la gestione dei servizi d’interesse economico generale (SIEG)[7]. Tale scelta deriva dall’applicazione del principio di sussidiarietà, sancito dall’articolo 14 del TFUE, secondo cui i singoli Stati, o addirittura i singoli enti pubblici locali, sarebbero in grado di interpretare e soddisfare meglio i bisogni dei cittadini[8]. Conseguentemente, tenendo conto della loro rilevanza e delle specificità territoriali che li possono interessare, il TFUE stabilisce che i SIEG siano sottoposti alle sue norme, e in particolare alle regole della concorrenza, “nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto o di fatto, della specifica missione loro affidata”[9].

Tale deroga non è, ovviamente, assoluta, come testimonia la copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea. L’in house providing, secondo quest’ultima, sarebbe infatti reso legittimo dalla contemporanea sussistenza di condizioni oggettive che rendano preferibile l’attribuzione di diritti di esclusiva, in primo luogo, e di requisiti soggettivi conformi a quelli indicati dalla normativa e dalla giurisprudenza dell’Unione europea, in secondo luogo[10]. Il primo criterio riguarda, nelle parole della stessa Corte, la possibilità di garantire al titolare di un diritto esclusivo “condizioni di equilibrio economico” generate dalla “compensazione tra i settori di attività redditizie e quelli meno redditizi”, purché tali attività rientrino integralmente all’interno del novero dei servizi di interesse generale prestati, e non si tratti invece di “servizi specifici, scindibili dal servizio di interesse generale”[11]. Ciò detto, al netto di quanto previsto in ordine ai requisiti soggettivi degli affidamenti in house, un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e può farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche[12].

La Corte costituzionale ha fatto proprio l’orientamento della Corte di giustizia, con esplicito riferimento alle modalità di affidamento dei SIEG, ribadendo che la normativa euro-unitaria consente, anche se non impone, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la speciale missione dell’ente pubblico, alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della società affidataria, del cosiddetto controllo analogo, ed infine dello svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante[13].

La normativa europea e nazionale convergono dunque sulla necessità di subordinare la concessione di diritti esclusivi all’individuazione di obblighi di servizio pubblico cui il ricorso al mercato non potrebbe far fronte. Tale individuazione, pertanto, corrisponde a quella del perimetro degli obblighi di servizio pubblico, definiti dal diritto dell’Unione europea come “obblighi definiti o individuati da un’autorità competente al fine di garantire la prestazione di servizi […] di interesse generale che un operatore, ove considerasse il proprio interesse commerciale, non si assumerebbe o non si assumerebbe nella stessa misura o alle stesse condizioni senza compenso”[14]. Ciò che questa breve digressione sulla regolamentazione dei SIEG a livello europeo ci permette di concludere è che il criterio relativo alla “convenienza economica” della scelta, analizzato in precedenza, è in realtà più stringente di quanto possa apparire: esso richiede infatti non solo una valutazione astrattamente riferita alle condizioni economiche proposte dall’operatore in house, ma anche un confronto concreto con i suoi potenziali competitor, tale per cui questi ultimi “non si assumerebbero o non si assumerebbero nella stessa misura o alle stesse condizioni senza compenso” gli obblighi ivi previsti. In altre parole, nel motivare la scelta di prediligere un affidamento in house, l’ente pubblico dovrebbe essere in grado di provare che un eventuale bando per la gestione del servizio pubblico sarebbe andato deserto. È ciò che accade secondo la normativa e nella prassi del nostro Paese?

La relazione ex art. 34 comma 20

Come si è accennato in precedenza, la normativa previgent imponeva all’ente pubblico, per affidare servizi pubblici in house, di saggiare la sussistenza di peculiari caratteristiche del contesto territoriale di riferimento che non permettessero un efficace e utile ricorso al mercato e di attendere, per completare l’affidamento, il vaglio preventivo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. La trasformazione della gestione in house dei servizi pubblici locali da extrema ratio a modalità ordinaria ha comportato un ridimensionamento di tali obblighi, imposti alle amministrazioni per disporre l’affidamento di servizi pubblici in house. All’interno del D.l. 179/2012, il comma 20 dell’articolo 34 stabilisce infatti che, per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, l’affidamento del servizio può essere effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste.

Sebbene la norma abbia portata generale, è evidente che la necessità della relazione che dia conto delle ragioni della scelta emerga principalmente nei casi degli affidamenti diretti in house, che presentano le maggiori criticità rispetto alla normativa europea sulla concorrenza nei servizi pubblici. Infatti, diversamente da quanto previsto in precedenza, gli enti affidatari non hanno oggi alcun obbligo di affidare i servizi pubblici attraverso procedure aperte e competitive, ma hanno pieno di diritto di scegliere di affidarli a società da essi interamente controllate. L’unico vincolo nell’effettuare questa scelta, in questo senso, è pertanto quello di dover motivare le proprie decisioni attraverso una valutazione comparativa prima di procedere all’affidamento, così da giustificare la deroga al principio della concorrenza con l’impossibilità di perseguire altrimenti l’interesse generale, secondo quanto previsto dall’art. 106 del TFUE. Tale valutazione dovrebbe essere basata sugli stessi criteri che determinavano la possibilità di derogare alla disciplina ordinaria secondo la normativa previgente, e precisamente:

  • l’esistenza di peculiari caratteristiche del contesto territoriale di riferimento che non permettano un efficace e utile ricorso al mercato;
  • la proprietà interamente pubblica, il rispetto della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e la prevalenza dell’attività svolta dalla stessa per conto e nell’interesse dell’ente pubblico controllante;
  • la previa effettuazione di un’analisi comparativa di mercato che dimostri la convenienza economica della scelta. 

L’obbligo di effettuare tale valutazione, e di esprimerne i risultati all’interno della relazione ex art. 34 comma 20, non è tuttavia nemmeno comparabile con gli obblighi imposti in precedenza agli enti affidanti per il ricorso all’in house. Formalmente, infatti, i requisiti richiesti sono i medesimi, ma permangono alcune differenze sostanziali. L’eliminazione del parere preventivo da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, infatti, certamente non incentiva le pubbliche amministrazioni ad effettuare analisi di mercato scrupolose, dal momento che nella maggioranza dei casi non vi è più alcun controllo né ex ante ex post sulla loro corrispondenza alle decisioni che ne conseguono. Ciò, a sua volta, determina una sostanziale impossibilità a valutare correttamente il grado di concorrenzialità dei diversi settori nelle varie aree geografiche del Paese. Infatti, anche laddove un potenziale concorrente della società in house affidataria del servizio ricorra avverso un affidamento senza gara lamentando l’assenza di una valutazione attendibile o completa, proprio la mancanza di analisi effettuate dall’ente affidante prima dell’assegnazione rende assai complicato, per la società ricorrente e per il giudice amministrativo, dimostrare che al contrario esistessero, prima dell’affidamento, caratteristiche che permettessero il ricorso al mercato.

L’onere della prova, in altre parole, è de facto invertito dalla nuova disciplina: non è più cioè l’ente affidante a dover dimostrare l’inevitabilità dell’in house, ma al contrario il ricorrente a dover dimostrare che si sarebbe potuto ricorrere al mercato, senza poter disporre di dati che, per ovvi motivi, l’ente affidante non ha alcun interesse a rilevare prima dell’affidamento. E anche nel caso in cui il ricorrente riesca a dimostrare l’esistenza di condizioni di concorrenzialità antecedenti all’affidamento, ciò non è sufficiente a determinare l’illegittimità dell’in house. La parificazione di quest’ultimo con il ricorso al mercato, infatti, ha reso la giurisprudenza molto meno restrittiva nella valutazione della legittimità dell’affidamento in house. Il giudice amministrativo, infatti, è sostanzialmente unanime nel ritenere che la scelta, espressa da un ente locale, nella specie da un Comune, nel senso di rendere un dato servizio alla cittadinanza con una certa modalità organizzativa piuttosto di un’altra, ovvero in questo caso di ricorrere allo in house e non esternalizzare, è ampiamente discrezionale, e quindi, secondo giurisprudenza assolutamente costante e pacifica, è sindacabile nella presente sede giurisdizionale nei soli casi di illogicità manifesta ovvero di altrettanto manifesto travisamento dei fatti[15].

Non a caso il nuovo “registro”, istituito dall’ANAC, delle amministrazioni aggiudicatrici ed enti aggiudicatori che intendano operare affidamenti diretti in house impone sì il rispetto dei requisiti di legge sul rapporto tra amministrazione e organismo in house, ma nulla dispone, quale prerequisito per l’iscrizione al registro, in merito al rispetto degli oneri motivazionali c.d. rafforzati previsti dall’articolo 192 del Codice dei contratti pubblici nei casi in cui ci si riferisca ad affidamenti di servizi “disponibili sul mercato in regime di concorrenza”.

Come anticipato, riscontrare una “illogicità manifesta”, da parte del ricorrente o del giudice amministrativo, all’interno di una valutazione effettuata dall’unico soggetto in grado di disporre in modo uniforme ed efficace dei dati necessari ad effettuarla, e cioè dall’ente affidante, non è cosa semplice. Il problema, nell’attuale regime di affidamento dei servizi pubblici, è pertanto dotare i terzi degli strumenti necessari a verificare la legittimità delle scelte dell’ente affidante. In altre parole, chi controlla il controllore?

Chi controlla il controllore

La motivazione che deve assistere la scelta della modalità organizzativa del servizio e del suo affidamento è oggi, come abbiamo visto, elemento fondante dell’iter che conduce a tale decisione, come previsto dall’articolo 34, comma 20, del D.l. 179/2012. Ciò, apparentemente, sembra contrastare con l’intento di ‘parificare’ la gestione in house e il ricorso al mercato. Se infatti questo fosse l’obiettivo della norma, non vi sarebbe alcuna ragione di giustificare la scelta della gestione in house e la relazione sarebbe un mero formalismo dal contenuto inevitabilmente tautologico, che potrebbe essere semplicemente eliminato. Qualora, al contrario, il ricorso al mercato fosse pur sempre considerato la modalità preferibile di affidamento della gestione dei servizi pubblici, la relazione ex art. 34 costituirebbe uno strumento debole e difficilmente misurabile, che potrebbe essere sostituito da meccanismi più efficienti. A conferma di tutto ciò, le relazioni che dovrebbero giustificare l’affidamento a società in house, secondo i criteri che abbiamo evidenziato, mostrano spesso numerose e importanti lacune rispetto a quanto previsto dalla legge. Il che, più in generale, solleva qualche dubbio sul fatto che la relazione ex art. 34 comma 20 del D.l. 179/2012 possa mantenere inalterata, rispetto agli obblighi previgenti, la concorrenzialità nei servizi pubblici locali e l’accountability delle amministrazioni pubbliche nella loro procedura di assegnazione.

Uno studio di Confindustria del 2014, ad esempio, ha analizzato le relazioni prodotte da alcuni enti pubblici veneti negli affidamenti per la gestione dei rifiuti urbani degli anni precedenti[16] Secondo tale indagine, nessuna delle relazioni esaminate che giustificassero l’affidamento a società in house rispondeva ai requisiti richiesti dalla legge. Nella maggior parte delle relazioni, infatti, mancavano sia la dimostrazione che la deroga al principio della concorrenza fosse giustificata dall’impossibilità di perseguire l’interesse generale, sia un confronto comparativo con il mercato. Inoltre, i confronti effettuati tenevano conto della media passata delle tariffe applicate nell’area di riferimento, e non la singola tariffa di ogni Comune, compresa quella prevista per il futuro. Non solo: in tutti i casi la relazione veniva utilizzata per prolungare la durata dell’affidamento, e in alcuni casi questa era perfino redatta direttamente dall’ente in house affidatario, invece che dall’ente affidante!

Peraltro, il confronto degli affidamenti in house e mediante gara ad evidenza pubblica nella Regione Veneto evidenziava chiaramente come le tariffe medie fossero decisamente inferiori nel secondo caso, di cifre percentuali comprese tra il 16% e il 61%.

Quello veneto, del resto, non è un caso isolato. In giurisprudenza abbondano i casi di discostamento da quanto previsto dalla normativa, ed è quantomeno lecito ipotizzare che i casi “sommersi” siano abbondantemente maggiori di quelli venuti alla luce nei tribunali: come si è sottolineato in precedenza, infatti, è proprio la conformazione giuridica degli obblighi di motivazione ex art. 34 comma 20 a disincentivare i terzi dal ricorrere avverso gli affidamenti in house. Vi sono ad esempio molti casi in cui società pubbliche quotate in borsa, pur avendo azionisti privati all’interno della propria compagine sociale, esercitano servizi pubblici tramite affidamenti in house[17]. In alcune circostanze le quote detenute da parte dell’ente affidante sono solo simboliche, eludendo completamente la necessità di esercitare un reale “controllo analogo” su tali società partecipando direttamente ai suoi organi direttivi[18]. Addirittura, accade talvolta che le società affidatarie esternalizzino a loro volta il servizio, affidandolo a cooperative su cui l’ente pubblico non ha nessun potere di controllo[19] Una distorsione doppia delle regole da parte degli enti, che prima sottraggono il servizio al mercato non effettuando alcuna gara, e poi lo affidano – sia pure indirettamente – a realtà che non hanno alcun requisito necessario per gestire servizi pubblici in house. E ciò nonostante l’ANAC, nell’ultimo aggiornamento alle proprie linee guida, abbia stabilito che per amministrazione controllante debba intendersi “non solo quella titolare delle partecipazioni ma anche, quando non coincidente, l’amministrazione che comunque esercita un effettivo potere di controllo e indirizzo dell’attività sociale”[20].

Spesso le relazioni ex art. 34 comma 20 presentano motivazioni generiche o apodittiche. In un caso esaminato nel 2016 dal TAR Milano, una società operante nel territorio del Comune e nella Provincia di Varese aveva intrapreso un vasto contenzioso con i suddetti enti, per alcune violazioni relative all’assegnazione del servizio idrico integrato nell’intero territorio[21].

Tale servizio, secondo la ricorrente, sarebbe infatti stato assegnato a una società in house, senza che ve ne fosse la necessità; circostanza che sarebbe avvalorata dalla genericità della relazione ex art. 34 comma 20 pubblicata a giustificazione della scelta. Secondo il giudice amministrativo, in effetti, tale relazione non avrebbe contenuto

alcuna valutazione di tipo concreto, riscontrabile, controllabile, intellegibile e pregnante sui profili della convenienza, anche non solo economica, della gestione prescelta, limitandosi ad apodittici riferimenti alla gestione in house che, come tali, sono da ritenersi privi di quel livello di concreta pregnanza richiesto per soddisfare l’onere di motivazione aggravato e di istruttoria ai sensi del combinato disposto degli art. 3 l. n. 241 del 1990 e 34, comma 20, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179.

In altri termini” – conclude la sentenza “nella relazione si dà per presupposta e scontata la scelta circa la forma di gestione del servizio senza che ne vengano illustrate le ragioni e gli elementi concreti su cui si fonda”.

In altri casi sono le comparazioni economiche fornite dagli enti affidatari all’interno delle relazioni a risultare lacunose o fuorvianti, senza che ciò venga considerato dalla giurisprudenza motivo di illegittimità dell’affidamento. Emblematico è il caso di una società a capitale misto pubblico privato che gestisce i servizi di igiene ambientale a favore di alcuni Comuni della Provincia di Bergamo, esaminato dal TAR Brescia nel 2016[22]. Come anticipato in precedenza, il giudice amministrativo ha richiesto che la convenienza economica delle convenzioni stipulate in house sia dimostrata attraverso comparazioni tra servizi omogenee e rigorose, che rendano verosimile un effettivo risparmio da parte dell’ente pubblico non solo astrattamente, ma in concreto[23].

Nel caso in questione, la ricorrente aveva dimostrato come il Comune di Cologno al Serio avesse affidato il servizio in house, nonostante la relazione pubblicata a supporto di tale scelta contenesse lacune ed errori logici e matematici che la rendevano del tutto inattendibile[24]. Ciononostante, il TAR Brescia ha respinto il ricorso, ritenendo che “una modesta differenza sui costi complessivi non interferisca sulla bontà complessiva dell’opzione per il modello in house”, in quanto quest’ultimo “si differenzia dal sistema della gara pubblica, per cui anche un prezzo complessivamente […] superiore non compromette […] gli obiettivi di interesse pubblico perseguiti dall’amministrazione procedente”. In altre parole, secondo il giudice amministrativo, l’interesse pubblico rientrerebbe tra i criteri alla base della scelta fra le modalità di gestione, assieme a quelli esaminati in precedenza, pur in assenza di qualsivoglia richiamo normativo.

A queste criticità il legislatore ha cercato di reagire istituendo, già nel 2013, un Osservatorio per i servizi pubblici locali presso il Ministero dello Sviluppo Economico, con il compito di monitorare costantemente le relazioni ex art. 34. L’Osservatorio, tuttavia, non ha dato gli esiti sperati in termini di conoscenza del mercato e delle scelte degli amministratori pubblici, né ha reso concreta l’attività di report sullo stato e sull’evoluzione economica, normativa, organizzativa e gestionale dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica da presentare annualmente al Parlamento, sebbene tale obbligo fosse espressamente previsto dal decreto istitutivo.

In conclusione, a seguito del referendum del 2011, la normativa sui servizi pubblici è dovuta virare dal tentativo di raggiungere un sufficiente grado di concorrenzialità, implicito nel meccanismo previsto dal D.l. 112/2008, al contemperamento di tale obiettivo con quello di rendere ordinario il ricorso agli affidamenti in house. Ciò, come abbiamo visto, ha comportato diversi problemi applicativi, nella prassi e in giurisprudenza, generati dalla consapevolezza che l’equiparazione della gestione in house ad altre modalità trascura la concorrenza quale fattore di beneficio per la collettività e che, nel concreto, la deroga ex art. 106, par. 2, del TFUE è subordinata all’impossibilità di ricorrere a forme meno restrittive della concorrenza[25]. Non ci sarebbe un modo per migliorare la situazione, sanando i difetti dell’art. 34 comma 20 pur senza stravolgerne i principi di fondo?

 

Una proposta: sondaggio esplorativo al posto delle relazioni

I problemi generati dall’applicazione dell’art. 34 comma 20 riguardano sia le pubbliche amministrazioni, sia le imprese dei settori interessati, sia i tribunali amministrativi. Le prime, infatti, devono oggi effettuare analisi approfondite per scongiurare l’eventualità di ricorsi, posto che il meccanismo ex art. 34 comma 20 sembrerebbe indurre i potenziali concorrenti a ricorrere, non potendo partecipare a una procedura competitiva che preceda la selezione. Peraltro, secondo il Consiglio di Stato, deve essere riconosciuto l’interesse strumentale a ricorrere in capo a qualsiasi imprenditore del settore e potenziale concorrente, che contesti il modulo organizzativo dell’in house providing e, dunque, la scelta della stazione appaltante di disporre un affidamento diretto anziché ricorrere al mercato concorrenziale[26]. E ancora più chiaro, in questo senso, è il giudice amministrativo quando afferma che, anche ammettendo che una società non possieda i requisiti per un affidamento diretto, va comunque riconosciuto che essa, quale operatore del settore, ha interesse a che il servizio sia affidato mediante procedura di evidenza pubblica, in luogo dell’affidamento diretto alla controinteressata. Essa è, cioè, portatrice di un interesse strumentale qualificato e differenziato a contestare una scelta che prescinde dallo svolgimento di una pubblica gara nella quale potrebbe far valere le proprie chances competitive[27].

Qualunque potenziale concorrente, dunque, dispone di un interesse legittimo a ricorrere avverso l’affidamento in house; e ciò rende le relazioni ex art. 34 comma 20 un impegno vieppiù gravoso per le amministrazioni che effettivamente vogliano adeguarsi ai requisiti imposti dalla norma e dalla giurisprudenza, rischiando di ‘intasare’ i tribunali amministrativi di liti temerarie. Di converso, l’art. 34 comma 20 ha limitato la concorrenzialità nei servizi pubblici locali senza per questo migliorare l’efficienza o la trasparenza degli affidamenti. Le imprese, infatti, si ritrovano costrette a ricorrere, nel caso in cui gli enti affidanti procedano attraverso affidamenti in house, in assenza di dati che in passato – grazie all’attività dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato – avrebbero garantito tariffe inferiori e servizi migliori.

La nostra proposta, per rendere più semplice e trasparente l’attività di selezione da parte degli enti affidanti, più concorrenziale il settore, e meno gravoso il carico di ricorsi per i tribunali amministrativi, è sostituire l’obbligo di relazione ex art. 34 comma 20 con l’obbligo di svolgere una procedura competitiva aperta esplorativa, prima di poter affidare servizi pubblici in house. Il modello, in questo senso, potrebbe essere quello dell’avviso esplorativo per manifestazione d’interesse, previsto dall’art. 36, comma 2, lett. b, del D.lgs. n. 50/2016. Gli enti affidanti, cioè, dovrebbero pubblicare un avviso per ciascuna attività di servizio pubblico, invitando gli operatori economici interessati e in possesso dei requisiti necessari a presentare manifestazioni d’interesse per la sua gestione. Le manifestazioni d’interesse avrebbero il solo scopo di comunicare all’ente affidante la disponibilità a presentare un’offerta, senza che ciò comporti necessariamente l’avvio di una procedura competitiva. Ciononostante, se ricevesse almeno una manifestazione d’interesse, l’amministrazione dovrebbe essere obbligata – qualora ritenesse di ricorrere a un affidamento in house – di motivare tale scelta; mentre non sarebbe necessaria alcuna motivazione nel caso in cui l’avviso andasse deserto. Questa soluzione sarebbe pienamente conforme e implicitamente promossa dall’ordinamento per la sua capacità di superare eventuali asimmetrie informative, consentendo alle stazioni appaltanti di conoscere il mercato di riferimento, le condizioni tariffarie praticate, le soluzioni tecniche disponibili, l’effettiva esistenza di più operatori economici potenzialmente interessati alla produzione e alla distribuzione dei beni o dei servizi in questione. Non a caso, anche l’articolo 66 del D.lgs. 50/2016 prevede ora che, prima dell’avvio di una procedura di appalto, le amministrazioni aggiudicatrici possano svolgere consultazioni di mercato per la preparazione dell’appalto e per lo svolgimento della relativa procedura e per informare gli operatori economici degli appalti programmati e dei requisiti ad essi relativi. In tal senso, l’attenzione primaria si sposta dall’onere motivazionale delle amministrazioni alle relative fasi di programmazione e progettazione delle proprie esigenze che implicano, a seconda dei casi, l’aggiornamento o l’acquisizione di uno specifico bagaglio informativo relativo agli operatori economici presenti sul mercato.

Pur avendo assunto il carattere di modalità ordinaria di gestione dei servizi pubblici, infatti, gli affidamenti in house richiedono pur sempre la sussistenza di alcuni criteri che non permettano un efficace e utile ricorso al mercato: l’esistenza di peculiari caratteristiche del contesto territoriale di riferimento e la previa effettuazione di un’analisi comparativa di mercato che dimostri la convenienza economica della scelta. La verifica di tali criteri, i cui risultati devono oggi essere pubblicati nella relazione ex art. 34 comma 20, potrebbe tuttavia essere svolta molto più agevolmente e in maniera oggettiva e misurabile tentando – appunto – il concreto ricorso al mercato, invece che attraverso analisi teoriche. Ciò sarebbe molto più semplice da realizzare per le amministrazioni pubbliche, molto più trasparente da valutare per le imprese dei settori interessati, e molto più completo da giudicare per i tribunali amministrativi.

Il giudice amministrativo, a questo proposito, ha sancito che la relazione ex art. 34 comma 20 deve fondarsi su una valutazione comparativa, finalizzata a rendere trasparenti e conoscibili agli interessati tanto le operazioni di riscontro delle caratteristiche che fanno dell’affidataria una società in house, quanto il processo di individuazione del modello più efficiente ed economico alla luce di una valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti[28].

Pertanto, se decidono di non ricorrere al mercato, gli enti affidanti devono effettuare preventivamente una valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta. Procedere quindi con un avviso esplorativo vuol dire solo far emergere nero su bianco gli oneri informativi che già oggi, se correttamente applicata, richiede la norma di cui all’art. 34, consentendo meglio quello che già oggi è richiesto, ossia “un penetrante controllo della scelta effettuata dall’Amministrazione, anzitutto sul piano dell’efficienza amministrativa e del razionale impiego delle risorse pubbliche”[29]. Come si è anticipato, secondo quanto previsto dalla regolamentazione dei SIEG a livello europeo, nel motivare la scelta di prediligere un affidamento in house l’ente pubblico dovrebbe essere in grado di provare perfino che un eventuale bando per la gestione del servizio pubblico sarebbe andato deserto. E quale modo migliore esiste di provare una cosa del genere, se non proprio quello di pubblicare il bando e verificarlo concretamente?

[1] Autorità garante della concorrenza e del mercato, Indagine conoscitiva sui rifiuti solidi urbani, 10 febbraio 2016, p. 122.

[2] V., sul referendum del 2011, S. Sileoni-C. Stagnaro, L’inganno referendario. Perché i quesiti sull’acqua cambiano poco ma peggiorano tutto, Istituto Bruno Leoni, Briefing Papers 102, 10 giugno 2011.

[3] V. S. Sileoni, Quel pasticciaccio dei servizi pubblici locali, Istituto Bruno Leoni, Focus 222, 18 marzo 2013.

[4] Cfr. ad esempio le sentenze C-26/03 (Stadt Halle e RPL Lochau), C-231/03 (Corame), C-458/03 (Parking Brixen GmbH), e C-410/04 (ANAV v. Comune di Bari).

[5] Consiglio di Stato, sez. II, parere 456, 18 aprile 2007, par. 5.2.

[6] Consiglio di Stato, sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 762. Sul punto, v. S. Sileoni, Referendum sull’acqua: la verità viene a galla, Istituto Bruno Leoni, Focus 215, 27 settembre 2012.

[7] I SIEG sono definiti dalla Commissione europea come i servizi la cui fornitura, remunerata o meno, è ritenuta d’interesse generale dalle autorità pubbliche e che sono soggetti, in quanto tali, a determinati obblighi di servizio pubblico.

[8] V. anche Commissione europea, Libro verde sui servizi d’interesse generale, 21 maggio 2003.

[9] Art. 106, comma 2.

[10] Cfr. la sentenza cd. “Teckal” (C-107/98) del 18 novembre 1999, e la sentenza “Corbeau” (C-320/91) del 17 maggio 1993, da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

[11] Sentenza “Corbeau”, par. 16-18.

[12] Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza C-410/04 (ANAV v. Comune di Bari), 6 aprile 2006.

[13] Corte costituzionale, sentenza 199/2012.

[14] V. Regolamento 1370/07/CE, art. 2, lett. e.

[15] TAR Brescia, sez. II, 9 maggio 2016, n. 639. Sul punto v. anche, riguardo alla generalità dei servizi pubblici, Consiglio di Stato, sez. V, 6 maggio 2011, n. 2713, e nel caso della scelta di una gestione in house TAR Genova, sez. II, 8 febbraio 2016, n. 120.

[16] J. Bercelli, “La situazione relativa alla gestione dei rifiuti urbani”, in Stati generali della concorrenza e del libero mercato nei servizi pubblici di gestione dei rifiuti, 27 giugno 2014.

[17] V., ad esempio, TAR Trieste, sez. I, 4 dicembre 2014, n. 629, e giurisprudenza ivi richiamata.

[18] V. ad esempio TAR Ancona, sez. I, 20 maggio 2016, n. 311; TAR Trieste, sez. I, 4 dicembre 2014, n. 629.

[19] TAR Venezia, sez. I, 17 maggio 2017, n. 493.

[20] Autorità Nazionale Anticorruzione, Nuove linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici, 8 novembre 2017, p. 14.

[21] TAR Milano, sez. III, 3 ottobre 2016, n. 1781. V. anche, sul punto, TAR Trieste, 26 ottobre 2015, n. 468, e TAR Pescara, 14 agosto 2015, n. 349.

[22] AR Brescia, sez. II, 17 maggio 2016, n. 691.

[23] V., ad esempio, TAR Milano, sez. IV, 22 marzo 2017, n. 694.

[24] 24 La relazione, ad esempio, comparava costi medi di servizi non omogenei, erogati da Comuni anche molto diversi tra loro per dimensioni e caratteristiche, e ignorava numerosi meccanismi di aumento automatico del canone al raggiungimento di determinati obiettivi negli anni successivi al primo.

[25] Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza C-159/94, 23 ottobre 1997.

[26] Consiglio di Stato, sez. III, 26 maggio 2016, n. 2228.

[27] TAR Trieste, 18 gennaio 2016, n. 15.

[28] TAR Milano, sez. III, 3 ottobre 2016, n. 1781.

[29] Così il Consiglio di Stato, nell’Adunanza della Commissione speciale sullo schema di decreto legislativo recante il Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione (parere n. 855, 1 aprile 2016).