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La gestione penale del conflitto di interessi: tutela del penalmente rilevante e prospettive normative

La gestione penale del conflitto di interessi: tutela del penalmente rilevante e prospettive normative
La gestione penale del conflitto di interessi: tutela del penalmente rilevante e prospettive normative

Abstract

Nel presente contributo, l’autore si sofferma sulla necessità della tutela penale del conflitto di interessi, solo in epoca recente formalizzato nell’ordinamento in sede amministrativa (articolo 42, comma 2, decreto legislativo. n. 50 del 2016). Nella prima parte del lavoro, diviso in due parti, di cui la seconda di prossima pubblicazione, analizza, dopo le dovute premesse, le soluzioni normative a sostegno dell’incriminazione del pubblico ufficiale che orienti la gestione dell’amministrazione pubblica nel singolo caso secondo l’interesse proprio o di terzi.

 

1. Introduzione

2. Il conflitto di interessi e la necessità del suo contrasto in ambito penale

3. La disciplina incriminatrice del pubblico ufficiale: prospettazione ed esegesi della disposizione.

 

1. Introduzione

Oramai da decenni, la tendenza generale dell’ordinamento è quella di ridurre l’area del penalmente rilevante. Il concetto di depenalizzazione non è solo un espediente giuridico di deflazione quantitativa delle fattispecie incriminatrici e dei procedimenti penali ma anche modalità attraverso cui giungere alla modernizzazione e allo snellimento del sistema sanzionatorio. In alcuni casi, sembra delinearsi l’equivalenza tra gli aggettivi “penale” e “vetusto”.

Occorre però affermare come il diritto penale non sia solo un vecchio e scomodo arnese, più o meno giusto nel momento storico attuale, ma un presidio necessario, un’utilità imprescindibile per un sistema che voglia essere connotato da autorità e serietà di risposta repressiva ed animo preventivo. Riconosciuta l’imprescindibilità dell’adeguamento alla realtà e alla società odierna, non si può certamente escludere la necessità delle norme penali.

Tale affermazione reca delle conseguenze di non poco conto sull’evoluzione del diritto sanzionatorio. Posta l’impossibilità e la non opportunità del declino del diritto penale, è indubbia la inesorabile avanzata del diritto amministrativo sanzionatorio. Tale rivoluzione, iniziata con il primo, organico intervento del 1981, è proseguita nel senso di fornire alternative dalla più spiccata ed efficace impronta preventiva, derubricando la fattispecie penale in illecito amministrativo o, in estremo, elidendo la rimproverabilità della condotta e adottando misure amministrative di prevenzione “a monte”. Si è utilizzato il termine rivoluzione, alquanto neutro, teso alla ricognizione del sovvertimento delle linee guida di pensiero. Si può parlare di evoluzione o involuzione? Più specificamente, l’interprete deve dirigere la propria opera ermeneutica alla valutazione dello spostamento di prospettiva nel campo delle sanzioni.

 

2. Il conflitto di interessi e la necessità del suo contrasto in ambito penale

Un primo passo per compiere una riflessione di amplissimo respiro, incontenibile negli spazi e nell’aspirazione generale di codesto contributo, è quello di comprendere se l’esigenza di snellire il sistema penale costituisce una vera e propria esigenza o se, piuttosto, si tratta di una prospettiva che non tiene conto delle lacune presenti nell’ordinamento. Alla pretesa completezza, ai limiti della superfetazione, del sistema penale si contrappone la sua parziale insufficienza, caratterizzabile nel senso di ritenere eccessiva e prossima alla pretestuosità la depenalizzazione incontrollata che si può prevedere sarà il leit-motiv della legislazione penalistica dei prossimi anni.

Il campo d’elezione per le riflessioni sinora svolta è il settore degli appalti pubblici, vista la particolare congiuntura storica. La gestione delle risorse pubbliche e il controllo sul loro corretto impiego, dominati dal (ipotetico) controllo e la vigilanza targati A.N.A.C., non possono prescindere dalla tutela penale. L’installazione di filtri a maglie strette e rigide che blocchino l’illegalità al suo tentativo di ingresso in contatto con le procedure di aggiudicazione appare utile ma di certo non può costituire l’unica soluzione.

La categoria penalistica maggiormente interessata dall’intersezione con le procedure di aggiudico, così come con ogni forma di procedimentalizzazione del potere amministrativo, sia la corruzione, intesa non solo come puntuale fattispecie incriminatrice ma piuttosto quale genus, prototipo dell’offesa al bene pubblico e ai principi basilari in tema di amministrazione pubblica. Quella presente nel codice penale è una categoria completa ma non perfetta, la quale copre l’intero arco della potenziale aggressione degli interessi pubblici ma non ogni possibile accadimento. Stante il pacifico e granitico divieto di applicazione analogica della fattispecie incriminatrice, l’unico modo in cui risulta possibile accedere al trattamento penale delle condotte “scoperte” è quello della formalizzazione di nuove fattispecie.

È pur vero che, in ossequio al principio di frammentarietà della tutela penale, non ogni fatto della vita possa essere sottoposto a incriminazione. A ben vedere, però, non è l’indiscriminata penalizzazione di ogni condotta a rilevare in tal sede ma la marchiana e ingiustificata inesistenza di una censura delle condotte di conflitto di interesse, ugualmente offensive che, a causa della determinatezza e della tassatività delle fattispecie del sistema-corruzione, non sono ricomprese nell’area di punibilità.

Laddove si tratti di interessi privati (soprattutto in campo economico e societario) soccorrono correttivi di impronta civilistica e rimedi penali che consentono di recuperare a legittimità la situazione, seppur in mancanza, anche in questo senso, di una disciplina dettata ad hoc. Si tratta pur sempre di interessi privati che, innegabilmente aggredibili e meritevoli di tutela, cessano di avere effetto e conseguenze oltre una determinata cerchia di soggetti. Il discorso è oggettivamente più delicato quando si tratti di affrontare la medesima situazione che coinvolga un interesse pubblico che, come tale, riguarda la collettività, in via diretta o indiretta.

Fino all’emanazione del codice appalti del 2016, il mancato adattamento alle fonti internazionali (si pensi al mancato recepimento delle definizioni OCSE o a quella fornita dall’articolo 57, comma 2, regolamento UE n. 966 del 2012) hanno provocato una irrimediabile stasi dell’ordinamento sul punto. Successivamente, un primo timido spiraglio è stato fornito dal comma secondo dell’articolo 42 decreto legislativo. n. 50 del 2016 ha fornito una definizione che ricostruisce il conflitto di interesse come la condotta del “personale di una stazione appaltante o di un prestatore di servizi che, anche per conto della stazione appaltante, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzare, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come minaccia alla sua imparzialità ed indipendenza nel contesto della procedura d’appalto o di concessione”.

Tanto posto in sede amministrativa, come tentare dunque di approcciarsi al conflitto di interessi come norma penale? Oltre all’esigenza di “bloccare” gli episodi che sfuggono, per vai motivi, al controllo preliminare, occorre tenere in conto la modalità di trattamento che la norma dovrà svolgere nel sistema. Per condurre un ragionamento proficuo o che, perlomeno, tenti di essere tale, occorre scindere l’analisi della possibile riconduzione all’area del penalmente rilevante tra l’offesa perpetrata dal soggetto legato da vincolo pubblicistico all’amministrazione e quella inferta dal privato interessato dal procedimento amministrativo

 

3. La disciplina incriminatrice del pubblico ufficiale: prospettazione ed esegesi della disposizione

Nell’ottica dell’armonizzazione delle legislazioni e della cooperazione giurisdizionale, intracomunitaria e non, disporre di strumenti simili per la massima riduzione del “porto franco penale” è un’esigenza, non solo una gradevole soluzione di stile.

Ponendo l’attenzione su di una realtà vicina territorialmente anche se non condividente il medesimo sistema giuridico e di principi, la situazione cambia. Un’idea utile ai fini di un imbrigliamento in una fattispecie di condotte diverse da quelle tradizionalmente contemplate proviene dal codice penale svizzero (Strafgesetzbuch). L’articolo 314 StGB prevede il reato di infedeltà nella gestione pubblica, fattispecie che riserva più di una censura in fatto di determinatezza, tassatività, precisione e chiarezza.

Al netto di tali considerazioni, si prevede l’incriminazione della condotta del funzionario pubblico che premette personali interessi a quello pubblico che salvaguardare dovrebbe istituzionalmente e per doveri d’ufficio. L’immoralità è parametrata nel malcostume di piegare l’amministrazione pubblica agli interessi personali. Si tratta di una previsione più ampia di quella dell’articolo 323 del codice penale, in tema di abuso d’ufficio. Quest’ultima disposizione prevede in effetti un’ipotesi che può assimilarsi al conflitto di interessi, visto l’inciso “omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto”. In realtà, la fattispecie di abuso non è sufficiente per comprendere l’intero spettro del conflitto di interesse e le situazioni assimilate. In effetti, il presidio penale dell’articolo 323 del codice penale non è pensato per il trattamento degli episodi para-corruttivi. Un’eventuale disposizione penale che sanzioni il conflitto di interessi deve andare oltre per tentare di coniugare le esigenze di tassatività e quelle di precisione nella formulazione.

Una possibile via percorribile è quella di coniugare i principi posti alla base dell’abuso d’ufficio, il quale rappresenta la fattispecie immediatamente prossima alle esigenze fin qui prospettate, e le suggestioni giuridiche d’oltralpe che si attagliano ad una rinnovata tutela dell’amministrazione e della cosa pubblica.

La proposta è quella di una fattispecie rubricabile “infedele gestione della cosa pubblica. L’affinità con la corruzione rende opportuna la sua ipotetica collocazione sistematica a seguire rispetto alle fattispecie di corruzione e proprio prima dell’abuso d’ufficio. In questo senso, si preserva l’idea è quella di una progressione discendente di offensività che assicuri comunque la sussistenza del presidio penale. A questo fa da contraltare un ampliamento delle situazioni e dei soggetti potenzialmente coinvolti.

Di seguito, si riporta il testo della futuribile disposizione:

articolo 323-bis del codice penale – Infedele gestione della cosa pubblica - 1. Il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio o il pubblico dipendente che, nello svolgimento delle sue funzioni o del suo servizio, orienta la propria attività contro l’interesse pubblico che è tenuto a rispettare, tutelare o proteggere, è punito con la reclusione da 6 a 12 anni. 2. La pena è aumentata se l’interesse pubblico è orientato alla soddisfazione di interessi personali o patrimoniali, propri o altrui. È ininfluente, ai fini dell’applicazione dell’aggravante, il conseguimento concreto del vantaggio ricercato. La pena è altresì aumentata se l’orientamento illecito è provocato dalla mancata astensione dal compimento di un atto o dall’omissione di un atto, anche non obbligatorio. In alternativa alle prime due previsioni, la pena è aumentata di due terzi se l’agente usa le forme o i modi dell’articolo 7 della legge 12 luglio 1991, n. 203, o agisce, in qualsiasi modo, per conto di soggetti legati dal vincolo di cui all’articolo 416-bis. 3. Il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio o il pubblico dipendente che, avvalendosi della qualifica al di fuori dello svolgimento della funzione, orienta l’interesse pubblico alla soddisfazione di interessi personali o patrimoniali, propri o altrui, è punito con la reclusione da 8 a 20 anni. Soggiace alla stessa pena chi versa nella situazione del comma 2, secondo periodo. Si applica il secondo comma, terzo periodo. 4. Nei casi previsti dai commi precedenti, se il vantaggio ha natura patrimoniale e viene conseguito, alla pena della reclusione si aggiunge la multa pari al triplo dell’ammontare del valore del bene o della somma di denaro, calcolato al momento della percezione materiale o effettiva dell’utilità o della somma. Nel caso previsto dal secondo comma, terzo periodo, la multa è pari a sei volte l’ammontare del valore del bene o della somma di denaro.5. Nel caso in cui il fatto è commesso dal pubblico ufficiale, dall’incaricato di pubblico servizio o dal pubblico dipendente in concorso con chi non possiede alcuna delle predette qualifiche, quest’ultimo risponde del reato di cui all’articolo 346-ter. 6. In caso di condanna per i casi previsti dai commi precedenti, è sempre prevista la confisca cumulativa del prodotto, del prezzo e del profitto del reato. La confisca può essere effettuata anche per equivalente. La stessa disposizione si applica nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale. 7. Si applica l’articolo 322-quater, fatto salvo ogni diritto relativo al risarcimento del danno.

Il primo dato che risalta nella lettura è l’affiancamento della qualifica di pubblico dipendente a quelle di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio. Sul punto, occorre soffermarsi per fornire giustificazioni adeguate.

In primo luogo, le critiche potrebbero sorgere da due dati fondamentali: la mancanza di una definizione penalistica di pubblico dipendente e l’unicum che rappresenterebbe tale previsione nel titolo dedicato ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

Sotto il primo profilo, la tipizzazione offerta dagli artt. 357 e 358 del codice penale sembrerebbe un ostacolo insormontabile. L’inserzione della qualifica di dipendente pubblico, più che creare problemi di tassatività, comporta un’increspatura sistematica all’interno di un gruppo di disposizioni tendenzialmente omogeno nell’ambito di applicazione soggettiva. Eppure si può affermare la validità di siffatta costruzione ricorrendo ad un’impostazione di derivazione pubblicistica, essendo l’interesse pubblico alla corretta gestione della pubblica amministrazione e delle sue risorse a venire in rilievo, curato in prima battuta anche dal pubblico dipendente. In questo modo, si sana anche la seconda possibile obiezione perché in questa sede l’esigenza di tutela dei casi di cattiva gestione è più pregnante e considerevole. Altrettanto non casuale è l’equiparazione, ai fini sanzionatori, del soggetto a cui sono attribuiti poteri pubblicistici o lo svolgimento di un servizio pubblico al semplice dipendente pubblico. La specialità del rapporto di lavoro pubblico risiede anche nel contatto con interessi di pubblico rilievo e nella possibile incisione di aspettative e interessi della collettività.

La corretta interpretazione del termine “orientare” va ravvisata in un concetto più ampio rispetto all’asservimento dell’attività amministrativa ai personali voleri del soggetto agente. Se l’asservimento denota una condotta manipolativa tendenzialmente commissiva, l’orientamento può essere condotto anche tramite un’astensione ponderata e programmata. La condotta posta in essere può anche non integrare gli estremi di una fattispecie para-estorsiva e l’operazione di deviazione può verificarsi anche a partire da un’omissione.

Le cornici edittali alquanto elevate si spiegano con la volontà di garantire la certezza della pena, a fronte degli strumenti deflattivi del processo penale e della reclusione la cui applicazione viene ampliata a ogni piè sospinto. In particolare, la pena così quantificata consente l’applicazione della custodia cautelare in carcere (articolo 286 del codice di procedura penale), con termini di durata, di fase ed intermedi, di II fascia (articolo 303 del codice di procedura penale), garantendo un accertamento che può essere speso in modo più efficace su di un arco temporale più esteso. Inoltre, tale ponderazione sanzionatoria consente l’esecuzione delle operazioni di intercettazione (articolo 266 del codice penale) e l’applicazione delle misure pre-cautelari dell’arresto (obbligatorio) e del fermo di indiziato di delitto (articoli 380 e 384 del codice di procedura penale).

In termini di equiparazione di azione ed omissione, può apparire singolare il secondo periodo del comma 2. Si andrebbe apparentemente in contrasto con il dettato dell’articolo 40, comma 2, del codice penale, istituendo un regime aggravato che va apparentemente contro l’equivalenza tra azione ed omissione, nel caso in cui quest’ultima si presenti nella forma “impropria”. La scelta di istituire questo regime si spiega con la volontà di reprimere più duramente l’omissione in ambito pubblico a partire dalla stessa natura della funzione e dell’interesse curato.

Il conflitto di interessi, in senso amministrativo e tecnico, diventa parte integrante dell’infedele gestione e, anzi, assume le fattezze di una sua forma aggravata. Accanto a condotte che potrebbero definirsi “mono-offensive” (comma 1), che prevedono la deviazione dell’interesse pubblico avviene a prescindere dall’esistenza di un interesse in conflitto con quello pubblico, le condotte “bi-offensive” (comma 2) contemplano l’ipotesi in cui la deviazione sia causalmente orientata a partire dalla situazione di conflitto e da esso motivata. Da questo punto di vista, nella gerarchia di offensività delle condotte, la gestione infedele “semplice” è in un gradino inferiore rispetto a quella motivata da conflitto.

Si tiene conto anche della possibilità che l’interesse illecito, causa della determinazione all’orientamento, possa provenire dall’influenza dell’attività della criminalità organizzata, azionando l’intendo repressivo che anima lo spirito dell’antimafia. Il trattamento ulteriormente aggravato del terzo periodo del comma 2 (aggravante ad effetto speciale) porta la pena alle soglie dell’ergastolo. La previsione appare in linea con le esigenze della repressione antimafia, ma soprattutto in ottica special-preventiva, al fine della dissuasione della possibile collusione con i centri criminali.

Ulteriore particolarità è la terza delle condotte che vengono descritte dalla disposizione, prevista al comma 3, che si colloca sul più alto gradino in quanto ad offensività. Si tratta della coniugazione delle due condotte previste nel comma 1 e nell’aggravante del primo periodo del comma 2, che si intendono commesse fuori dall’esercizio delle funzioni ma avvalendosi della qualifica. Ciò che si va a colpire una forma di pressione sociale che può portare ad influenzare eventi e soggetti al fine di ottenere, in modo umbratile, i vantaggi, punendo condotte e fatti che altrimenti sarebbero confinati all’esercizio della funzione, rimanendo penalmente scoperti o diversamente qualificati. Questo aspetto merita un’attenzione particolare e una riflessione a parte. Ad un’attenta lettura, sembra aprirsi alla codificazione della concussione ambientale, nel momento in cui si ammette che costituisca reato, per di più con sanzione inasprita, l’avvalersi dell’incardinamento nell’amministrazione come forma di influenza sociale.

Omettendo le riflessioni relative alla clausola di coordinamento del comma 5, che necessitano dello svolgimento delle riflessioni sull’incriminazione del privato in casi simili, il comma 4 e il comma 6 si concentrano sui riflessi sanzionatori “economici”. Il primo prevede un supplemento fornito dalla predisposizione della multa, vista come pena proporzionale per coefficiente, coordinata con le aggravanti. Infine, l’ultimo comma si occupa di obbligare alla confisca di qualsiasi coefficiente economico percepito in conseguenza dell’attività di reato o connessa alla stessa. In quest’ultimo caso, occorre precisare che il tratto “totalizzante” della confisca prospettata differenzia tale fattispecie da quella dell’articolo immediatamente precedente in tema di confisca per i reati di corruzione.

In primo luogo, nessuna menzione è fatta del prodotto. Ciò costituisce una lacuna della disposizione già prevista, atteso che risulta perlomeno singolare escludere la confiscabilità del prodotto quando abbia una valutazione economica precisa, quantificabile e rapidamente liquidabile. Inoltre, la dicitura, in ordine alla confisca per equivalente, «confisca dei beni di cui il reo abbia la disponibilità» sembra far salvo il caso diritti acquisiti dai terzi sulle somme e sui beni in un momento precedente all’avvio delle indagini in elusione del futuro sequestro (prima) e della confisca (poi). In questo caso, la prova del trasferimento in funzione della sottrazione della garanzia patrimoniale dovrebbe consentire l’azione revocatoria ordinaria rispetto agli atti in questione (articolo 2900 del codice civile) e, laddove non esperibile, espropriazione presso terzo proprietario (articolo 595 del codice di procedura civile).

Esaurita la chiosa della disposizione di nuova foggia, una lettura attenta riserverà tuttora una serie di perplessità, in base a due ordini di fattori. Specificatamente, occorre precisare la compatibilità con i principi fondamentali della materia e, successivamente, chiarire i rapporti con fattispecie che possono risultare simili.

In relazione al primo ordine di fattori, i problemi maggiori possono sorgere per gli attriti con i corollari del principio di legalità, in particolare tassatività e determinatezza. In realtà, la condotta potrebbe ritenersi sufficientemente tratteggiata, stante la spiegazione dei termini in cui viene posto l’elemento fondamentale che connota la condotta, ossia la deviazione dell’attività amministrativa dal fine della cura dell’interesse pubblico, un dato che può assumere a clausola generale, connotante tutti i reati contro la pubblica amministrazione perché specificazione dei principi scolpiti nell’articolo 97 della Costituzione. Non si può ritenere che vada contro il principio di determinatezza la previsione di un reato a forma libera, realizzabile in qualsiasi modo idoneo a produrre l’evento che si intende evitare. Inoltre, si potrebbe qualificare tale condotta come reato di pericolo concreto più che di evento.

In seconda battuta, i rapporti con le fattispecie concettualmente adiacenti. L’attenzione si pone, in particolare, alla concussione (articolo 317 del codice penale, concussione “per estorsione”), alla nuova fattispecie di induzione indebita a dare o promettere utilità (articolo 319-quater del codice penale, concussione “per induzione”) e alla coppia corruzione propria-corruzione impropria (artt. 318 e 319 del codice penale), a cui si accompagna di riflesso l’istigazione alla corruzione (articolo 322 del codice penale).

Dunque, come può una norma a vocazione generale, come quella prospettata, inserirsi correttamente negli ingranaggi del meccanismo, senza comportare degli sfasamenti e un corto-circuito?

Con riferimento alla concussione propriamente detta, il discrimen si colloca a livello di oggetto giuridico. L’articolo 317 del codice penale presenta pacificamente un doppio oggetto di tutela, ossia il regolare funzionamento della pubblica amministrazione e la tutela dell’autodeterminazione del privato nei confronti dell’esercizio del potere pubblico.

Si è di fronte ad un reato pluri-offensivo, che costituisce un presidio differenziato e complesso. La gestione infedele tutela solo il bene pregiudicato dall’obiettivo ultimo, ossia la distorsione del normale e regolare funzionamento dell’amministrazione, per cui è un reato mono-offensivo. Dunque, non sussiste nemmeno un rapporto di specialità tra l’una e l’altra norma, i quali restano reati del tutto indipendenti. Tale conclusione postula l’esistenza di un dolo specifico nella condotta descritta.

Passando alla concussione induttiva (o, secondo la dicitura zanardelliana, “fraudolenta”), si potrebbe far leva sulla clausola di riserva dell’articolo 319-quater, comma 1, del codice penale, che fa salva l’applicazione di disposizioni che prevedano reati più gravi. In effetti, la cornice edittale rimane assorbita da quella della nuova disposizione. Inoltre, si può osservare come la condotta induttiva sconti le stesse osservazioni della norma sulla concussione, con il pregio ulteriore, ai fini dell’assorbimento nella nuova disposizione, di prevedere un’intensità di condotta più debole ed effimera rispetto a quella prospettata già in ambito concussivo.

Per le fattispecie di corruzione (tanto propria quanto impropria), non si pone dubbio circa l’indipendenza delle fattispecie e la loro divergenza, possibilità di supplenza o specificazione. Si tratta di una differenza sostanziale e decisiva: nel nuovo disposto normativo, non si richiede alcuna condotta necessaria di un secondo soggetto per l’integrazione della fattispecie di reato, aspetto che deve essere tenuto distante dalla possibilità di concorso nel reato. Infatti occorre rammentare che una cosa è il reato a concorso necessario, altra il concorso nel reato. Nella seconda delle possibilità prospettate, il reato risulta comunque integrato anche nel caso di soggetto agente unipersonale. La corruzione non “resta in piedi” con un solo soggetto, in quanto non si realizza il fatto tipico riassunto nel meccanismo promessa/dazione-ricezione, mentre nella gestione infedele ciò non accade. Non rileva, ai fini della seguente trattazione, distinguere tra corruzione antecedente e corruzione susseguente. Inoltre, appare differente il dolo che sorregge la corruzione (da ritenersi specifico nel caso antecedente e generico nella fase successiva, mentre è da intendersi specifico per la gestione infedele perché l’agente si prefigura l’ulteriore scopo, a seguito della torsione del potere pubblico al suo volere, di ottenere un vantaggio).