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Airbnb tax: una tassa contro tutti

Airbnb tax: una tassa contro tutti
Airbnb tax: una tassa contro tutti

Di Alessia Sbroiavacca

 

1. Introduzione

A quasi un anno dalla sua entrata in vigore è tempo di bilanci per la cd. “Airbnb tax”. La tassa venne introdotta dall’articolo 4 della “Manovrina 2017”[1], rubricato “Regime fiscale delle locazioni brevi” e fu così rinominata in quanto suscettibile di applicazione principalmente nei confronti di piattaforme di intermediazione online quali Airbnb, oltre che ad altri intermediari immobiliari off-line.

Trattasi di un intervento deciso dal legislatore fiscale al precipuo fine di limitare e disincentivare il fenomeno dell’evasione fiscale nel settore degli affitti di breve durata ove, in precedenza, l’assoggettamento a tassazione dei canoni percepiti dal locatore era essenzialmente rimesso alla buona condotta di quest’ultimo, il quale doveva indicarli in dichiarazione e autoliquidare l’imposta dovuta.

Con la normativa in commento, invece, sono stati introdotti specifici obblighi in capo agli intermediari immobiliari, che siano i “classici” intermediari quali le agenzie immobiliari ovvero piattaforme online ove si incontrano domanda ed offerta di immobili (quali, per esempio, Airbnb, ma non solo). Al ricorrere di talune condizioni, infatti, questi assumono un ruolo decisivo nella tassazione dei proventi immobiliari, essendo onerati dell’obbligo di comunicazione dei dati contrattuali all’Amministrazione Finanziaria e di effettuazione, versamento e certificazione di una ritenuta pari al 21% sui canoni corrisposti dal conduttore al locatore, qualora intervengano nel pagamento degli stessi.

Come si vedrà, la novella legislativa, pur perseguendo il meritevole obiettivo di contenere l’evasione fiscale nel settore delle locazioni brevi, di fatto genera molteplici effetti collaterali indesiderati, tra cui scoraggiare lo sviluppo dell’economia digitale - in aperto contrasto con le recenti raccomandazioni dell’Unione Europea - prevenire l’innovazione, incentivare le transazioni in contanti per sfuggire agli obblighi impositivi così rischiando non già di limitare, bensì di amplificare, l’evasione fiscale.

Tali eventualità sono diretta conseguenza delle concrete modalità di implementazione dei nuovi adempimenti a carico degli intermediari: con l’articolo 4 in commento alcuni intermediari immobiliari (anche non residenti!) sono stati investiti di obblighi il cui adempimento spesso richiede di acquisire ed elaborare dati di cui non necessariamente l’intermediario può essere in possesso in tempo reale (per esempio, i dati contrattuali e il monitoraggio degli adempimenti per effettuare la ritenuta).

Per giunta la normativa presuppone competenze tributarie specifiche ovvero dotazioni strumentali informatiche in grado di gestire la mole di dati da acquisire ed elaborare i dati di cui sopra e tale ultimo problema è particolarmente rilevante per le piccole e medie imprese e le startup che possono essere interessate ad affacciarsi sul mercato delle locazioni brevi.

 

2. L’ambito di applicazione dell’articolo 4, D.L. 50/2017: i contratti di locazione breve stipulati tra persone fisiche “al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa”

Il peculiare regime fiscale introdotto con l’articolo 4, D.L. 50/2017 si applica ai soli proventi immobiliari derivanti da talune locazioni brevi, definite dalla novella legislativa come quei “contratti di locazione di immobili ad uso abitativo aventi durata non superiore a 30 giorni, ivi inclusi quelli che prevedono la prestazione di servizi accessori di fornitura di biancheria e di pulizia dei locali, stipulati da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa” (cfr. articolo  4, comma 1).

A un attento osservatore non sfuggirà che già sotto il profilo dell’ambito oggettivo di applicazione della norma de qua le prescrizioni di legge siano altamente imprecise, tant’è che il successivo comma 3-bis, introdotto in sede di conversione del D.L. 50/2017, ha previsto la possibilità che il Mef proceda, con proprio decreto, a stabilire i criteri in base ai quali l’attività di locazione si presuma svolta in forma imprenditoriale.

In base alla lettera di legge, il Mef avrebbe dovuto tenere conto, nella presunzione di svolgimento dell’attività di locazione in forma imprenditoriale, di taluni parametri quali, a titolo esemplificativo, il numero delle unità immobiliari locate e la durata delle locazioni. A oggi, tuttavia, non risulta che il Mef abbia esercitato questa facoltà (e i termini sono ampiamente decorsi…) e, di conseguenza, sul punto i profili di incertezza risultano elevati.

La questione è particolarmente rilevante e delicata, in quanto lo svolgimento dell’attività di locazione in forma imprenditoriale o meno definisce il perimetro di applicabilità della disposizione in commento e influisce sugli obblighi (di comunicazione e conservazione dei dati, nonché di effettuazione e certificazione della ritenuta) posti a carico degli intermediari immobiliari.

È evidente che in mancanza di un puntuale chiarimento spetti a questi ultimi, in base a una valutazione da effettuarsi caso per caso, decidere se locatore e conduttore operino al di fuori dell’attività di impresa o meno, per esempio verificando se l’attività di locazione sia organizzata o meno in forma d’impresa ovvero se si tratti di attività commerciale non esercitata abitualmente (in questo caso, i proventi costituirebbero redditi diversi ex articolo 67, comma 1, lett. i, Tuir). Andando sul pratico, gli intermediari potrebbero confrontarsi con quesiti dalla risposta incerta, ovvero: la locazione di quante unità immobiliari - e attraverso quali supporti e/o strumenti - diventa esercizio di attività commerciale? Come influisce il periodo di locazione su questa valutazione? Si possono trarre conclusioni diverse se un soggetto loca 10 immobili per due notti ciascuno ovvero 1 immobile per 20 notti?

Appare quanto più illogico che un giudizio di questo tipo sia rimesso agli intermediari immobiliari, i quali non sono tenuti a sapersi destreggiare tra le norme, civili e fiscali, che si occupano di questo tema e (soprattutto) le relative interpretazioni. Si tratta, in sostanza, di valutazioni connotate da un alto tecnicismo giuridico - ed è indubbio che né gli agenti immobiliari né le piattaforme online siano dotate della necessaria competenza. Non solo, si tratta altresì di valutazioni che dovrebbero essere effettuate frequentemente, non apparendo sufficiente, per la piattaforma, “etichettare” un locatore quale “non imprenditore” in occasione della prima locazione in corso d’anno, ben potendo egli, in un momento successivo, mutare la sua qualifica.

Avuto specifico riguardo alle piattaforme online, si potrebbe sostenere che queste, operando nel settore della cd. “sharing economy”, non verrebbero mai in contatto con soggetti che effettuano locazioni nell’ambito dell’esercizio dell’attività d’impresa - tratto distintivo della peer-to-peer economy consiste infatti precipuamente nell’intersecare domanda e offerta di beni e/o servizi, attraverso portali online, ceduti e/o prestati da soggetti “privati” ad altrettanti soggetti dalla medesima qualifica (cioè prestazioni tra soggetti “pari”). In realtà, una presunzione di questo tipo non sarebbe corretta, in quanto beni e servizi sono spesso offerti online da soggetti che si auto qualificano quali “privati” pur non essendolo. Tale criticità è ben nota, tant’è che questo è un tema su cui si sta discutendo a livello europeo nella prospettiva della tutela dei consumatori che sono indotti a ritenere di concludere contratti con soggetti privati quando, invece, questi ultimi sono professionisti.

Più in generale, però, sfugge la ratio della scelta di applicare il nuovo regime ai soli soggetti che agiscono in forma “non imprenditoriale”. La cedolare secca per le locazioni brevi, applicabile a persone fisiche che non svolgano attività di impresa, venne introdotta dal 2011, mentre per le altre gli immobili concorrono a produrre, a vario titolo, reddito d’impresa. Il problema dell’Amministrazione fiscale è semmai quello di distinguere chi fa effettivamente locazione da chi svolge attività diverse di natura, esse sì, imprenditoriale: ma tale compito non può essere rimesso a soggetti esterni all’Amministrazione stessa. Per di più, la c.d. Airbnb Tax pone in capo alle piattaforme intermediarie nuovi oneri decisamente sproporzionati rispetto al risultato atteso: lo sono a tal punto da risultare controproducenti. Infatti, lo strumento principe di cui l’Amministrazione dispone per effettuare le eventuali verifiche è la tracciabilità dei pagamenti. Ma, come vedremo, la disciplina in oggetto ha il paradossale effetto di disincentivarla.

 

3. Sugli obblighi posti a carico degli intermediari immobiliari, sia off-line che on-line

I successivi commi 4 e 5 dell’articolo 4, D.L. 50/2017 si occupano di definire gli obblighi di comunicazione e di effettuazione della ritenuta e di inquadrare i soggetti su cui gravano, cioè gli intermediari immobiliari (piattaforme online comprese) che intervengono nelle fasi di conclusione degli accordi di locazione e del pagamento del canone.

3.1. Criticità connesse all’obbligo di comunicazione dei dati contrattuali

In base all’articolo 4, comma 4, DL. 50/2017 è previsto che “I soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, nonché quelli che gestiscono portali telematici, mettendo in contatto persone alla ricerca di un immobile con persone che dispongono di unità immobiliari da locare, trasmetto i dati relativi ai contratti…”: si tratta dei dati relativi a nome, cognome e codice fiscale del locatore, nonché la durata del contratto, il corrispettivo lordo e l’indirizzo dell’immobile (cfr. par. 3.1. del Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 12.07.2017).

Sul punto, deve in primo luogo evidenziarsi che, per come è stato delineato il perimetro dei soggetti tenuti all’adempimento in questione, l’obbligo di trasmissione dati appare facilmente eludibile, essendo sufficiente una condotta accorta, per non dire illecita, da parte di locatore e conduttore.

Infatti, la circolare esplicativa chiarisce che sono tenuti a comunicare i dati contrattuali esclusivamente quei soggetti che intervengono direttamente nella fase di perfezionamento dell’accordo, offrendo un supporto professionale (agenti immobiliari “offline”) ovvero tecnico-informatico (piattaforme online); viceversa, restano esclusi dall’obbligo coloro che non partecipano attivamente a questa fase.

Potrebbe quindi ben verificarsi la seguente circostanza: il locatore sfrutta opportunistica- mente la visibilità offerta dalla piattaforma online per pubblicizzare il suo annuncio e “piazzarlo” sul mercato, salvo poi riservarsi di concludere l’accordo non tramite la piattaforma, ma direttamente con il conduttore interessato. In questo modo, la piattaforma sarebbe bypassata e, non partecipando alla conclusione dell’accordo, totalmente esonerata da qualsivoglia obbligo di comunicazione.

Analogamente, l’intermediario che ha trasmesso i dati contrattuali relativi un contratto di locazione stipulato per suo tramite è tenuto a rettificarli qualora, in seguito, sia stato esercitato il recesso: ma nulla impedisce che il recesso sia fittizio (e in ogni caso l’intermediario potrebbe non disporre degli strumenti per accertarsene), e ancora una volta l’obbligo di comunicazione dati sarebbe eluso (cfr. anche infra per ulteriori considerazioni sulla simulazione di recesso).

Ciò considerato, stupisce decisamente che il testo normativo (e la successiva interpretazione di prassi) abbia sostanzialmente permesso il verificarsi di tali situazioni, soprattutto se si considera che il fine del regime di tassazione delle locazioni brevi in commento risiede precipuamente nel combattere l’evasione fiscale. Il regime in questione non sembra invece efficace in tale intento, laddove consente tali condotte: è evidente, invero, che per il locatore evasore “cronico” sarà sufficiente concludere il contratto al di fuori della piattaforma, ovvero far finta che ci sia stato un successivo recesso del conduttore, per evitare che l’intermediario trasmetta i dati contrattuali al Fisco, vanificando il dato di legge. Il nuovo regime fiscale introduce insomma un disincentivo all’effettivo utilizzo di piattaforme online e altri strumenti che presuppongono l’effettuazione di pagamenti in formato tracciabile, e come tale non solo non contrasta, ma rischia di favorire l’evasione fiscale.

3.2. La sostituzione d’imposta, l’applicazione e la certificazione della ritenuta: maggiori adempimenti a danno di pochi soggetti con modelli di business virtuosi

Un tratto distintivo della nuova normativa sugli affitti brevi consiste nella previsione che gli intermediari immobiliari operino, al ricorrere di determinate condizioni, in qualità di sostituti d’imposta, trattenendo un ammontare pari al 21% dei canoni e dei corrispettivi pattuiti che dovrà poi essere versato nelle casse erariali (cfr. articolo  4, comma 5, D.L. 50/2017).

L’obbligo di effettuare la ritenuta non è tuttavia posto a carico della generalità degli intermediari, bensì nei confronti dei soli intermediari che intervengono nel pagamento e nella riscossione dei canoni: solo questi ultimi, pertanto, una volta incassato il canone dal conduttore, dovranno accreditarlo al locatore decurtandolo per un importo pari alla ritenuta da effettuarsi.

Se, sotto un certo punto di vista, può apparire logico che solo gli intermediari che intervengono nella fase del pagamento debbano applicare la ritenuta (come potrebbero effettuarla intermediari che non hanno la materiale disponibilità delle somme?), è altresì vero che questo obbligo è foriero di discriminazioni a discapito degli intermediari che offrono assistenza a locatore e conduttore anche sul fronte dei pagamenti, proprio come Airbnb e altre piattaforme analoghe.

Si rammenta, infatti, che secondo il loro modello di business, la piattaforma, oltre a mettere in contatto persone che dispongono di un immobile e intendono locarlo con persone interessate ad affittarlo, interviene anche nella fase del pagamento al fine di tutelare entrambe le parti contrattuali: al momento della prenotazione le piattaforme come Airbnb trattengono le somme che dovranno essere corrisposte dal conduttore al locatore, versandole a quest’ultimo solo al momento del primo pernottamento, cosicché il locatore ha la certezza che il conduttore abbia la disponibilità finanziaria per effettuare il pagamento (tutelandolo dall’eventuale incapacità di pagamento del conduttore) e inoltre quest’ultimo ha la possibilità di recedere dal contratto qualora l’immobile opzionato non presenti le caratteristiche promesse dal locatore nell’annuncio. In pratica, tale modello di business si fonda sulla capacità dell’intermediario di produrre “certezza” e limitare le asimmetrie informative tra le parti, arrivando così a una riduzione dei costi di transazione e rendendo possibili scambi che, altrimenti, non si sarebbero verificati.

Ebbene, la platea dei soggetti su cui grava l’obbligo di effettuazione della ritenuta sembra essere stato circoscritto proprio per penalizzare i soggetti che operano secondo modelli analoghi. Obiettivo che appare doppiamente discutibile se si considera che venne giustificato con la finalità della lotta all’evasione, in un frangente in cui questi soggetti promuovono l’utilizzo di strumenti di pagamento tracciabili e offrono le menzionate garanzie a locatori e conduttori.

Infatti, se da un lato soggetti quali Airbnb saranno obbligati a effettuare la ritenuta sugli importi acquisiti dai conduttori, tutti gli altri intermediari che non intervengono nei pagamenti tra le parti contrattuali sono totalmente estranei a quest’obbligo; pertanto, per i contribuenti che intendono sfuggire a tale prelievo sarà sufficiente affidarsi a intermediari che non intervengono nella fase del pagamento, così vanificando l’intento del legislatore di contrastare l’evasione fiscale in questo settore. A parità di altri elementi, infatti, si viene a determinare un incentivo per individui disonesti a spostarsi verso altre forme di intermediazione, riducendo - anziché aumentando - le informazioni e gli strumenti a disposizione delle amministrazioni fiscali.

Gli ultimi dati resi noti da Airbnb confermano questa tendenza: invero, successivamente all’entrata in vigore del D.L. 50/2017, gli annunci disattivati hanno superato le 10.000 unità (registrando un incremento del 40% rispetto alla media del periodo precedente); parallelamente, anche gli annunci “attivi” sono calati di quasi il 30%.

Risulta assai probabile, e certamente verosimile, il nesso causale tra l’introduzione della novella legislativa e la consistente riduzione degli annunci sul portale online: le preferenze degli utenti si sono spostate verso altri intermediari immobiliari online che non intervengono nella fase del pagamento, forse per sfuggire all’applicazione della ritenuta. La “fuga” di utenti da Airbnb riguarda sicuramente quei locatori che non intendono dichiarare i proventi immobiliari percepiti, ma anche coloro che preferiscono non subire immediatamente la decurtazione del corrispettivo di locazione, posticipando al tempo della dichiarazione il momento in cui saranno incisi dall’onere fiscale.

Il ridimensionamento  del volume di business di Airbnb e simili piattaforme a favore di soggetti con tecnologie e modelli di business alternativi è acclarato e stupisce quindi decisamente che, in occasione del ricorso promosso dalla piattaforma innanzi il Tar Lazio avverso la novella legislativa e il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate di luglio scorso, il Tribunale amministrativo abbia sbrigativamente affermato che “i denunciati effetti distorsivi della concorrenza, derivanti dalla imposizione degli obblighi di versamento della ritenuta in esame, sono, per quanto riguarda il rischio di perdita di clientela a favore di altri concorrenti, meramente eventuali” (Tar Lazio, ord. 18.10.2017). 

 

Al contrario, il danno concorrenziale subito è consistente (ed è stato anche riconosciuto dall’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, cfr. bollettino n. 45 del 27.11.2017) e, per il futuro, è lecito aspettarsi che non vi siano inversioni di tendenza, a meno che Airbnb non snaturi completamente il proprio business model con evidente danno per gli utenti che invece apprezzano le tutele offerte dalla piattaforma. Al di là del danno potenzialmente subito da uno specifico soggetto, la pesante distorsione delle dinamiche concorrenziali attribuibile alla norma in esame deriva proprio dal modo in cui essa altera i comportamenti degli agenti economici: non già prevendo (o impedendo) condotte illecite, ma determinando de facto (e probabilmente in modo in intenzionale) una preferenza per specifiche scelte di tecnologia e organizzazione industriale.

In definitiva, non può sfuggire che il ristretto perimetro di soggetti che sono effettivamente gravati dall’obbligo di effettuare e versare la ritenuta del 21% non sia in grado di eliminare, in radice, l’evasione da dichiarazione dei proventi immobiliari - essendo per i locatori sufficiente dirottare i propri annunci su altre piattaforme, circostanza che si sta molto probabilmente verificando - e, inoltre, comporti una evidente disparità di trattamento tra piattaforme “virtuose” e “non virtuose” (intendendo con tale termine quelle che gestiscono i pagamenti in forma elettronica e, dunque, tracciabile), essendo le prime gravate di maggiori oneri amministrativi e gestionali per far fronte all’adempimento degli obblighi di legge. Cosa peraltro doppiamente paradossale, se si considerano i numerosi provvedimenti adottati nel corso degli ultimi anni con lo scopo di sostenere la digitalizzazione dei pagamenti.

In ciò, risulta evidente che la normativa in commento finisca, indirettamente, per discriminare tra i soggetti operanti nel mercato degli affitti brevi, avvantaggiando gli intermediari che non intervengono nel pagamento dei corrispettivi e addossando ai rimanenti consistenti oneri e rischi che non sono connessi al core business.

Peraltro, che la normativa, per come è stata strutturata, sia inidonea a raggiungere gli scopi prefissati risulta anche da altre considerazioni, che si possono sviluppare a seguito dei chiarimenti offerti dall’Agenzia delle Entrate nella circolare esplicativa n. 24/2017.

Infatti i contribuenti che volessero sottrarsi dal sopportare la ritenuta ben potrebbero, oltre che rivolgersi a intermediari offline e piattaforme che non intervengono al momento del pagamento, anche semplicemente simulare l’avvenuto recesso dal contratto di locazione e, successivamente, stipulare privatamente un nuovo accordo di locazione. In questa ipotesi cadrebbe infatti l’obbligo, per l’intermediario, di effettuazione e certificazione della ritenuta (analogamente a quanto accade per l’obbligo di comunicazione dei dati contrattuali). È pur vero che la novella disciplina si applica anche a contratti stipulati direttamente tra locatore e conduttore, cioè anche quando il contratto di locazione non sia concluso tramite un intermediario (cfr. articolo 4, comma 1, D.L. 50/2017), ma, si permetta, appare assai arduo credere che questa previsione troverà effettiva applicazione in assenza di un soggetto terzo, quale un intermediario, che interviene nella conclusione del contratto e nel pagamento: i contribuenti che non vogliono soggiacere ai nuovi obblighi saranno in grado di farlo, comunicando dati ribassati - non essendovi nessun controllo in merito - ovvero non comunicando alcunché.

 

3.3. Gli intermediari immobiliari non residenti

Infine, non possono sottacersi le criticità insite nella previsione legislativa in base alla quale anche gli intermediari non residenti devono adoperarsi per adempiere agli obblighi di comunicazione ed effettuazione della ritenuta avuto riguardo ai contratti di locazione conclusi per loro tramite in Italia (cfr. articolo 4, comma 5-bis, D.L. 50/2017).

Le criticità giustappunto rilevate avuto riguardo agli intermediari immobiliari residenti si fanno ancor più pressanti per gli intermediari immobiliari non residenti nel territorio italiano, in particolar modo per quanto concerne l’identificazione dei contratti i cui dati devono essere comunicati e, quindi, il giudizio circa l’eventualità che conduttori e locatori operino al di fuori dell’esercizio dell’attività d’impresa o meno - valutazione che si appresta ancor più complessa per soggetti senza competenze giuridiche specifiche e non habitué del diritto tributario italiano. E, naturalmente, anche questi soggetti dovranno dotarsi di un apparato amministrativo informatizzato per gestire la mole di dati da comunicare e gli adempimenti previsti per effettuare la ritenuta - anche in questo caso, oneri non direttamente connessi al proprio business.

Inoltre, dal punto di vista strettamente operativo, ulteriori oneri gravano sugli intermediari immobiliari non residenti: ai sensi del comma 5-bis dell’articolo in commento, infatti, questi dovranno adempiere agli obblighi ivi previsti tramite la propria stabile organizzazione ovvero, ove privi, nominare un rappresentante fiscale. In particolare, suscita perplessità tale ultimo onere, quando la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata nel senso che un siffatto obbligo a carico di soggetti non residenti è censurabile per violazione, tra gli altri, dell’articolo 56 Tfue a mente del quale sono vietate le restrizioni alla libera prestazione di servizi (cfr. cause C-522/04e C-678/11). Infatti, è evidente l’intento di una simile misura di incrementare surrettiziamente i costi per gli operatori non residenti, rendendo quasi necessaria la creazione di una stabile organizzazione nel Paese e aggirando pertanto uno dei principi fondativi dell’Unione europea. Non è escluso, pertanto, che la disciplina in esame possa rivelarsi incompatibile con diritto Ue.

Anche tale evidente circostanza, portata all’attenzione del Tar Lazio, è stata tuttavia frettolosamente svalutata dal Tribunale amministrativo adito sulla scorta del fatto che “le decisioni della Corte di Giustizia Europea non appaiono sic et simpliciter sovrapponibili alla fattispecie in esame, riguardando tra l’altro fattispecie relative al settore assicurativo”, rinviando l’esame della censura sollevata da Airbnb in occasione dell’udienza di merito (purtroppo fissata appena per ottobre 2018). La stringata “motivazione” del Tar Lazio è tuttavia difficilmente comprensibile, in quanto la fattispecie de quo e quella relativa, in particolare, alla causa C-678/11 presentano evidenti similitudini e la decisione della Corte di Giustizia non è stata minimamente influenzata dal settore specifico di operatività dei soggetti coinvolti dall’obbligo di nomina di un rappresentate fiscale (tanto più che anche la causa in questione concerne settori contigui, riguardando le prestazioni professionali dei fondi pensione e delle compagnie di assicurazione…), quanto proprio sulla discriminazione tra soggetti residenti e non residenti, questi ultimi gravati di maggiori oneri connessi a un adempimento che viola l’articolo 56, Tfue.

Nel caso citato, la Commissione Europea aveva proposto innanzi la Corte di Giustizia ricorso per inadempimento ex articolo 258 Tfue contro la Spagna, avendo quest’ultima introdotto obblighi fiscali in contrasto con l’articolo 56 Tfue (divieto restrizioni libera prestazione servizi): si trattava, nel dettaglio, dell’obbligo a carico dei fondi pensione e delle compagnie di assicurazione stabiliti in altri Stati membri ma che intendevano prestare i propri servizi nel territorio spagnolo di dotarsi di un rappresentante fiscale che ottemperasse agli obblighi di informazione all’Amministrazione finanziaria e di effettuazione e versamento della ritenuta sui redditi di capitale corrisposti a persone fisiche residenti in Spagna (si noti, proprio i medesimi obblighi previsti dalla novella italiana del 2017 e corrispondenti alle medesime finalità, cioè la lotta all’evasione fiscale). Ebbene, nonostante la Corte di Giustizia abbia rilevato che lo strumento del rappresentante fiscale possa essere idoneo a garantire l’efficacia della riscossione delle imposte (cfr. par. 47), essa ha altresì censurato l’obbligo di nomina del rappresentante fiscale, ritenendo che gli adempimenti informativi e tributari possano essere adempiuti attraverso strumenti meno lesivi dell’articolo 56, Tfue (cfr. par. 56).

 

4. Osservazioni conclusive

In conclusione a quanto osservato, sembra che la novella disciplina fiscale degli affitti brevi, pur se promossa nell’ambito dell’intento di ridurre il fenomeno evasivo in questo settore, di fatto abbia comportato notevoli effetti collaterali indesiderati e non appaia in grado di raggiungere l’obiettivo per cui è stata delineata. Anzi, essa sembra piuttosto incentivare condotte che finiranno per favorire l’evasione fiscale, scoraggiando il ricorso a piattaforme di intermediazione che intervengono nella fase del pagamento e spingendo quest’ultimo da forme tracciabili al contante. Non solo la Airbnb Tax appare inefficace rispetto alla sua presunta ragion d’essere: essa si configura come un chiaro strumento “anti-digitale”, e dunque “anti-innovazione”. Una scelta, insomma, del tutto incoerente con le ripetute dichiarazioni e i variegati interventi finalizzati a promuovere l’economia digitale e l’innovazione.

La disciplina fiscale degli affitti brevi appare, in questo senso, gravemente lacunosa: essa è difficilmente attuabile, contiene rilevanti incertezze circa l’ambito oggettivo di applicazione, rischia di essere controproducente e favorire l’evasione fiscale, presenta profili di incoerenza col diritto europeo sia in relazione alla disciplina di settore sia per quanto attiene la libera circolazione dei servizi nel territorio dell’Unione. Inoltre, data l’onerosità dei compiti che attribuisce agli intermediari, essa sembra introdurre nuove e ulteriori barriere all’ingresso sul mercato, con potenziali conseguenze anti-concorrenziali.

 

[1] D.L. 24 aprile 2017, n. 50.