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La risposta della Corte di Cassazione ad una richiesta di riparazione per ingiusta detenzione

Analisi della sentenza n. 42014/2017 della IV sezione penale
Detenzione
Detenzione

Indice

1. La vicenda

2. La sentenza

3. Alcune riflessioni critiche

 

1. La vicenda

RS è stato detenuto dal 6 novembre 2007 al 3 ottobre 2011 in un procedimento penale in cui era accusato dei reati di omicidio della cittadina britannica MK, violenza sessuale, simulazione di reato, furto e porto di un coltello.

Il giudizio, tra i più mediatici e controversi degli ultimi anni, ha avuto il suo epilogo il 27 marzo 2015 allorché la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la precedente condanna inflitta a RS dalla Corte di Assise di Appello di Firenze.

È divenuta così definitiva la sua assoluzione da tutti i reati per non aver commesso il fatto, fatta eccezione per l’ipotesi contravvenzionale che è stata dichiarata estinta per prescrizione.

Di seguito, RS si è rivolto alla Corte di Appello di Firenze per ottenere la riparazione dell’ingiusta detenzione subita.

I giudici fiorentini hanno respinto la richiesta, ritenendo che l’istante avesse tenuto nel corso del procedimento un comportamento gravemente colposo che aveva concorso a giustificare l’adozione della misura cautelare carceraria e il suo mantenimento nel tempo.

RS ha impugnato il provvedimento di diniego per plurime ragioni, ancorché accorpate in un unico motivo: le dichiarazioni da lui rese non erano state decisive per l’emissione e la conferma della misura sicché era inappropriato servirsene per affermare la sua colpa grave; in particolare, le dichiarazioni rese il 5 novembre 2007 erano affette da inutilizzabilità patologica per violazione dei diritti di difesa (RS le aveva rese quale persona informata sui fatti quando era già, di fatto, indiziato di reato); era stato valutato scorrettamente il suo alibi.

2. La sentenza

Il collegio ha anzitutto affrontato una questione di natura generale posta dalla difesa.

La tesi era che il complessivo fallimento dell’ipotesi accusatoria, generato da metodi investigativi ben al di sotto di un accettabile standard professionale, avesse reso sostanzialmente ininfluenti le incertezze che pure avevano caratterizzato le dichiarazioni del ricorrente.

Questa suggestione è stata respinta poiché spetta comunque al giudice della riparazione verificare se la condotta del richiedente si sia posta “come fattore condizionante (anche nel concorso con l’altrui errore) alla produzione dell’evento detenzione”.

Ugualmente irrilevante è stata considerata la menzione nel provvedimento impugnato delle dichiarazioni inutilizzabili rese da RS in assenza delle dovute garanzie difensive.

Per due ragioni: la Corte fiorentina si era limitata a dare atto che quelle dichiarazioni erano state contestate dal GIP nell’interrogatorio di garanzia per la convalida del suo fermo; RS aveva fornito plurime versioni dei suoi movimenti (e di quelli della coimputata AK) dal tardo pomeriggio dell’1 novembre 2007 fino alla notte tra l’1 e il 2 e tutte erano risultate contraddittorie, inconciliabili tra loro e false.

Su quest’ultimo punto, il collegio di legittimità ha richiamato, a conforto delle sue valutazioni, un passo testuale della sentenza definitiva di annullamento riferito a RS: “La sua presenza sul luogo dell’omicidio, e segnatamente nella stanza in cui fu commesso il delitto, è legato alla sola traccia biologica rinvenuta sul gancetto di chiusura del reggiseno, in ordine alla cui riferibilità non può, però, esservi certezza alcuna, giacché quella traccia è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità, di talché si tratta di elemento privo di valore indiziario. Resta, nondimeno, forte il sospetto che egli fosse, realmente, presente nella casa di via della Pergola, la notte dell’omicidio, in un momento, però, che non è stato possibile determinare. D’altro canto, certa la presenza della AK in quella casa, appare scarsamente credibile che egli non si trovasse con lei e assai strano che AK non abbia chiamato subito il fidanzato....il quale avrebbe dovuto essere la prima persona a cui chiedere aiuto”.

Il collegio ha completato il ragionamento facendo propria la valutazione di falsità dell’alibi offerto da RS contenuta nel provvedimento impugnato.

È stato a questo punto conseguenziale il rigetto del ricorso.

3. Alcune riflessioni critiche

La sentenza qui commentata non è tra quelle destinate a passare inosservate.

Rappresenta a suo modo l’ultima parola su una vicenda scabrosa, dall’andamento singolarmente altalenante, monitorata morbosamente dai mass media, vissuta intensamente da molti dei suoi protagonisti i quali hanno interpretato il loro ruolo funzionale all’insegna di un’assertività fuori dal comune.

In questo panorama, il collegio della quarta sezione penale si è inserito con una decisione che aggiunge ulteriore complessità a un giudizio già di per se stesso complicato fino al limite dell’indecifrabilità.

Non ci si riferisce – giusto chiarirlo – all’impressione meramente emotiva di un irriducibile contrasto tra quasi quattro anni di detenzione ingiusta e il rifiuto di accordare la benché minima riparazione.

Questa eventualità, legata al comportamento processuale ed extraprocessuale dell’accusato ed alla sua caratterizzazione in termini dolosi o gravemente colposi, è prevista dal legislatore e il giudice è tenuto a renderla concreta se ne ravvisa le condizioni.

Ci si riferisce invece alla motivazione della sentenza che appare censurabile per plurime ragioni di rilievo tutt’altro che secondario.

Si iscrive in questo contesto la sostanziale elusione del confronto, pure richiesto dal ricorrente, con la straordinarietà del giudizio.

Si prendono a prestito, per la loro chiarezza, le parole dell’estensore della sentenza di annullamento senza rinvio: «la storia di questo processo è caratterizzata da un percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio … Un iter oggettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillances o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni di attività d’indagine che, ove poste in essere, avrebbero, con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza, vuoi dell’estraneità degli odierni ricorrenti … un inusitato clamore mediatico della vicenda, dovuto non solo alle drammatiche modalità della morte di una ventiduenne, tanto assurda e incomprensibile nella sua genesi, ma anche alla nazionalità delle persone coinvolte … e dunque ai riflessi “internazionali” della stessa vicenda, ha fatto sì che le indagini subissero un’improvvisa accelerazione che, nella spasmodica ricerca di uno o più colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità[da qui in avanti la motivazione si sofferma sui profili del merito] nessuna delle possibili causali del ventaglio di soluzioni indicate dalla stessa sentenza rescindente si è potuta accertare nel presente giudizio … l’ipotesi di gioco erotico di gruppo non ha trovato riscontri di sorta … Altro errore di giudizio risiede nella ritenuta irrilevanza dell’accertamento dell’ora esatta della morte della K. … Orbene, anche sul punto è dato registrare un deprecabile pressapochismo della fase delle indagini preliminari.

 Basti considerare, al riguardo, che i rilievi della polizia giudiziaria avevano proposto una banale media aritmetica tra un possibile termine iniziale ed un possibile termine finale … Si tratta … di accertare quale valenza processuale possano assumere gli esiti dell’indagine genetica svolta in un contesto di accertamenti e rilievi assai poco rispettosi delle regole consacrati da protocolli internazionali … Nel caso di specie, è certo che quelle regole metodologiche non sono state assolutamente osservate … Basti considerare, al riguardo, le modalità di reperimento, repertazione e conservazione dei due oggetti di maggiore interesse investigativo: il coltello da cucina e il gancetto di chiusura del reggiseno della vittima in ordine ai quali non si è esitato in sentenza a qualificare l’operato degli inquirenti in termini di caduta di professionalità. Il coltellaccio o coltello da cucina … è stato repertato e custodito in una comune scatola di cartone … Più singolare – ed inquietante – è la sorte del gancetto del reggiseno. Notato nel corso del primo sopralluogo dalla polizia scientifica, l’oggetto è stato trascurato e lasciato lì, sul pavimento, per diverso tempo (46 giorni), sino a quando, nel corso di nuovo accesso, è stato finalmente raccolto e repertato.

È certo che, nell’arco temporale intercorrente tra il sopralluogo in cui venne notato e quello in cui fu repertato, vi furono altri accessi degli inquirenti, che rovistarono ovunque … Il gancetto fu forse calpestato o, comunque, spostato, (tanto da essere rivenuto sul pavimento in posto diverso da quello in cui era stato inizialmente notato).  Non solo, ma la documentazione fotografica prodotta dalla difesa di RS dimostra che, all’atto della repertazione, il gancetto veniva passato di mano in mano degli operanti che, peraltro, indossavano guanti di lattice sporchi … Un dato processuale di incontrovertibile valenza è rappresentato dall’assoluta mancanza, nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima di tracce biologiche con certezza riferibili ai due imputati laddove, invece, sono state rinvenute copiose tracce sicuramente riferibili a RG (altro imputato del processo, giudicato con rito abbreviato e riconosciuto responsabile dell’omicidio in un separato giudizio - NDR)  … Con riferimento alle asserite tracce ematiche negli altri ambienti, segnatamente nel corridoio, vi è poi un evidente travisamento di prova. Ed invero, i s.a.l. (stati avanzamento lavori) della polizia scientifica avevano escluso … che, negli ambienti considerati, le tracce … avessero natura ematica … È poi palesemente illogico – oltre che poco rispettoso della realtà processuale – ricostruire il movente dell’omicidio sulla base di pretesi dissapori tra MK e AK».

Una proposizione emerge con chiarezza da queste frasi: il disastro investigativo è stato il primo ed essenziale fattore di disturbo del processo.

Se dunque investigatori e inquirenti avessero svolto le loro attività funzionali secondo ciò che sarebbe stato necessario e corretto, si sarebbe per ciò stesso composto, in tempi rapidi (“sin da subito” secondo il giudice di legittimità), un quadro chiaro e affidabile.

Non solo: il giudizio di radicale inaffidabilità contenuto nella sentenza del 2015 è quasi totalmente concentrato sulle attività di ricerca, conservazione, analisi e valutazione delle prove di generica.

Non ha nulla a che vedere quindi con il contributo offerto dagli imputati e il suo grado di credibilità.

Ebbene, il collegio della quarta sezione ha puramente e semplicemente ignorato questa constatazione, dando così luogo a una grave omissione dalla quale è derivata una convinzione per ciò stesso arbitraria: che il comportamento di RS fosse pienamente configurabile come concorso nell’errore compiuto in suo danno dai competenti apparati investigativi e giudiziari.

Affermazione questa che, come si è visto, è stata data per scontata dai giudici di legittimità sull’esclusivo presupposto dell’incongruenza delle dichiarazioni dell’interessato.

È dunque lecito immaginare che se la sequenza argomentativa fosse stata corretta e si fosse realmente attenuta alla verità processuale affermata nel 2015 quell’asserito concorso avrebbe perso molta della sua rilevanza il che avrebbe costretto il collegio a fare i conti con il consolidato indirizzo interpretativo, avallato tra le altre da Cass. Pen. Sez. 4^, sentenza n. 10895/2012, per il quale “la nozione di “colpa grave” di cui all’articolo 314, comma 1, c.p.p., ostativa del diritto alla riparazione dell’ingiusta detenzione, va individuata in quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria, che si sostanzi nell’adozione o nel mantenimento di un provvedimento restrittivo della libertà personale”.

Sicché, la colpa è grave solo se evidente e macroscopica e dia luogo ad una situazione tale da giustificare la restrizione della libertà personale del responsabile.

Il logico portato di questa nozione è che tali requisiti non dovrebbero essere valutati in esclusivo riferimento alla condotta dell’accusato ma, sempre e comunque, tenendo conto dell’incidenza che essa assume nell’economia generale del procedimento penale e della sua efficacia nella produzione del risultato giudiziario.

Le considerazioni fatte in precedenza, strettamente mutuate dalla sentenza del 2015, dimostrano che le dichiarazioni di RS ebbero un’incidenza marginale sulle determinazioni giudiziarie di ogni singola fase procedimentale.

Si deve per ciò stesso constatare un primo ed essenziale deficit della decisione commentata.

Un’argomentazione strettamente correlata è quella, anch’essa inutilmente spesa dalla difesa del ricorrente, dell’inutilizzabilità delle prime dichiarazioni di RS, sentito come informatore quando era già un indiziato di fatto.

La sentenza della quarta sezione banalizza questo dato e arriva perfino a contemplare passivamente l’illegittimo uso che il GIP fece di quelle dichiarazioni per convalidare il fermo di polizia giudiziaria ed il fatto che anche l’ordinanza impugnata le abbia menzionate ed inserite nel calderone generale delle versioni rese da RS.

Nella motivazione si legge che quel vizio d’origine non ha alcuna importanza perché RS fu sentito altre volte e tenne sempre un atteggiamento menzognero o reticente.

Ancora un’omissione e una sottovalutazione.

Sarebbe piaciuto che i giudici di legittimità stigmatizzassero quella grave violazione e ne prendessero le distanze, anche ai fini della selezione degli elementi da utilizzare per la loro decisione, ma non l’hanno fatto.

Soprattutto, sarebbe stata necessaria una convincente e motivata ponderazione degli effetti che quelle dichiarazioni inutilizzabili produssero sugli atti successivi collegati e sulle determinazioni cautelari di merito e di legittimità. Ma neanche questo è stato fatto, essendosi preferito negare autonomo rilievo a quel vizio e stemperarne gli effetti  in quel comune calderone di cui si diceva.

È ancora necessaria qualche puntualizzazione prima di abbandonare il  tema connesso alla pretesa valenza ingannatrice delle dichiarazioni di RS.

La lettura della motivazione della sentenza del 2015 nella parte che illustra le residue ragioni di sospetto su costui rende chiara l’inesistenza di certezze o, per meglio dire, l’impossibilità di affermare come esistenti i fatti che l’accusa aveva posto a suo carico.

Questo vale per la sua presenza sul luogo dell’omicidio la quale era stata dedotta da una traccia biologica rinvenuta sul gancetto di chiusura del reggiseno della vittima, che tuttavia aveva perso qualsiasi efficacia dimostrativa per uno dei tanti infortuni nella conservazione dei reperti, e da orme rinvenute anch’esse nell’abitazione della vittima che dal canto loro non potevano essere attribuite con certezza a RS.

Il collegio dell’annullamento è stato quindi costretto a motivare il sospetto su ragioni squisitamente logiche desunte dalla sicura presenza della coimputata AK nel luogo del delitto.

Lo stesso è da dirsi per la conferma che RS diede dell’alibi di AK nella parte in cui costei dichiarò di essere stata a casa del primo la sera dell’omicidio.

Il collegio ha dubitato della veridicità di queste dichiarazioni ma ha al tempo stesso riconosciuto che il teste che aveva visto i due nell’orario in cui entrambi sostenevano di essere a casa di RS aveva fatto affermazioni che presentavano forti margini di equivocità e approssimazione.

Un caso, dunque, in cui l’epilogo assolutorio è dipeso dalla radicale mancanza di certezze riguardo ai fatti solo in presenza dei quali l’ipotesi accusatoria avrebbe potuto reggere.

La conclusione è scontata: la radicale incertezza sull’effettiva consistenza dei fatti dedotti dall’accusa pubblica impedisce, o quantomeno rende assai difficoltoso, di considerare volutamente devianti le proposizioni che li smentiscono.

Resta infine un’ultima questione ed è quella dell’alibi di RS che sia la Corte di Appello di Firenze che il giudice di legittimità hanno bollato di falsità, desumendone quindi un’ulteriore elemento dimostrativo della gravità della sua colpa.

Si tratta, una volta di più, di una valutazione non perfettamente congrua a ciò che si ricava dalla sentenza del 2015.

Basterà qui rilevare che secondo i giudici dell’annullamento “non è dato parlare di alibi falso, essendo più appropriato parlare di alibi non riuscito”.

Sono queste, allora, le ragioni che rendono problematico e non particolarmente convincente l’avallo della decisione di non accordare alcuna riparazione a RS.

Sarebbe stato forse possibile un esito differente se il collegio avesse dato il giusto rilievo alla non comune devianza della vicenda processuale dagli standard comunemente accettati e l’avesse considerata preponderante sulle sbavature attribuibili alla vittima di quella devianza.

Sarebbe stato forse necessario tenere in debita considerazione la straordinaria pressione che gli accusati subirono ad opera di chi operava “nella spasmodica ricerca di uno o più colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale” e le distorsioni che quella pressione potrebbe avere indotto non solo nell’acquisizione delle prove di generica ma anche nelle reazioni difensive degli accusati alle contestazioni che gli venivano mosse.

Ma l’ultimo giudice ha parlato e non si può che prenderne atto.