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Olivia de Havilland vs. FX Networks, LLC: il diritto all’immagine nei biopic

Di Barnaba Lupo

 

Nessuno possiede la storia”. Con questa granitica presa di posizione, la Corte d’Appello della California ha dichiarato inammissibile, con provvedimento pubblicato il 26 marzo 2018, il ricorso presentato dalla ultracentenaria attrice Olivia de Havilland contro la casa di produzione televisiva FX.

Il primo grado

Il 30 giugno 2017 Olivia de Havilland conveniva in giudizio la FX per sentirla condannare al risarcimento del danno all’immagine, del danno non patrimoniale, dei danni punitivi e delle spese legali, nonché all’emissione di un provvedimento che vietasse la trasmissione e la distribuzione della miniserie televisiva in otto puntate Feud: Bette and Joan, incentrata sulla rivalità tra le attrici Bette Davis e Joan Crawford in cui il personaggio “Olivia de Havilland”, interpretato da Catherine Zeta-Jones, compare in alcune, sporadiche scene.

Sosteneva sul punto la totale assenza di qualsiasi permesso o autorizzazione da lei conferita alla FX per la creazione del personaggio, con particolare riguardo al tenore dei dialoghi attribuiti al suo personaggio, articolando le proprie ragioni in quattro punti di diritto:

1. utilizzo non autorizzato del nome e della personalità di un essere umano reale e vivente;

2. violazione della sezione 3344 del Codice Civile, concernente il diritto all’immagine così come regolato dalla legislazione californiana;

3. diffamazione conseguente a violazione della privacy;

4. indebito arricchimento.

Il Tribunale, nel qualificare la miniserie come “docudrama[1], rigettava una prima richiesta di inammissibilità promossa da FX, sostenendo che la produzione televisiva in questione costituisse una forma di manifestazione di espressione pubblica riguardante un argomento di interesse pubblico.

In questo senso, la ricorrente aveva sufficientemente soddisfatto l’onere della prova su di essa incombente laddove da una parte alcun corrispettivo le era stato elargito nonostante fossero stati utilizzati il suo nome e le sue fattezze e dall’altra le espressioni contenute nei dialoghi del personaggio “Olivia de Havilland” avrebbero potuto indurre lo spettatore medio a pensare che la vera signora de Havilland fosse, e tutt’ora sia, una «pettegola che utilizza termini volgari parlando di altri individui, compresa sua sorella [l’attrice Joan Fontaine, NdR][2]».

Veniva inoltre ritenuta non ostativa, ai fini della prosecuzione della causa, la mancanza di mala fede della controparte nell’utilizzo di dialoghi non corrispondenti a verità, essendo sufficiente la mera assunzione, da parte di FX, del rischio di non offrire al pubblico un prodotto del tutto realistico.

 

Il secondo grado

La Corte d’Appello californiana, invece, ha ritenuto sussistenti i presupposti per una declaratoria di inammissibilità del ricorso, fondando la propria decisione sul cosiddetto “anti-SLAPP statute”, ossia un rimedio offerto dal Codice di Procedura Civile[3] per estinguere giudizi che manifestamente comprimerebbero le garanzie derivanti dal Primo Emendamento alla Costituzione statunitense[4].

Il procedimento che porta all’accoglimento di una mozione di inammissibilità basata su questo istituto giuridico si articola in due fasi: la prima richiede che il convenuto dimostri che il petitum sia connesso al e derivante dal diritto costituzionale di libertà di espressione del convenuto medesimo, mentre la seconda, subordinata alla sussistenza della prima, impone all’attore l’onere di provare la sufficiente probabilità di vincere nel giudizio di merito.

Particolare requisito, che si aggiunge a quanto già indicato esclusivamente nel caso in cui il ricorrente sia una personalità pubblica, quale quello in questione, è la dimostrazione della mala fede del convenuto[5].

L’iter logico-giuridico seguito dalla Corte ha affrontato per prima la questione preliminare relativa alla qualificazione della rappresentazione di una persona reale in un programma televisivo, ai sensi della sezione 3344 del Codice Civile[6].

Basandosi su un precedente del 2016 della Corte Federale del 9 Distretto[7], i giudici hanno statuito che l’uso del nome o delle sembianze di una persona realmente esistita in qualsiasi opera filmica o letteraria non direttamente finalizzata alla pubblicizzazione di un prodotto non costituisce in alcun modo un pregiudizio per la persona ritratta.

Ammettendo e non concedendo, inoltre, che un programma televisivo come Feud: Bette and Joan sia un productmerchandise o good come intesi nella succitata sezione 3344, il Primo Emendamento fungerebbe comunque da scudo protettivo per la FX, dal momento che la miniserie in questione, così come qualsiasi altro lavoro creativo, è pienamente protetta dal Primo Emendamento, il cui scopo è la salvaguardia degli artisti che, partendo da elementi della vita reale, li trasformano in arte sotto forma di articoli, libri, film o pièce[8].

In mancanza di un comprovato diretto collegamento tra l’utilizzo del nome o delle sembianze e uno scopo commerciale del prodotto realizzato, infatti, è irrilevante che l’opera d’arte sia un lavoro storico-realistico o fittizio.

Contestando ulteriormente quanto espresso dal Tribunale con la prima decisione, la Corte d’Appello ha evidenziato l’ininfluenza, ai fini della decisione, di un eventuale accordo contrattuale, anche oneroso, tra i produttori di un film o di una serie televisiva e le persone in essi ritratte o i loro eredi, dal momento che tali atti sono stipulati solitamente per ragioni di opportunità, al mero fine di evitare contenziosi, o per accedere agli archivi privati delle celebrità.

La protezione costituzionale si estende fino a coprire l’utilizzo del nome della signora de Havilland nel materiale pubblicitario, poiché lo stesso non è direttamente finalizzato a promuovere il prodotto, bensì si qualifica solamente come un elemento accessorio del prodotto medesimo.

L’utilizzo del nome e delle fattezze della ricorrente nel caso di specie, inoltre, non supera nemmeno il test ricavato da un precedente del 2001[9], secondo cui si assisterebbe a una violazione del diritto all’immagine qualora il prodotto finale traesse la propria consistenza economica essenzialmente dalla fama della celebrità ivi rappresentata.

Per stessa ammissione di FX, non contestata, gli autori del programma volevano creare i personaggi degli attori e dei registi raffigurati in maniera il più aderente possibile alla realtà: la profittabilità e il valore economico di Feudnon deriva fondamentalmente dalla fama di Olivia de Havilland ma dalla creatività, dal talento e dalla reputazione degli ideatori e degli attori coinvolti nella lavorazione della serie televisiva.

Soddisfatto, dunque, il primo requisito per l’applicazione dell’anti-SLAPP statute, la ricorrente non ha visto accogliere le proprie domande per mancanza di sufficienti elementi probatori in grado di dimostrare una futura vittoria nel giudizio di merito per diffamazione.

In particolare, la fattispecie del reato di “false light” comprende, tra i suoi elementi costitutivi, l’esposizione di una persona a odio, disprezzo, ridicolizzazione e vergogna e presume che ciò sia percepibile dall’uomo medio, con mala fede dell’autore dell’illecito[10].

La prova che Olivia de Havilland doveva fornire, dunque, consisteva nel dimostrare che lo spettatore medio, dotato di buon senso comune, guardando le scene nel loro contesto originario, le avrebbe percepite come dichiarazioni rese da una persona “ipocrita” e “pettegola”, che utilizza espressioni crude e volgari riguardo a suoi conoscenti.

Così, il mero dato fattuale di non aver mai concesso alcuna intervista durante la cerimonia degli Oscar del 1978, avvenimento fittizio invece presente nella miniserie, non espone l’attrice a quanto sopra indicato in termini di offensività, trattandosi esclusivamente di un mero espediente narrativo utilizzato dagli autori per collegare le varie scene della miniserie, «come Beatrice nei confronti dello spettatore-Dante[11]».

L’ultimo punto affrontato dalla Corte d’Appello, infine, si incentra sulla verità sostanziale, concetto che prevale, secondo la legge californiana, sulla verità fattuale, qualora un’espressione abbia lo stesso effetto, nella mente di uno spettatore, di quella che è stata realmente pronunciata[12].

Il personaggio “Olivia de Havilland” utilizza, in due separate occasioni, il termine “bitch” riferendosi a sua sorella, l’attrice Joan Fontaine (1917-2013), con la quale è risaputo non avesse ottimi rapporti.

La vera Olivia de Havilland, invece, sostiene di non aver mai utilizzato tale espressione bensì di averla chiamata pubblicamente “dragon lady”, da lei ritenuto meno offensivo.

Anche su questo punto, la Corte californiana ha rigettato le pretese della ricorrente, sostenendo, sulla base di quanto allegato anche da FX, che entrambe le locuzioni hanno lo stesso significato ma il primo è più diffuso e maggiormente comprensibile dal pubblico contemporaneo rispetto al secondo.

Il punto di diritto generale e conclusivo del provvedimento, infine, stabilisce come la pubblicazione di un’opera di fantasia, seppur basata su fatti o persone reali, non può di per sé significare che l’autore abbia agito con mala fede al fine di danneggiare gli eventi e le celebrità ritratti.

La mala fede, infatti, deve sempre essere puntualmente dimostrata: in caso contrario, anche qualora sussistano tutti i presupposti per l’accoglimento di una domanda giudiziale, la stessa dovrà essere necessariamente rigettata per mancanza di questo fondamentale elemento soggettivo.

Ne deriva che qualsiasi richiesta di risarcimento danni derivante dai petita sopra rigettati debba essere parimenti disattesa, dal momento che, secondo la legge californiana, si tratta solamente di una richiesta restitutoria subordinata e non di un’autonoma pretesa[13].

Il diritto all’immagine non può, dunque, in conformità al Primo Emendamento, consistere nel diritto di controllare la rappresentazione di una celebrità fino al punto di censurare qualsiasi raffigurazione sgradevole della stessa.

Link al provvedimento originale: https://law.justia.com/cases/california/court-of-appeal/2018/b285629.html

[1] Per tale intendendosi un «dramatized retalling of history».

[2] Traduzione di De Havilland v. FX Networks, LLC, Court of Appeal of the State of California, 26.03.2018, pag. 10

[3] Sezione 425.16

[4] Se ne riporta il testo per comodità di consultazione: «Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances»

[5] Così riporta il precedente Annette F. v. Sharon S., 2004, 119 Cal.App.4th 1146, 1162, 1169-1172 citato dalla Corte d’Appello.

[6] «Any person who knowingly uses another’s name, voice, signature, photograph, or likeness, in any manner, on or in products, merchandise, or goods, or for purposes of advertising or selling, or soliciting purchases of, products, goods, or services, without such person’s prior consent, […] shall be liable for any damages sustained by the person or persons injured as a result thereof.»

[7] Sarver v. Chartier (9th Cir. 2016) 813 F.3d 891

[8] Conformi in questo senso Guglielmi v. Spelling-Goldberg Productions (1979) 25 Cal.3d 860, Dora v. Frontline Video, Inc. (1993) 15 Cal.App.4th 536, 542

[9] Comedy III Productions, Inc. v. Gary Saderup, Inc. (2001) 25 Cal.4th 387

[10] Brodeur v. Atlas Entertainmenti, Inc. (2016) 248 Cal.App.4th 665, 678

[11] Traduzione di De Havilland v. FX Networks, LLC, Court of Appeal of the State of California, 26.03.2018, pag. 31

[12] Carver v. Bonds (2005) 135 Cal.App.4th 328, 344-345 e Gilbert v. Sykes (2007) 147 Cal.App.4th 13, 28

[13] Hill v. Roll Internat. Corp. (2011) 195 Cal.App.4th 1295, 1307

 

Redatto il 6 aprile 2018