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A proposito dell’appellabilità delle sentenze di condanna a pena pecuniaria emesse dal giudice di pace

Nota a Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, Sentenza del 5 marzo 2018 (udienza del 20 febbraio 2018), n. 9897
A proposito dell’appellabilità delle sentenze di condanna a pena pecuniaria emesse dal giudice di pace
A proposito dell’appellabilità delle sentenze di condanna a pena pecuniaria emesse dal giudice di pace

Sommario

1. Premessa

2. L'’assetto delle impugnazioni dell’imputato nel rito penale davanti al giudice di pace: profili problematici

3. Gli orientamenti della giurisprudenza

4. Considerazioni conclusive

 

1. Premessa

Con la sentenza n. 9897 del 2018, depositata il 5 marzo, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha confermato che è ammissibile l’appello proposto dall’imputato avverso la sentenza del giudice di pace di condanna alla sola pena pecuniaria, anche se non è stato impugnato il capo relativo alla condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile.

La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la decisione con cui il Tribunale di Potenza in funzione di giudice d’appello dichiarava, in base a un’interpretazione letterale dell’articolo 37 del Decreto Legislativo n. 274 del 2000, l’inammissibilità dell’impugnazione avanzata dall’imputato contro la sentenza del Giudice di pace di Potenza, che lo aveva condannato alla pena pecuniaria per il reato di cui all’articolo 633 del Codice penale (invasione di terreni o edifici), in quanto nell’atto di appello non era stato espressamente criticato il capo di condanna generica al risarcimento del danno.

La pronuncia offre l’occasione per ritornare sulla questione, nient’affatto pacifica, relativa al regime di appellabilità delle sentenze di condanna a pena pecuniaria emesse dal giudice di pace.

 

2. L’assetto delle impugnazioni dell’imputato nel rito penale davanti al giudice di pace: profili problematici

Nel processo penale celebrato dal giudice di pace, all’impugnazione dell’imputato è dedicato l’articolo 37 del Decreto Legislativo n. 274 del 2000.

Ai sensi del primo comma della disposizione citata, “l’imputato può proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria; può proporre appello anche contro le sentenze che applicano la pena pecuniaria se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno.

Il comma secondo della predetta norma dispone che “l’imputato può proporre ricorso per cassazione contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano la sola pena pecuniaria e contro le sentenze di proscioglimento.

La formulazione dell’articolo 37 del Decreto Legislativo n. 274 del 2000 lascia spazio ad alcuni dubbi interpretativi.

Ad una prima lettura, si potrebbe essere indotti a pensare che contro le decisioni del giudice di pace non sia di regola garantito un secondo grado di merito: sembrerebbe in effetti che il rimedio generalmente esperibile dall’imputato sia il ricorso per cassazione, risultando sempre appellabili soltanto le condanne alle cosiddette pene paradetentive.

Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 37, comma 1, del Decreto Legislativo n. 274 del 2000, in riferimento agli articoli 3 e 76 della Costituzione, ha precisato che si deve attribuire una portata generale alla previsione dell’appellabilità delle sentenze del giudice di pace, configurando come eccezioni, dunque di stretta interpretazione, le ipotesi di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e delle decisioni che applicano esclusivamente la pena pecuniaria senza condannare al risarcimento del danno (Corte Costituzionale, sentenza del 19 dicembre 2008, n. 426, cui si rinvia; anche Corte Costituzionale, sentenza del 4 febbraio 2010, n. 32).

Le esigenze di massima semplificazione del rito giustificherebbero la scelta di prevedere un secondo grado di giudizio soltanto per le condanne a pena pecuniaria che, statuendo anche l’obbligo di risarcire il danno arrecato alla vittima del reato, risultino realmente afflittive: evitando di trasferire ai tribunali quali giudici di appello la cognizione di reati qualificati come bagatellari e perciò puniti con sanzioni patrimoniali di modestissima entità, si concretizzerebbe la funzione deflattiva del processo penale davanti al giudice di pace.

Ciò che resta controverso è se l’appello avverso la sentenza del giudice di pace che condanna alla pena pecuniaria prevedendo anche statuizioni civili possa ritenersi ammissibile anche qualora l’atto di impugnazione non contenga uno specifico motivo sul risarcimento del danno.

In particolare, il punto di diritto – dal rilievo non astrattamente teorico – riesaminato nella sentenza in nota è se nel processo davanti al giudice di pace sia operativa o meno la regola dell’articolo 574, comma 4, del Codice di Procedura Penale, per cui l’impugnazione della sentenza di condanna estende oggettivamente i suoi effetti devolutivi alle statuizioni civili che dalla condanna dipendono.

Sul tema la giurisprudenza è divisa tra due divergenti indirizzi, analizzati nel successivo paragrafo, l’uno richiamato dal Tribunale di Potenza e l’altro seguito dalla pronuncia in commento.

3. Gli orientamenti della giurisprudenza

Un primo indirizzo, in verità minoritario, facendo leva sulla specialità del processo penale ex Decreto Legislativo n. 274 del 2000, ritiene preclusa l’applicabilità delle regole codicistiche in materia di impugnazioni.

I due sistemi ordinamentali del giudice di pace e del tribunale ordinario esprimerebbero, invero, “assetti strutturalmente diversi e assimilabili solo nei ristretti ambiti e limiti previsti dall’art. 2 d.lgs. n. 274 del 2000 e dalla clausola limitativa imposta dal sintagma ‘per tutto ciò che non è previsto dal presente decreto’, che vale ad escludere ogni contaminazione non voluta” (così Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, sentenza del 17 aprile 2015, n. 31190; Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 4 ottobre 2005, n. 39465; altresì Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 21 aprile 2005, n. 19382).

A sostegno dell’argomento si è sottolineato che il rito del giudice di pace rappresenta un peculiare “modello di giustizia caratterizzato da forme particolarmente snelle, di per sé non comparabile con il procedimento per i reati di competenza del tribunale” (come affermato da Corte Costituzionale, ordinanza del 24 giugno 2004, n. 201; si veda pure la più recente Corte Cost., ordinanza del 9 marzo 2016, n. 50; Corte Costituzionale, ordinanza dell’8 giugno 2005, n. 228; nello stesso senso anche Corte Costituzionale, ordinanza del 19 novembre 2004, n. 349).

Pertanto, “è inammissibile l’appello proposto dall’imputato avverso la sentenza di condanna, emessa dal giudice di pace, ad una pena pecuniaria ed al risarcimento del danno in favore della parte civile, laddove si contesti il solo giudizio di responsabilità, senza che venga espressamente impugnato il capo relativo alla condanna, seppure generica, al risarcimento del danno” (ex plurimis, Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, sentenza del 17 aprile 2015, n. 31190). Il motivo sul risarcimento del danno dovrebbe peraltro presentare sufficiente grado di specificità, non potendo l’appellante limitarsi a contestare genericamente l’eccessiva onerosità della liquidazione in relazione alla natura del reato o in rapporto alle proprie condizioni economiche.

Si osservi invece che la specificità dei motivi di appello, da intendersi come capacità critica degli stessi, dovrebbe comunque essere valutata in rapporto alla consistenza dei ragionamenti svolti dal giudice in sentenza, richiedendosi perciò una censura tanto meno dettagliata quanto meno articolata è la motivazione della condanna che si contesta.

Ad ogni modo, per la tesi in rassegna, qualora non sia stato specificamente impugnato il capo relativo al risarcimento del danno “l’impugnazione deve essere qualificata come ricorso per cassazione, in virtù dell’art. 568 comma 5 c.p.p., indipendentemente dalla qualificazione di appello ad essa conferita dalla parte” (Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 16 dicembre 2005, n. 4886); con la conseguenza che l’impugnazione rischierà di risultare inammissibile ove siano esposte censure di merito sull’errata ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado oppure si contesti la correttezza delle valutazioni delle prove testimoniali esaminate nel dibattimento.

Nettamente opposto l’orientamento maggioritario, che appare preferibile ed è condiviso dalla sentenza annotata, secondo cui l’impugnazione proposta dall’imputato contro la sentenza del giudice di pace, che lo abbia condannato a una pena pecuniaria ed al risarcimento del danno in favore della parte civile, qualora con essa non venga contestata esclusivamente la specie o l’entità della pena, deve essere qualificata come appello sebbene non risulti espressamente impugnato il capo relativo alla condanna al risarcimento del danno, in quanto nel procedimento davanti al giudice di pace trova applicazione l’art. 574 co. 4 c.p.p., nella parte in cui prevede che l’impugnazione dell’imputato contro la pronuncia di condanna penale estende i suoi effetti alle statuizioni civili dipendenti dalla condanna (Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 13 ottobre 2017, n. 52578; nello stesso senso, Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, sentenza del 14 aprile 2017, n. 20190; Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 12 gennaio 2017, n. 17784; Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 23 settembre 2016, n. 42779; Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 17 maggio 2016, n. 35023; Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 14 dicembre 2015, n. 5017; Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza dell’1 aprile 2015, n. 31678; con particolare riferimento al necessario coordinamento tra le norme, Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 25 gennaio 2015, n. 2270; Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 23 febbraio 2011, n. 20855; Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, sentenza del 12 maggio 2009, n. 23555; Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza del 9 luglio 2007, n. 36076; Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, 7 luglio 2005, n. 45296; Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, sentenza del 3 maggio 2005, n. 29463; infine, Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza del 3 agosto 1999, n. 10308).

Ritenere la sentenza appellabile solo a condizione che il gravame sia espressamente esteso ai capi civili produrrebbe, in definitiva, “la singolare conseguenza di prevedere tre gradi di giudizio se, ad esempio, l’imputato si duole della mera entità del risarcimento ed invece solo due se nega, a monte, la fattispecie determinativa di danno (id est il fatto di reato) senza avere cura di aggiungere, a mo’ di mera clausola di salvaguardia, che le censure da lui svolte si estendono anche alla conseguente pronuncia adottata sul piano civilistico” (così afferma Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, sentenza del 16 marzo 2010, n. 10344; ripresa da Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, sentenza del 31 gennaio 2018, n. 6055, alla cui lettura integrale si rinvia).

4. Considerazioni conclusive

In conformità con la giurisprudenza dominante, l’articolo 37, comma primo, del Decreto Legislativo n. 274 del 2000 deve necessariamente essere coordinato con l’articolo 574, comma quarto, del Codice di Procedura Penale, principio di carattere generale in base al quale il motivo di gravame sul capo o punto della sentenza relativo all’accertamento del fatto e alla sua attribuzione all’imputato devolve alla cognizione del giudice di secondo grado anche i capi o punti strettamente dipendenti dalla condanna; e tra questi si annovera certamente il risarcimento del danno da reato che, per effetto degli articoli 185 del Codice Penale e 538 del Codice di Procedura Penale, è infatti diretta conseguenza dell’affermazione di responsabilità penale.

Né risulta d’ostacolo la clausola di riserva ex articolo 2 del Decreto Legislativo n. 274 del 2000 che, tranne in determinate ipotesi di esclusione tra le quali non rientra l’articolo 574 del Codice di Procedura Penale, impone il rinvio alle regole codicistiche ogni qualvolta la materia non risulti disciplinata dalla norma speciale: l’articolo 37 del Decreto Legislativo n. 274 del 2000 nulla prevede circa l’effetto consequenziale dell’impugnazione penale e perciò non pone una disciplina diversa, che altrimenti dovrebbe ritenersi speciale quindi prevalente, rispetto a quella codicistica.

Nelle ipotesi di condanna alla sola pena pecuniaria senza statuizioni civili l’unico rimedio a disposizione dell’imputato resterà ovviamente il ricorso per cassazione, ai sensi dell’articolo 37, comma 2, del Decreto Legislativo n. 274 del 2000.