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Società Benefit: un nuovo modello di business

Società Benefit: un nuovo modello di business
Società Benefit: un nuovo modello di business

Parte I

 

Sommario

1. Dalle B-Corp alle benefit corporation. La società benefit in Italia come approdo oltre oceano

2. Le Società Benefit: inquadramento giuridico e rapporto con le società non benefit

3. Struttura e caratteristiche delle Società Benefit

 

1. Dalle B-Corp alle benefit corporation. La società benefit in Italia come approdo oltre oceano

È il 2006 quando negli Stati Uniti d’America si pone la questione di attuare una nuova concezione di business. Promotore di tale concezione è stato l’ente americano no profit B-Lab, il quale per primo ha sostenuto e promosso l’idea di utilizzare il business come “forza positiva” (as a force for good).  Si sviluppa un movimento imprenditoriale che coinvolge un discreto numero di realtà societarie, interessate al perseguimento del profitto nel rispetto dei più elevati standard di trasparenza e perfomance di qualità socio-ambientale.  Nasce quindi una nuova tipologia di impresa, definita B-Corp, la quale oltre alla produzione di utili, si sottopone al contempo ad un rigoroso percorso di valutazione (c.d. Benefit Impact Assessment) volto a misurare la qualità dell’impatto generato sugli stakeholders (portatori di interessi esterni alla compagine societaria), al fine di ottenere una certificazione dell’impegno assunto nei confronti degli stessi.

La certificazione B-Corp consente quindi di dichiarare al mercato di essere un’impresa orientata ai principi di sostenibilità all’interno dell’intera catena del valore. Tuttavia, dal momento che la certificazione B-Corp era una certificazione “privata”, la stessa non era in grado di porre alcuna garanzia effettiva ed alcuna tutela istituzionale.

Tale limite ha indotto il movimento delle B-Corp ad esercitare pressioni sulle istituzioni al fine di far delineare un quadro normativo idoneo a tutelare le società che oltre allo scopo lucrativo volessero perseguire scopi di beneficio comune.

Tali pressioni rivolte verso le istituzioni trovano un primo riconoscimento nello stato del Maryland, dove nel 2010 vengono riconosciute le Benefit Corporation, ossia società che accanto allo scopo di lucro perseguono la finalità di generare un impatto materiale e positivo sulla società e sull’ambiente, previa individuazione nello statuto dello specifico bene comune da perseguire.

Tali società si sottopongono altresì all’obbligo di redigere annualmente una relazione sull’attività svolta per la realizzazione degli obbiettivi indicati, contenente una valutazione delle perfomance sociali ed ambientali misurate attraverso il ricorso ad uno standard di valutazione esterno.

Dopo il Maryland, anche altri stati americani disciplinano ed introducono le Benefit Corporation, tanto che, ad oggi, una disciplina ad hoc è stata adottata in 32 stati; primo faro oltre oceano, l’Italia, la quale nel 2016, con la legge di stabilità introduce per prima in Europa un’apposita disciplina volta a “promuovere la costituzione e favorire la diffusione” delle Società Benefit.

Il destinatario naturale dell’innovazione appare principalmente l’impresa for profit, un vasto insieme all’interno del quale si apre un cluster di società che, volontariamente, dichiarano di perseguire finalità di beneficio comune, pur senza rinunciare all’obiettivo del profitto.

Le attività non profit organizzate in forma d’impresa, a cominciare da coop e imprese sociali, hanno già nel proprio dna la natura di utilità sociale, dunque non appaiono, almeno in prima battuta, necessitate a vestire i nuovi panni. Sul fronte opposto, nell’universo delle aziende commerciali, sono certamente moltissime quelle che già operano con criteri di sostenibilità e con una visione di lungo termine, e proprie queste ultime sembrerebbero costituire la platea di destinatari della nuova disciplina.

2. Le Società Benefit: inquadramento giuridico e rapporto con le società non benefit

Con la “Legge di Stabilità 2016” (legge 28 dicembre 2015 n. 208, articolo 1, commi 376-384), l’ordinamento italiano ha aperto le porte alle Società Benefit.

Occorre preliminarmente evidenziare come il concetto di Società Benefit non costituisca un nuovo tipo sociale, ulteriore ed alternativo rispetto a quelli già riconosciuti nel nostro ordinamento, bensì rappresenti una “qualifica” che tutti i tipi societari possono ambire ad acquisire, così come espressamente chiarito dal legislatore, il quale, al comma 377 del summenzionato articolo 1 prevede che tale qualifica possa essere acquisita “da ciascuna delle società di cui al Libro V, titoli V e VI, del codice civile, nel rispetto della relativa disciplina”.

Caratteristica cardine di tale tipologia di società è, dunque, il dualismo dello scopo: allo scopo di divisione degli utili, il legislatore affianca la “finalità di beneficio comune”; divisione degli utili e beneficio comune che devono essere perseguiti mediante una gestione volta al loro bilanciamento.

Già prima dell’introduzione delle Società Benefit era infatti possibile che le società di cui al libro V, titolo V e VI del codice civile perseguissero finalità di beneficio comune e ciò non solo in via fattuale, ma eventualmente anche, per il tramite dell’apposizione di apposite previsioni statutarie. L’introduzione della nozione di Società Benefit sembra tuttavia ribaltare tale affermazione. Al comma 379 dell’articolo 1, si legge infatti che “le società diverse dalle Società Benefit, qualora intendano perseguire anche finalità di beneficio comune, sono tenute a modificare l’atto costitutivo o lo statuto”.

Può però forse ritenersi che il discrimen tra le società non benefit, che vogliano perseguire un beneficio comune, e le Società Benefit, stia nel quantum di produzione delle due finalità. Per quanto riguarda le Società Benefit si parla infatti di “bilanciamento” tra l’interesse dei soci (evidentemente quello di dividere gli utili) e l’intereresse di “coloro sui quali l’attività sociale possa avere un impatto”. Nel caso di società non benefit, invece, nulla si dice circa il quantum di un fine ulteriore rispetto a quello di divisione degli utili; certo è che quest’ultimo, sebbene non necessariamente esclusivo, debba essere quantomeno prevalente.

Altro punto di divergenza tra Società Benefit e società non benefit risiede nella individuazione dei rimedi sanzionatori previsti, nel caso di mancato perseguimento delle finalità di beneficio comune, solo per le prime e non per le seconde. È la stessa legge di stabilità per il 2016 a prevedere che “la Società Benefit che non persegua le finalità di beneficio comune è soggetta alle disposizioni di cui al decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145 in materia di pubblicità ingannevole e alle disposizioni del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206”.

La reazione dell’ordinamento in caso di violazione dei canoni previsti ex lege, viene dunque agganciata non tanto alla mancata realizzazione del beneficio comune, il quale deve essere “perseguito”, ma non anche necessariamente “realizzato” (ciò anche alla luce del principio della Business Judgment Rule), tanto che il mancato successo dell’operato della società non può porsi quale necessario presupposto per l’irrogazione della sanzione, quanto piuttosto  alla “delusione” scaturente dalla pubblicità ingannevole resa nei confronti della collettività. Le Società Benefit sono infatti tenute ad un particolare rigore in termini di trasparenza e pubblicità circa il loro operato e spetta all’Autorità garante della concorrenza e del mercato irrogare eventuali sanzioni amministrative in caso di condotta illecita.

Tale previsione è coerente con il ritorno di immagine di cui si giova l’impresa che aderisce al modello “Società Benefit”, in quanto tale qualifica genera nei consumatori l’idea che comprando i prodotti o i servizi offerti da quella determinata impresa questi contribuiscano a generare riflessi positivi sulla collettività, determinando un positivo impatto sociale.

 

3. Struttura e caratteristiche delle Società Benefit

Come si è già avuto modo di apprezzare, le Società Benefit non costituiscono un nuovo tipo societario, bensì una “qualifica” cui le società di cui al libro V, titoli V e VI del codice civile possono ambire.

Occorre sul punto evidenziare come il dettato normativo sia poco coerente, alla luce del fatto che è la stessa legge di stabilità 2016 ad affermare che la finalità di beneficio comune debba affiancarsi (e bilanciarsi) a quella della divisione degli utili (la legge fa infatti riferimento allo scopo di lucro), ammettendo tuttavia l’applicabilità della qualifica “Società Benefit” anche alle società cooperative. Volendo trascendere tale incongruenza testuale, può tuttavia ritenersi che l’intento del legislatore del 2016 fosse quello di rimarcare la necessaria coesistenza ed il doveroso bilanciamento di due interessi, ed in particolare che al fine “tipico” della forma associativa di riferimento, si dovessero affiancare una o più finalità ulteriori volte a generare un beneficio comune (o quantomeno a ridurre gli effetti negativi conseguenti allo svolgimento dell’attività).

Si è più volte parlato della qualifica “benefit” come di un’ambizione; ambizione alla luce del fatto che il comma 379 dell’articolo 1 della legge di stabilità consente (ma non impone) alla società che rispetti i requisiti necessari per divenire Società Benefit, di fregiarsi di tale qualifica, potendo introdurre accanto alla denominazione sociale la dicitura “Società Benefit”, ovvero breviter “SB”.

L’inserimento di tale dicitura nella denominazione sociale rappresenta uno degli strumenti principali per divulgare l'acquisizione della qualifica benefit e per trarne i vantaggi in termini di reputazione ed immagine. Per tale motivo ben si comprende la tendenza di quasi tutte le Società Benefit italiane di riportare nella propria denominazione sociale una delle summenzionate diciture. Infatti, su 105 società che si sono statutariamente obbligate a perseguire una o più dual mission, 103 hanno inserito nella propria denominazione sociale la dicitura SB ovvero Società Benefit.

Nelle economie avanzate, infatti, specie negli ultimi anni, è cresciuta e continua a crescere la domanda di prodotti e servizi in grado di rispondere ai bisogni della societài quali provengono da imprese orientate ai principi di sostenibilitàAl contempo è aumentato anche l’interesse degli investitori nei confronti di quelle imprese che abbiano innovato il proprio sistema operativo al fine di contribuire al benessere sociale ed ambientale.

In buona sostanza, quindi, anche alla luce del fatto che non sono ad oggi previste agevolazioni di alcun tipo da parte dello Stato per quelle società che si conformino a tali parametri, il frutto concreto della trasformazione o, se del caso, della costituzione di una società come Società Benefit, sta in quello che si potrebbe definire come un ritorno d’immagine.

Veniamo ora ad esaminare quelli che sono gli elementi salienti della disciplina delle Società Benefit.

Tutto ruota, come si è avuto modo di vedere, intorno al concetto di dualismo dello scopo, in particolare intorno al concetto di “finalità di beneficio comune” quale scopo necessario ed ulteriore rispetto a quello tradizionale di divisione degli utili.

È lo stresso legislatore che, al comma 378 dell’articolo 1 della Legge di stabilità, offre una chiara, seppur vaga, definizione del concetto di beneficio comune, dovendosi intendere con tale espressione “il perseguimento, nell’esercizio dell’attività economica della Società Benefit, di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più categorie di cui al comma 376”, ovvero: “persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interessi”.

Al di là dell’indeterminatezza della disposizione, deve rilevarsi come non sia necessario che l’impresa crei valori nei confronti delle predette categorie di soggetti, essendo sufficiente che la società operi in maniera tale da minimizzare gli effetti esterni negativi (ad esempio, tramite l’utilizzo di materiali a basso impatto ambientale). Il legislatore, poi, coerentemente anche con la business judjment rule, non richiede che la società realizzi il beneficio comune, bensì quel che interessa è che lo persegua.

Il legislatore, dunque, diversamente dal modello americano, non si preoccupa di esprimere un catalogo, seppur non tassativo quantomeno esemplificativo, di cosa debba intendersi in concreto con l’espressione cardine di tale disciplina, ossia “beneficio comune”.

Certo è che il beneficio comune specifico da perseguire deve essere individuato ex ante mediante inserimento dello stesso nell’oggetto sociale. Tale circostanza consente alla società di attribuire stabilità e certezza allo scopo “altruistico” in quanto impone che la gestione della società sia effettivamente orientata anche a tale obbiettivo, con il riconoscimento di apposite sanzioni per mala gestio degli organi preposti all’amministrazione della società, in caso di inadempimento.

In particolare, gli amministratori, oltre a perseguire entrambi gli scopi mediante un attento bilanciamento degli stessi, sono tenuti ad individuare il soggetto o i soggetti cui affidare funzioni e compiti volti al perseguimento del beneficio comune.

Quanto mai ampia è la discrezionalità di questi nell’individuazione di tale soggetto, visto il disinteresse del legislatore di predeterminarlo in via univoca; non viene precisato, in particolare, se debba trattarsi di un amministratore, di un dipendente a livello dirigenziale o, al limite, di un consulente esterno. È tuttavia evidente che, più diretto sarà l’engagement del top management, più credibile risulterà l’impegno aziendale. 

Il legislatore, inoltre, al fine di consentire un controllo da parte dei soci e degli stakeholders sull'attività effettivamente svolta per il perseguimento della dual mission, ha previsto l'obbligo per gli amministratori di redigere annualmente una relazione sul beneficio comune perseguito, la quale deve essere allegata al bilancio e pubblicata sul sito internet della società, qualora esistente.

A norma del comma 382 dell’articolo 1 della legge di stabilità 2016, la relazione deve contenere:

a) la descrizione degli obbiettivi specifici, delle modalità e delle azioni attuati dagli amministratori per il perseguimento delle finalità di beneficio comune e delle eventuali circostanze che lo hanno impedito o rallentato;

b) la valutazione dell'impatto generato utilizzando lo standard di valutazione esterno con caratteristiche descritte nell'allegato 4 annesso alla presente legge e che comprende le aree di valutazione identificate nell'allegato 5 annesso alla presente legge;

c) una sezione dedicata alla descrizione dei nuovi obiettivi che la società intende perseguire nell'esercizio successivo.

La parte della relazione maggiormente volta a consentire una vigilanza esterna sull'impatto socialmente utile conseguito da una Società Benefit è rappresentata dalla voce sub b), il c.d. “Benefit Impact Report”.

Queste informazioni, se veritiere, dovrebbero costituire l'oggetto ed il parametro del controllo effettuato sulla conformità dell'operato di una Società Benefit rispetto alle disposizioni statutarie e ai requisiti di legge. Tale impatto dovrà essere descritto e valutato dall’organo amministrativo alla stregua di uno “Standard di Valutazione Esterno” predisposto da un ente munito delle necessarie competenze.

L’intenzione del legislatore di fornire gli elementi sui quali, ed a mezzo dei quali, esercitare un controllo e, al tempo stesso, consentire una limitazione della responsabilità degli amministratori, sembra presentare alcuni limiti ed effetti collaterali. Infatti, il legislatore si è limitato a prevedere in capo agli amministratori l'obbligo di usare, nella predisposizione della relazione annuale, standard e criteri valutativi predisposti da un qualsiasi (non uno in particolare) ente terzo; quest’ultimo è, quindi, chiamato esclusivamente a formulare degli standard di valutazione di cui le singole Società Benefit si avvarranno per descrivere la propria attività sotto il profilo dell’“impatto generato” in termini di benefici socio-ambientali.

In tal modo, il legislatore ha regolarizzato solo a grandi linee un meccanismo di autocertificazione, effettuata dal medesimo soggetto il cui operato viene sottoposto a verifica. Oltre ai problemi sull’effettiva terzietà ed oggettività dell'autocertificazione, si potrebbero riscontrare dei problemi di natura prettamente tecnica, non essendo circostanza scontata la detenzione da parte dell’organo gestorio delle competenze e delle conoscenze adeguate per applicare correttamente i summenzionati standard di valutazione.

 

Parte II