x

x

La pericolosa battaglia della Ue contro le “fake news”

La pericolosa battaglia della Ue contro le “fake news”
La pericolosa battaglia della Ue contro le “fake news”

Di Luca Susic

 

I recenti scandali che hanno coinvolto Facebook/Cambridge Analytica, nonché le pressanti accuse alla Russia di aver interferito nelle elezioni statunitensi e di alcuni paesi europei, hanno convinto la Commissione Europea della necessità di adottare quanto prima una serie di contromisure.

A tale scopo è stato creato l’HLEG, il gruppo di 39 esperti scelti dalla UE per sviluppare delle linee guida in materia di contrasto alla disinformazione, che nel marzo di quest’anno ha pubblicato un documento programmatico dal titolo “Un approccio multidimensionale alla disinformazione”.

Il testo, suddiviso il 5 capitoli e 1 allegato, costituisce il tentativo di questo gruppo di esperti di elaborare al meglio delle soluzioni in grado di limitare il fenomeno della disinformazione. All’interno del IV capitolo intitolato “risposte ed azioni” vengono esplicitati i cinque ambiti su cui l’HLEG reputa che si debba concentrare la risposta europea:

Trasparenza: le piattaforme devono fare di più per aiutare i lettori ad identificare i contenuti sponsorizzati durante le campagne politiche, nonché per evidenziare chi siano i produttori delle informazioni. Viene richiesta, inoltre, l’introduzione di maggiori accortezze per segnalare se un messaggio sia amplificato artificiosamente grazie all’uso di bots o di utenti pagati a tale scopo. In aggiunta a ciò, i media dovrebbero dotarsi delle capacità di rispondere ad eventuali “reclami” dei lettori e di rettificare tempestivamente gli articoli o servizi contenenti informazioni non corrette. L’obiettivo finale, quindi, dovrebbe essere quello di mettere i “clienti” nelle condizioni di sapere tutto sull’origine delle informazioni che stanno consultando. Più delicata, invece, pare essere la proposta di fornire i dati online ai cosiddetti “fact-checkers” per aiutarli ad identificare gli “attori della disinformazione” e agli investitori pubblicitari per renderli in grado di valutare meglio chi si apprestano a sponsorizzare.

Alfabetismo mediatico e delle informazioni: questa tematica andrebbe introdotta non solo nei curricula scolastici, ma anche in quelli degli insegnanti. Onde evitare un’eccessiva frammentazione e differenziazione dei programmi nei vari stati europei, la UE dovrebbe essere chiamata ad occuparsi di tracciare delle linee guida comuni a tutti i membri.

Legittimazione di utenti e giornalisti: allo scopo di incrementare il controllo degli utenti sulle informazioni di cui entrano in possesso, dovrebbero essere sviluppati dei filtri in grado di agire sui contenuti mostrati. Contestualmente, ai giornalisti dovrebbe essere forniti degli “strumenti professionali ed automatici per la verifica dei contenuti”, nonché proposti dei corsi di formazione per individuare tempestivamente le notizie manipolate. Infine, viene ritenuto fondamentale finanziare dei “team di verifica” multidisciplinari con il compito di contrastare la disinformazione.

Diversità e sostenibilità dell’ecosistema dei media: considerando gli investimenti del Dipartimento di Stato Americano per contrastare “gli sforzi stranieri per intromettersi nelle elezioni o seminare sfiducia nella democrazia”, anche l’Europa dovrebbe stanziare ingenti contributi a favore dei media per formare i giornalisti, rafforzare i fact-checkers e supportare la ricerca nel campo. L’obiettivo, in questo caso, sarebbe quello di aumentare la qualità del prodotto, ma garantire anche la sopravvivenza di stampa e televisioni, nonché l’adozione di nuove tecnologie e software anche in questo campo.

Processo e valutazione: considerata la difficoltà di normare un tema così complesso, sia per la velocità con cui muta la situazione, sia a causa delle implicazioni in tema di diritti fondamentali, la soluzione migliore potrebbe essere quella di puntare sulla collaborazione fra diversi stakeholders e di demandare a loro la scrittura di misure di “self-regulation”. In particolare, viene ribadito che i social network rivestono un’importanza capitale nel plasmare, scientemente o meno, l’opinione pubblica, che spesso si affida ai loro algoritmi di scelta per informarsi. Alla luce di ciò, onde evitare di incorrere nella censura, non solo va riconosciuta l’importanza rivestita dai media tradizionali nella correzione delle informazioni errate, ma deve essere supportata la creazione di una “coalizione” che unisca tutte le categorie direttamente o indirettamente coinvolte nel fact-checking. Infine, per quanto riguarda questo settore viene proposta l’adozione di un piano in dieci punti, tra i quali spiccano quello relativo al controllo dei flussi di denari destinati o provenienti dalla disinformazione e quello concernente la collaborazione tra ricercatori/factchekers e social network, che dovranno fornire ai primi le informazioni utili alle loro attività.

Quanto sopra, quindi, non è stato solo recepito, ma anche rilanciato dalla Commissione Europea tanto che Sir Julian King (Commissario per la Sicurezza dell’Unione) ha dichiarato che: “la trasformazione in armi delle fake news online e della disinformazione pone una seria minaccia alla sicurezza delle nostre società […] Le piattaforme internet devono giocare un ruolo vitale nel contrastare l’abuso delle loro strutture da parte di attori ostili”. Non stupisce, perciò, che Bruxelles sia pronta a lanciare un pacchetto di misure per “contrastare l’informazione online”. Stando a quanto reso pubblico sino ad ora, questo dovrebbe comporsi di 8 punti:

  • Un codice deontologico sulla disinformazione: entro luglio le piattaforme online saranno chiamate ad adottarne uno allo scopo di
  • Fare trasparenza sui contenuti sponsorizzati, soprattutto quelli politici, per i quali sarà ridotta la possibilità di targeting;
  • Fare chiarezza sugli algoritmi [probabilmente quelli relativi alla comparsa delle informazioni] e permettere una verifica terza;
  • Rendere più facile agli utenti accedere a punti di vista alternativi;
  • Introdurre misure per chiudere gli account fake e contrastare i bot
  • Permettere a fact-checkers, ricercatori e pubbliche autorità di monitorare costantemente la disinformazione.
  • Un network europeo indipendente di fact-checkers con il compito di stabilire dei parametri comuni e occuparsi di coprire la più ampia fetta possibile di notizie;
  • Una piattaforma online europea sicura sulla disinformazione per supportare il network di fact-checker e ricercatori con una collezione di dati e analisi comunitari;
  • Supporto all’alfabetismo mediatico, con lo scopo di aiutare gli europei ad identificare la disinformazione online. Contestualmente fact-checker e organizzazioni della società civile saranno chiamate a fornire materiale educativo alle scuole;
  • Supporto agli stati membri per garantire la resistenza contro le minacce cyber durante le elezioni;
  • Promozione di sistemi identificativi online volontari per migliorare la tracciabilità e l’identificazione dei “fornitori di informazioni”;
  • Supporto per un’informazione diversificata e di qualità: la Commissione invita gli stati membri ad aumentare il proprio supporto al giornalismo di qualità;
  • Una politica coordinata di comunicazione strategica che combini le iniziative attuali e future in materia di contrasto alle “false narrative sull’Europa”.

La strategia europea sulla disinformazione, comunque, non dovrebbe rimanere limitata alla carta, ma stando a quanto dichiarato sinora è possibile diventi operativa a partire dall’autunno 2018.

Quest’accelerazione verso una normativa stringente in tema di fake news e media, comunque, anche se ufficialmente va a riempire un vuoto legislativo, sembra in realtà essere direttamente collegata alla diffusa paura che la Russia sia in grado di manipolare l’opinione pubblica continentale grazie alle sue emittenti televisive, radio e agenzie di stampa. Come riporta il Washington Post, ad esempio, la East Stratcom Task Force (il gruppo creato da Bruxelles per contrastare la “disinformazione russa”) ha individuato circa 3800 articoli “ostili” prodotti dal Cremlino.

Il problema, però, è che all’interno di questa “hall of shame” sono stati inseriti anche 3 quotidiani olandesi che avevano semplicemente riportato delle opinioni sull’Ucraina contrarie a quelle considerate accettabili dall’Unione Europea, nonché gli italiani TG5 e Linkiesta.

Nonostante questi “incidenti di percorso”, comunque l’East Stratcom Task Force continua ad incontrare il favore della Commissione, tanto che ha ottenuto un ulteriore incremento dei fondi erogati per 1,5 milioni di euro.

 

Valutazioni e rischi

Alla luce di quanto sopra è possibile fare alcune considerazioni. La prima è certamente che è possibile attendersi un aumento della pressione della UE sul tema della disinformazione, il che dovrebbe necessariamente spingere gli Stati membri a riflettere sull’opportunità di normare in maniera così dettagliata un settore tanto delicato come quello dei media, che coinvolge direttamente libertà di pensiero, espressione e informazione.

Oltre a ciò, andrebbe anche chiarito meglio il ruolo di fact-checkers (comunitari o privati) che, allo stato attuale delle cose, hanno il potere di decidere cosa è “vero” da cosa, invece, è “propaganda” e che, a quanto si apprende, saranno in grado di ottenere i dati direttamente da social network e motori di ricerca per compiere le proprie valutazioni.

Si tratta di un aspetto di non poco conto se consideriamo che in un prossimo futuro le loro valutazioni potrebbero incidere non solo sulla possibilità dei lettori di accedere a fonti d’informazione presenti nella black list, ma anche sulla stessa capacità dei media di sopravvivere finanziariamente, dato che, almeno nei piani dell’HLEG, le piattaforme dovrebbero mettere in primo piano i siti d’informazione più qualificati. Oltre a ciò, colpisce il fatto che questa strategia europea, palesemente orientata verso la Russia, non consideri invece la propaganda degli altri attori, nostri alleati o competitors, interessati ad influenzare la politica europea, come le Monarchie del Golfo, gli USA e la Cina.

Infine, viene da chiedersi come sia possibile insistere sul giornalismo di qualità quando il settore sta conoscendo una crisi senza precedenti soprattutto in paesi come l’Italia, dove non vi è ricambio generazionale, le testate continuano a chiudere e le retribuzioni restano estremamente basse.