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Antichi e nuovi malesseri del diritto penale

Antichi e nuovi malesseri del diritto penale
Antichi e nuovi malesseri del diritto penale

Premessa 

Uno spettro si aggira nel dibattito giuridico penalistico.

Non quello cui pensavano Marx e Engels.

Molto più vago e impalpabile del manifesto comunista, senza una forma definita, fatto di pensieri e strappi individuali piuttosto che riflessioni e sintesi collettive, pone domande più che risposte.

Difficile perfino trovare un’espressione che lo definisca con chiarezza, facendone comprendere immediatamente la natura.

Evocato da tutti coloro che, per le ragioni più disparate, considerano il diritto penale della contemporaneità uno strumento inadeguato al nostro tempo e all’uomo di questo tempo.

La comunanza finisce qui.

Perché poi l’insoddisfazione viene teorizzata e declinata secondo gradi di intensità e sulla base di argomenti assai differenziati.

Si manifesta anzitutto una posizione di radicale rifiuto[1].

È quella di chi pensa che il diritto penale che conosciamo sia un relitto della storia in quanto fondato su un’idea di mondo e di uomo non più vera, ammesso che sia mai stata tale.

Il postulato giustificativo sta nell’insensatezza – si perdoni il bisticcio – di uno stantio senso comune come criterio guida della norma e della sua interpretazione.

La conseguenza è l’illegittimità etica della pretesa punitiva statuale che si configura come mero strumento di violenza (tanto più grave in quanto praticata da un potere pubblico) e di rappresaglia dell’uomo sull’uomo.

Un corollario tutt’altro che secondario è l’opportunità, se non addirittura l’indispensabilità, di una definitiva rinuncia al diritto penale e allo stesso concetto di colpa sanzionabile.

Esistono altre posizioni critiche che tuttavia, a differenza di quella precedente, non si spingono al punto di negare la necessità/possibilità di un apparato normativo punitivo.

Esse condividono la convinzione che il diritto penale viva una fase di fibrillazione e ripiegamento.

Giustificano però questa opinione in modo differenziato.

Una corrente di pensiero punta il dito contro la crescente penetrazione, soprattutto a livello normativo ma senza escludere l’estensione in ambito giurisdizionale, di tendenze populiste[2].

Il meccanismo di base è descritto più o meno così: la politica, assimilandosi improvvidamente alle logiche del marketing commerciale, non si fa più guidare dai bisogni reali degli esseri umani ma li crea essa stessa, convinta in tal modo di aggregare più facilmente il consenso di larghe fasce dell’elettorato; sceglie gli obiettivi considerati più idonei a fare presa e tra questi, per primo, l’induzione della paura e dell’insicurezza; realizzata questa precondizione, il passo successivo è la crescente caratterizzazione del diritto penale come strumento spogliato di qualsiasi funzione rieducativa e animato per contro da una finalità essenzialmente repressiva e punitiva; il suo target è rappresentato dalle tipologie umane che meglio si prestano ad incarnare il “nemico”; per primi gli immigrati, dovunque la preda più facile e scontata; a seguire, tutti gli altri ai quali sia possibile e proficuo, secondo la sensibilità dei tempi e le suggestioni più redditizie in termini di consenso, associare profili di divergenza dall’uomo comune; beninteso, più è accentuata la tendenza populista, più crescono le categorie nel mirino, fino ad comprendere, almeno come obiettivo tendenziale, chiunque si discosti dal pensiero corrente e dai cosiddetti valori popolari.

Un’altra corrente guarda invece con attenzione all’ambito giudiziario e al modo in cui i giudici esercitano la loro essenziale funzione, quella dell’applicazione delle norme ai fatti della vita e dell’attività interpretativa che necessariamente accompagna l’individuazione della giusta regola per il caso concreto.

Si stigmatizza in questo caso una vistosa tendenza all’interpretazione libera e creativa che i giudici usano per affrancarsi dalla soggezione alla legge e farsi essi stessi legislatori.

Si usano, per descrivere efficacemente il fenomeno, espressioni come abuso del diritto e giurisprudenza creativa[3].

Si afferma che prassi del genere ledono o mettono a rischio il principio “nucleare” della separazione tra i poteri fondamentali dello Stato e dell’indispensabile equilibrio tra questi, così ponendo le basi per una forma di Stato diversa da quella immaginata dal legislatore costituente.

Si aggiunge che il fenomeno in esame si manifesta più frequentemente e con maggiore intensità nel campo dei diritti essenziali e delle libertà fondamentali.

Per alcune essenziali ragioni: l’incapacità cronica del legislatore di comprendere e regolare la complessità della società contemporanea e dei suoi bisogni; la  conseguente necessità di un intervento giudiziale sostitutivo, sia perché è sul giudice che fisiologicamente si riversa la domanda di riconoscimento e tutela di interessi non ancora regolamentati, sia perché nessun ordinamento ammette vuoti di potere; infine, la propensione della giurisdizione ad appropriarsi di temi ad alto valore simbolico per meglio definire la sua impronta identitaria e marcare il territorio di sua spettanza.

Queste allora le posizioni di maggiore spicco e capacità suggestiva che possono essere considerate, a buona ragione, come termini necessari di qualsiasi discussione si voglia intraprendere sull’asserita crisi del diritto penale.

Non si devono infine trascurare alcune proposizioni aggiuntive, imprescindibili se si vogliono comprendere fino in fondo gli esatti contorni del dibattito, in parte già in corso, in parte ancora da sviluppare, sullo spettro di cui si diceva all’inizio.

Il rapporto tra giudizio e verità, anzitutto.

Se, prima di ogni altra cosa, esistano un’unica verità o tante, alternative tra loro.

Se abbia senso la ricerca di quell’unica verità, ammesso che esista, o il giudizio si debba invece limitare a individuare la verità che, tra le altre, meglio concilia gli interessi, spesso contrastanti, che cercano tutela nella risposta giudiziaria.

Quali siano i criteri cui è subordinata quella conciliazione e se vi sia compreso anche il rischio dell’ingiusto sacrificio di chi subisce la pretesa punitiva.

Il rapporto tra giudizio e etica.

Se il giudizio in se stesso sia un fatto espressivo di qualche etica oppure no.

Se per suo tramite si debba assicurare la concreta realizzazione di una visione etica oppure no.

Quale sia, in caso positivo, l’etica del giudizio, dei suoi fini e dei suoi risultati.

Che spazio riconoscere a chi non la condivide.

Il rapporto tra giudizio e scienza.

Se siano mondi separati e autonomi o debbano fondersi in quanto incapaci di reggere l’uno senza l’altro.

E, subito dopo, cosa sia la scienza, se sia capace o no di offrire nuovi significati e contenuti al giudizio e ai saperi di cui deve alimentarsi, se sia una prospettiva che può ovviare all’asserita perdita di senso delle categorie tradizionali della scienza penalistica.

Come, in caso di risposta positiva a queste domande, il giudice debba avvalersi della scienza e farle posto nei suoi meccanismi neurali.

Se sia comunque tenuto a rimanere se stesso, uomo che giudica altri uomini con tutto ciò che di buono e cattivo questo incrocio di umanità porta con sé, oppure debba assecondare la propria trasformazione in qualcosa di diverso e non ancora definibile.

Sono questi i temi che si agitano quando si vuole riflettere sull’attualità del diritto penale e immaginare il suo futuro.

Altri se ne potrebbero porre, qui non immaginati ma comunque possibili.

Su tutto questo si vuole riflettere.

Per dare risposte definitive? Assolutamente no.

Impossibili da dare, in parte a causa della natura futuribile delle questioni che vengono in causa, spesso dipendenti dalla variabile sensibilità dei tempi, in parte perché non esistono risposte giuste per definizione.

Ognuno ha il diritto, almeno finora, di immaginare come crede la società in cui vive e le regole necessarie al suo funzionamento.

Il valore imprescindibile per qualcuno può essere una iattura per qualcun altro.

La cosa migliore, allora, è riflettere senza troppa assertività, concedendo comunque la massima libertà al pensiero.

 

Quale diritto penale soffre o muore?

L’assunto di partenza di tutti gli animatori del dibattito è che il diritto penale così com’è non funzioni.

Già. Ma rispetto a cosa non funziona? Qual è il parametro di verifica?

La riflessione che si vuol fare è in se stessa a elevato rischio di arbitrarietà.

Il rischio diverrebbe certezza se la tesi della crisi fosse valutata senza un punto oggettivo di partenza.

In altri termini: la valutazione, anche comparativa, delle correnti di pensiero menzionate nella premessa e della pertinenza delle rispettive argomentazioni è possibile solo se si ammette che la loro pars destruens assuma come riferimento iniziale sempre e soltanto lo stesso diritto penale.

Il riferimento – anche questo va chiarito – non deve essere inteso al diritto penale positivamente stabilizzato nel nostro ordinamento o, meglio, al modo in cui esso è declinato concretamente nella pratica legislativa e giurisprudenziale contemporanea.

In tutte le visioni esposte in premessa, infatti, esso è il problema, non la sua soluzione.

Riguarda piuttosto la concezione penalistica della nostra Carta fondamentale, il modello ideale che il legislatore costituente ha affidato alla società italiana.

Se così non fosse, sarebbe impossibile stabilire la fondatezza delle critiche.

Su quali basi si potrebbe accusare il giudice di interpretare indebitamente la sua funzione e travalicare i suoi limiti se mancasse un modello ideale, condiviso o almeno riconosciuto come esistente e vigente, di esercizio della funzione giurisdizionale?

Come si potrebbe verificare l’eventuale presenza di una pulsione populista se non si accettasse l’idea di un nucleo duro di valori il cui tradimento è già populismo?

E come accostarsi all’idea di un diritto penale morto per consunzione della sua capacità propulsiva se non si fosse certi di cos’era e doveva essere quand’era vivo?

Infine, più vicini al piano terra e tornando al punto di partenza, in che modo affermare la verità o la falsità della crisi del diritto penale se non si sapesse come deve funzionare?

Si può così giustificare l’uso del modello penalistico costituzionale come indiscutibile punto di riferimento, non solo e non tanto per la personale convinzione di chi scrive, ma appunto per la necessità kelseniana di disporre di una Grundnorm di valore assiomatico, in assenza della quale ogni sviluppo logico sarebbe così fragile da risultare inservibile.

Il modello costituzionale e sovranazionale di diritto penale come punto di comparazione

La conclusione – o forse solo la petizione di principio – raggiunta nel precedente paragrafo rende disponibile un parametro unico e certo.

Se il diritto penale dev’essere quello congegnato dalla Costituzione, la sua eventuale crisi si misura in ragione della distanza del modello effettivo da quello ideale e la sua morte potrebbe essere dichiarata solo se quest’ultimo risultasse irreversibilmente irraggiungibile.

L’efficacia di questo criterio richiede tuttavia un’intesa su ciò che la Costituzione chiede o impone al diritto penale.

Essa è un testo e, come tutti i testi, ha una parte implicita tanto essenziale e interessante quanto quella esplicita.

Ognuno può giudicarla secondo prospettive personali, talora legate a cultura e ideologia, altre volte all’influenza trasmessagli dalla lettura[4].

La Costituzione è quindi un progetto incompiuto che acquista compiutezza solo attraverso l’interpretazione[5].

Necessità interpretativa da un lato e soggettività dell’interpretazione dall’altro.

Queste caratteristiche si accompagnano a ciò che la Carta fondamentale è di per se stessa: “luogo espressivo di beni–valori indisponibili e modo con cui la salvaguardia agli stessi può prendere corpo e affermarsi, al massimo grado e nelle forme a ciò considerate le più adeguate, alle condizioni complessive del contesto … ora il fondamento e ora il limite della normazione penale … (rispetto ai quali si pone) l’antico dilemma circa la funzione della Costituzione in rapporto alla legge, il verso e la portata del vincolo discendente dalla legge fondamentale, se meramente negativo ovvero positivo”[6].

Un dilemma che, fisiologicamente, spetta al giudice costituzionale risolvere.

È “l’approccio costituzionale” che stabilisce “gli equilibri e i confini delle scelte di politica criminale, che entro i confini in tal modo fissati restano sostanzialmente rimessi alla discrezionalità del legislatore”[7].

Il concreto atteggiarsi del modello penale ideale trae poi “ulteriore linfa dall’arricchimento garantistico assicurato dalle fonti sovranazionali e dalla giurisprudenza delle Corti europee”[8].

È vero poi che ogni giudice è tenuto a confrontarsi costantemente con la Costituzione e le Carte europee dei diritti.

Chiarissime al riguardo le espressioni, non propriamente elogiative, della Consulta nella notissima sentenza che risolse il conflitto di attribuzione tra la Presidenza della Repubblica e la Procura di Palermo: “È appena il caso di osservare, inoltre, che in tutte le sedi giurisdizionali (e quindi non solo in quella costituzionale) occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa. La Carta fondamentale contiene in sé principi e regole, che non soltanto si impongono sulle altre fonti e condizionano pertanto la legislazione ordinaria - determinandone la illegittimità in caso di contrasto - ma contribuiscono a conformare tale legislazione, mediante il dovere del giudice di attribuire ad ogni singola disposizione normativa il significato più aderente alle norme costituzionali”[9].

Un dovere, quindi.

Ma un dovere affermato dalla Corte, in conseguenza di un suo atto interpretativo e di un significato che essa stessa ha tratto dalla Costituzione.

Senza poi dimenticare le tesi di chi ritiene che “il costituzionalismo odierno esige non solo la disciplinata soggezione del giudice alla legge e alla Costituzione, ma anche una costituzionalizzazione effettiva del terzo potere come potere non unico, separato dal gubernaculum, potere sempre derivato dalla sovranità del popolo, nel cui nome il giudice giudica”[10].

Non serve altro, a questo punto, per giustificare la conclusione, che il modello ideale di diritto penale da assumere come termine comparativo per la riflessione oggetto di questo scritto è quello che le decisioni della Consulta hanno desunto dalla Costituzione, con gli arricchimenti derivati dalla crescente penetrazione di principi e norme sovranazionali nell’ordinamento interno, sia pure attraverso il filtro esercitato dalla stessa Corte Costituzionale.

 

Conseguenze della scelta del modello

La scelta compiuta genera subito i suoi effetti.

L’affermazione della morte del diritto penale non può più essere giustificata osservando in vitro le norme ordinarie che lo sostanziano e il modo in cui sono interpretate e praticate.

Chi voglia intraprendere questo percorso deve accettare un più alto standard dimostrativo e chiarire perché il modello penalistico costituzionale è diventato – o è sempre stato – inidoneo a preservare l’umanesimo che, anche per suo tramite, si intendeva affermare.

Oppure, in alternativa, dimostrare che non è affatto fondato sull’umanesimo, poiché tarato su un’idea di uomo non vera.

Il che, se l’operazione riuscisse, farebbe concludere, accertata la distanza tra il modello ideale e quello reale, che questa sia dovuta non al tradimento e al vilipendio di legislatori e giudici o a una asserita inconoscibilità dell’uomo e dei suoi meccanismi mentali, ma, più semplicemente, a una spinta, tanto autocratica quanto sbagliata, verso un diritto penale che, appunto, non corrisponde all’uomo.

Sicchè, il tradimento – se di questo si tratta – avverrebbe non nella declinazione concreta delle norme penali ma nella pretesa erronea di valutarle criticamente in relazione a un modello ideale improponibile.

La tesi della progressiva e inarrestabile autoreferenzialità dei giudici, in questo caso penali, che vogliono farsi legislatori è tenuta a dimostrare che la loro attività interpretativa abbia superato il livello di guardia, cioè il confine invalicabile tra gli ambiti costituzionalmente assegnati a due poteri.

Non basta: bisogna ancora chiedersi se gli eventuali sconfinamenti siano dovuti a un indebito protagonismo giudiziario o a una parziale cessione di sovranità di un legislatore in affanno che trova conforto e riparo nella delega al giudice di questioni sociali scabrose e non redditizie in termini di consenso; oppure, in alternativa o in aggiunta, se questa delega sia il frutto di una sudditanza ormai consolidata e testimoni quindi la cessazione di fatto della centralità del potere legislativo e di quello esecutivo e il subentro del potere giudiziario come nuovo elemento propulsore del sistema.

E questa verifica dovrà essere condotta tenendo a mente, come ineludibile dato di comparazione, il principio costituzionale di separazione dei poteri e il quantum di flessibilità nel loro equilibrio contingente che il sistema può permettersi senza il rischio di diventare altro da se stesso.

La tesi che afferma l’esistenza di derive populistiche deve a sua volta farsi carico di dimostrare che le norme penali di questi anni stanno tradendo il modello penalistico costituzionale, con la difficoltà aggiuntiva, in questo caso, di confrontarsi con una Carta costituzionale, e con le decisioni che la spiegano a tutti noi, molto propense a dire cosa il diritto penale non può essere ma piuttosto restie a chiarire cosa debba essere.

E deve anche impegnarsi, ove intraveda indizi di populismo nel rapporto tra giudice e norma, a far comprendere se l’interpretazione del giudice sia in se stessa ragione di crisi solo quando si discosti irragionevolmente dalla norma o anche quando l’assecondi ma rinunciando a una funzione ragionevolmente critica.

 

Il diritto penale che muore

Non è facile confrontarsi con questo.

È un pensiero nuovo, totalizzante, addirittura imbarazzante.

Edificato su moti dell’anima più che su ferree catene causali.

Alimentato dall’idea di un uomo inconoscibile a se stesso e agli altri, dunque neanche giudicabile.

Nessuna colpa possibile perché ciò che siamo abituati a chiamare bene e male, giusto e ingiusto, è frutto di meccanismi generati al di fuori della coscienza, per ciò stesso non percepibili, non controllabili, impossibili da prevedere e prevenire.

Nessuna pena possibile, essendo insensato punire comportamenti nati in meandri così oscuri.

Sicchè, la pena che continua a essere concepita, minacciata e inflitta, è nient’altro che tortura, violenza giustificata solo dallo strabismo di chi, detenendo il potere, condanna in altri ciò che non scorge o non accetta in se stesso.

È perfino inutile sottolineare che ognuna di queste proposizioni e il metodo (o l’assenza di metodo) della loro formulazione sono sideralmente distanti dall’universo penalistico che un giurista classico considera così scontato da non doverlo neanche più pensare.

Eppure lo sconcerto non può essere l’unica reazione.

L’insolita meccanica della formazione di un pensiero non deve essere di impedimento poiché “Anche i propri pensieri non è possibile restituirli completamente in parole”[11] e sarebbe presuntuoso negare legittimazione a una tesi sul solo presupposto della sua divergente metodologia espressiva e giustificatrice.

Lo stesso vale per il contenuto.

Se nessuno o pochi hanno concepito e dichiarato un’idea, non è questa una ragione sufficiente per scartarla a priori.

Equivarrebbe a dire che chi concepisce qualcosa mai detto prima ha sempre torto.

Questo sì sarebbe un metodo inammissibile.

E se, ancora, la prima impressione di una tesi fosse quella della sua totale erroneità e dell’impossibilità di trarne alcuna utilità, nemmeno questa sarebbe una valida scusa perché, come suggerì Brecht[12], è ben possibile sedersi dalla parte del torto se gli altri posti sono tutti occupati.

È giusto perciò accettare il confronto, peraltro ulteriormente complicato da una postilla aggiuntiva, apparentemente limitata a un tema specifico ma in realtà di portata ben più ampia, che questa tesi e il suo Autore impongono a chi vi si voglia avvicinare: “Qualcuno obietterà che chi neghi l’utile e il giusto del carcere ha l’onere di provare a indicare le alternative. Dovrebbe essere l’opposto”[13].

Serve allora comprendere il senso generale del pensiero di Santa Maria.

L’idea di partenza ma anche di fondo è che il diritto penale è frutto di una mistificazione lunga quanto è lunga la storia dell’uomo.

Alla radice dell’inganno c’è una relazione tra chi pretende qualcosa (il creditore) e chi deve soddisfare la pretesa (il debitore).

Qualcuno ritiene che qualcosa gli sia dovuto, poco importa qui per quale ragione, e individua in qualcun altro colui che deve dargli ciò che gli manca per tornare in pari.

Una normale relazione giuridica, si direbbe.

Una normalità solo apparente, tuttavia, perché dietro la sua tranquillizzante facciata si annida l’aberrazione.

Il creditore non è indifferente al modo di adempiere l’obbligazione che considera dovutagli. Non gli basta che sia adempiuta, vuole che la sua soddisfazione passi attraverso il sacrificio del debitore, desidera che provi sulla pelle il dolore fisico senza il quale nessun debito può dirsi pagato.

È impossibile spiegare questo impulso, si può solo constatarne l’esistenza e prendere atto così che violenza e sadismo sono parte integrante non di singoli uomini ma di tutti.

La sanzione violenta è preferita ad altre prive di questa caratterizzazione non perchè indispensabile ma in quanto la più congrua al sentimento umano.

Il diritto penale si staglia come un corpus normativo che ha nella violenza (e nella sete di vendetta e rappresaglia che la precedono) la sua radice e la sua cifra identitaria.

Se la violenza è dell’uomo e nell’uomo, ciò non significa che egli sia anche disposto ad ammetterne l’esistenza, tutt’altro.

Permane in lui una sorta di ritrosia a presentarsi a se stesso e agli altri in questo modo brutale.

Nasce da qui, da questo disagio (indefinibile nella sua genesi, al pari della spinta alla violenza, risultando impossibile stabilire se derivi da una sorta di orrore verso gli abissi umani o, ben più prosaicamente, da un’accorta strategia dissimulatrice finalizzata alla raccolta di consenso), la finzione di cui non ci si è mai liberati.

È stata realizzata agendo su due livelli.

Il primo è l’invenzione della colpa come ragione giustificatrice del male che ad essa segue e risponde.

Invenzione pura, se si considera che l’inconoscibilità dell’uomo a se stesso rende impossibile a lui e a chiunque altro comprendere, preventivare e in caso reprimere gli impulsi che lo spingono ad agire o rimanere inerte.

Tanta è l’indispensabilità ingannatrice della colpa, che la si è voluta addirittura configurare come presa d’atto terrena di un precetto divino che esige la distinzione tra bene e male e impone di punire con rigore chiunque non ne tenga conto.

Il secondo è l’uso del linguaggio, di parole che costruiscono concetti e strutture il cui unico scopo è mascherare la violenza e negare che questa e solo questa giustifica la sanzione.

Su un piano collaterale, si manifesta poi un’altra evidente tendenza: il diritto, quello penale più di ogni altro, non nasce per assicurare uguaglianza.

La violenza di cui è figlio e che ne costituisce l’essenza autentica non è distribuita equamente e, a parità di condizioni, non corrisponde parità di trattamento.

In altri termini: al diritto penale è connaturale non solo la mistificazione ma anche la sopraffazione di pochi su molti, del ceto dominante sul resto della comunità.

Fin qui la storia.

Ma una storia che continua nel presente.

L’unico aggiornamento contemporaneo è che la violenza psichica è subentrata a quella fisica e la spettacolarizzazione dell’atto punitivo è realizzata non più nell’agorà fisica ma in quella mediatica.

Data questa trama complessiva, il giudice non ha altro compito che rimanervi invischiato e assecondarla.

Non ha alcuna possibilità di essere un argine contro la violenza pubblica.

Non può neanche concedersi alcuna forma di empatia verso il giudicando/reo, rischiando altrimenti di smarrire le sue coordinate personali e la stessa ragione.

La pena, oggi come in passato, è solo umiliazione di chi la subisce e non le appartiene alcuna funzione rieducativa.

Il carcere, luogo simbolo per eccellenza, è in realtà un non luogo il cui scopo, volontario o inconsapevole che sia, è l’annientamento dei suoi ospiti all’insegna di una radicale negazione dell’umanesimo.

Una colossale mistificazione, che poggia su categorie e presupposti logici indistintamente falsi.

Il mondo, la società, l’uomo assunti come veri dal diritto penale non esistono e non sono mai esistiti.

Il divario tra le idee fisse del diritto e la realtà, già significativo, si allarga progressivamente man mano che i progressi delle neuroscienze ci consegnano la verità di un uomo la cui coscienza perde la centralità che le è stata tradizionalmente associata e degrada a insignificante terminale periferico del cervello che a sua volta è materia e nient’altro.

Concetti come causa, pericolo, imputabilità, volontà colpevole non hanno alcuna capacità descrittiva poiché fondati su presupposti – necessità, volontà e certezza – parimenti illusori.

La necessità del rapporto causale è definitivamente sostituita dalla probabilità statistica che è il suo contrario e la sua negazione.

Questo avvicendamento rende impossibile la certezza.

La colpevolezza, a sua volta, scolorisce parallelamente allo svanire della coscienza come funzione autonoma.

Diventa quindi un non senso affermare la possibilità di una volontà libera, perché uno stimolo generato da un cervello di cui la coscienza è solo un riflesso non è libero e volontario per definizione.

Non esistono rimedi risolutivi a questo dissesto semantico e contenutistico.

La prospettiva meno incerta è comunque quella che conta sull’apporto della scienza per una ridefinizione universale della struttura delle categorie penali e del giudizio.

Non che la scienza sia sicura in se stessa. Anch’essa è un prodotto dell’uomo e porta con sé la variabilità e l’opinabilità connaturali ad ogni cosa umana.

Ma vale comunque la pena di tentare, per suo tramite, almeno alcune delle attività indispensabili per stanare la mistificazione di cui è detto.

In sintonia, ancora una volta, con Brecht per il quale “Scopo della scienza non è tanto quello di aprire una porta all'infinito sapere, quanto quello di porre una barriera all'infinita ignoranza”[14].

La scienza, la buona scienza, può servire al legislatore per mutare radicalmente la sua idea di uomo, al giudice per riconoscere ed evitare le trappole logiche di cui può rimanere vittima, disinnescare i pregiudizi di cui è portatore, alle metodiche del giudizio, non tanto quelle che attengono al nesso causale quanto piuttosto quelle che sovrintendono alla formazione e valutazione della prova, per renderle più conformi ad una nuova sensibilità.

Infine, è ora di recuperare il rapporto diretto, imprescindibile ed esclusivo tra il diritto penale, la sua celebrazione nel giudizio e la verità.

Bisogna riconoscere che la classica distinzione tra verità processuale e verità senza aggettivazioni non ha alcun senso e serve solo a legittimare meccanismi di giustizia sommaria altrimenti impossibili e perpetuare la sopraffazione dei pochi sui molti che il processo è chiamato a ratificare.

È ora di affermare che la verità è una sola e consiste nel “come sono andate le cose”.

Il giudizio non ha altro compito che tendere a quest’unica verità e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, ammesso che abbia qualche utilità e non serva solo a tacitare la coscienza del giudice che la invoca senza sentirsi costretto ad applicarla, deve essere strumentale a questo obiettivo ineludibile.

Questo il sovrabbondante materiale che tocca prendere in considerazione se si accetta il dibattito sulla morte del diritto penale.

 

È vera morte?

Santa Maria consegna al lettore intuizioni rapide, talvolta fulminee.

Prima che pensieri, le sue parole stimolano associazioni per immagini.

Viene in mente il ciclo di dipinti di Goya noti come Los desastres de la guerra: paesaggi scarni, uomini che infieriscono su altri uomini, corpi smunti, espressioni ora feroci ora desolate e, su tutto, un’insensatezza infinita, madre di una violenza inspiegabile e sbagliata.

Oppure parole, non giuridiche ma letterarie.

Come quelle che Bertolt Brecht mette in bocca al signor Keuner, protagonista di una serie di racconti brevi: “Quando il signor Keuner, uomo di pensiero, affermò in una sala davanti a un folto pubblico di essere contrario alla violenza, notò che le persone davanti a lui pian piano si ritiravano e se ne andavano. Si guardò attorno e vide dietro di sé immobile... la Violenza. «Cosa stavi dicendo?» gli domandò la Violenza. «Dicevo di essere favorevole alla violenza», rispose il signor Keuner”[15].

La violenza, quindi.

Il diritto penale viene dalla violenza, è violenza esso stesso.

È l’assunto su cui si regge l’intera costruzione di Santa Maria.

È sostenibile quest’idea, può giustificare da sola una costruzione concettuale così totalitaria?

Un fatto è certo: al diritto penale, ieri come oggi, è connaturale un’elevata dose di violenza.

Il legislatore antico e contemporaneo la assume come fatto scontato e non teme di legittimarla.

La sua intensità varia nei secoli e negli ordinamenti ma la violenza è considerata parte integrante di qualunque apparato normativo penale.

Se ne fa uso nelle proposizioni linguistiche che animano le fattispecie: parole come punizione e pena hanno una palese valenza intimidatoria, anzi sono state create apposta per questo, così che chi le ascolti sappia che preannunciano una violenza e la pongono come conseguenza ineludibile di un comportamento sbagliato.

La violenza è anche nei fatti tipici generati dal diritto penale.

Punizione e pena non esauriscono la loro potenzialità nell’efficacia minacciosa.

Esigono di realizzarsi concretamente sul corpo e sull’anima dei destinatari della minaccia.

Prendono vita per il solo fatto di essere state pensate e create.

Sono applicate perchè ci sono, prima ancora che perché qualcuno si è posto nella condizione di subirle.

È come se la minaccia, e la pena che ne segna il passaggio dalla potenzialità all’effettività, esigessero le loro vittime prima e a prescindere dall’esistenza di un reo.

Questa considerazione non è di certo in linea con l’ordinario sillogismo per cui la pena segue al comportamento riprovevole.

E tuttavia, non sfugge a nessuno che varie fattispecie incriminatrici sembrano create non per tutelare concreti beni giuridici da gravi aggressioni ma per la “necessità politica” di creare e consolidare, a fronte di disagi sociali ora veri ora indotti, un’identità pubblica rassicurante e protettiva.

Si pensi, ad esempio, all’aumento progressivo dei reati di pericolo presunto, di sospetto o quasi sospetto, ma anche all’altrettanto progressivo impoverimento della parte descrittiva delle fattispecie[16].

Tutte le volte che questo avviene, la pena perde ogni funzione retributiva e si trasforma in uno strumento di pura violenza, al servizio di uno scopo altrettanto violento.

Si direbbe allora che Santa Maria abbia ragione, per ora nel senso del riconoscimento di una stretta correlazione tra diritto penale e violenza, quest’ultima intesa non solo nel suo aspetto propriamente retributivo ma anche come modalità privilegiata di comunicazione, propaganda e realizzazione di politiche securitarie.

È già il momento, adesso, del confronto con la seconda asserzione centrale: il diritto è violenza perché violente e sadiche sono le pulsioni degli uomini che creano il diritto.

Un assunto sostenuto su fondamenta storiche, filosofiche e letterarie più che scientifiche.

A voler rimanere in ambito filosofico, c’è chi nega in radice la possibilità di attribuire una precisa e soprattutto predeterminata natura all’uomo.

Come Sartre, per il quale “ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione”[17].

Un destino grigio da cui si può uscire solo scegliendo liberamente il senso del proprio essere visto che non è stato possibile scegliere se essere o non essere.

Sicchè, in definitiva, ognuno è responsabile delle proprie scelte e solo da esse si ricava il significato delle relative azioni.

E c’è anche chi, come Rousseau, si spinge oltre, affermando la natura buona e giusta dell’uomo nella sua fase primigenia.

Non si vuole proporre un dibattito filosofico, sia chiaro, che servirebbe solo a presentare opinioni da aggiungere ad altre.

Si desidera solo attirare l’attenzione sull’estrema variabilità delle concezioni della natura umana fin qui succedutesi e, di conseguenza e in assenza di approdi scientifici definitivi, sulla sostanziale impossibilità di assumere come dato oggettivo la violenza umana come unica ragione dell’attuale configurazione del diritto penale.

Manca una base condivisa e nessuno può valersi di argomenti inconfutabili.

Tuttavia, Santa Maria spinge oltre la sua riflessione e offre un ulteriore argomento: l’inconoscibilità dei processi per i quali un essere umano fa o omette di fare qualcosa e la loro collocazione in una sede che fa a meno della coscienza perché la precede: “Le scienze svelano che la mente è solo una funzione (straordinariamente e misteriosamente complicata) del cervello, che è nulla più di materia, composta di atomi, e come tutta la materia il cervello è soggetto alle leggi della natura.

Vale a dire che la coscienza – la vecchia anima – è solo un Effetto – straordinariamente complesso e spesso tardivo e impotente – di operazioni – ancor più straordinariamente complesse e per lo più totalmente inconsce – del cervello, e non la causa di esse.

L’esatto contrario di quel che credevamo inoppugnabilmente vero? Il soggetto è solo un’illusione prodotta dal cervello? La volontà libera – almeno in questa psicologia che ha annientato il dualismo cristiano tra anima e corpo – non può neppure essere pensata – perché è un nonsense –.

Da che cosa è libera la volontà che è l’effetto della materia?

Affacciarsi alla scienza del cervello, la psicologia cognitiva, è inquietante, crea imbarazzo perché minaccia un sovvertimento radicale delle basi stesse dei nostri concetti fondamentali, in primis quello di soggetto e di “io”.

Muore, però, anche la colpevolezza, l’antichissima costruzione, che presuppone il soggetto e l’”io”, su cui abbiamo fondato la giustizia della pena”[18].

Constatazione, questa, destinata a convivere con le affermazioni della violenza innata dell’uomo e della creazione, ad opera di costui, di un apparato normativo che serve al tempo stesso a dare sfogo alla violenza medesima e a occultarla.

Come se le due proposizioni potessero stare insieme senza traumi, senza creare problemi l’una all’altra.

Come se, spingendosi ancora più avanti, quella violenza smettesse d’incanto, solo sulla base di una nuova consapevolezza derivata dall’accettazione di conquiste scientifiche, rendendo così possibile un nuovo Rinascimento.

Santa Maria ci dice insomma che tutto si tiene.

Ma è davvero difficile convincersi che sia così.

I dubbi riguardano già la proposizione basica, cioè la scomparsa del soggetto e dell’io conseguente alla riduzione della coscienza a mera funzione cerebrale.

È necessaria qualche puntualizzazione su questo aspetto, fatta comunque con la circospezione di chi si muove in ambiti che non gli sono familiari e nei quali può solo assorbire ciò che la scienza (cioè la comunità scientifica nel suo complesso), non la filosofia o la letteratura o un credo religioso, considera già acquisito.

I neuroscienziati[19] sono effettivamente propensi a considerare la coscienza come una funzione del sistema nervoso centrale.

Il concetto di mente, a sua volta, è definito come l’insieme delle operazioni che il sistema nervoso centrale esegue e di cui si può avere soggettivamente coscienza (sensazione, pensiero, intuizione, ragione, memoria, volontà).

Alla coscienza si possono attribuire due significati di interesse scientifico: vigilanza (capacità di un individuo di rispondere a uno stimolo con una modalità integrata propria dello stato di veglia) e consapevolezza (quest’abilità è collegata al contenuto dell’esperienza, ha un profilo soggettivo e include sensazioni, pensieri, emozioni, memoria, immaginazione e altri processi psicologici).

Le neuroscienze prendono in esame anche la volontà ed assumono come punto di partenza la distinzione tra movimenti involontari e movimenti volontari.

Questi ultimi, a differenza dei primi che costituiscono una reazione automatica dei circuiti nervosi, sono il prodotto di una pianificazione che richiede il controllo del corpo.

Le attuali conoscenze hanno individuato nella corteccia prefrontale la zona definibile come via ultima comune di tutti gli atti volitivi umani.

Essa è coinvolta in tutta l’attività cognitiva e comportamentale e rappresenta il fulcro delle caratteristiche intellettive, caratteriali e della personalità e stile di vita di un individuo.

Già a partire dai primi anni Ottanta, gli studi di Benjamin Libet[20] evidenziarono che il cervello di un soggetto chiamato a compiere un movimento volontario mostrava un’attività particolare e riconoscibile molti millisecondi (da 300 a 500) prima che la decisione del movimento diventasse cosciente.

Il che è come dire che il cervello entra in moto prima che la coscienza ne percepisca l’attività.

Il punto è che valore attribuire a questa scoperta.

Fu lo stesso Libet, per primo, a ridimensionarne la portata.

Pur riconoscendo che “Il libero arbitrio, se esiste, non inizia come azione volontaria”[21], espresse l’opinione che ogni individuo ha ancora la possibilità di controllare le sue azioni (nonostante esse comincino inconsciamente) tramite un meccanismo di veto, attivabile tra il momento in cui diventa cosciente della sua volontà di fare qualcosa e il momento in cui la fa davvero.

Questa possibilità di veto fu a sua volta oggetto di critiche sul presupposto che anch’essa, in fondo, sarebbe generata in modo inconscio.

Comunque sia, l’esperimento di Libet ha consegnato alle neuroscienze un nuovo terreno d’impegno.

La prospettiva attuale è nel senso che l’attività della volizione coinvolga una serie di processi differenziati tra loro.

Questi processi rendono possibile il movimento, elaborando ogni singolo passaggio del processo decisionale.

Il suo punto di partenza è una base inconscia la quale, in certo qual modo, serve a preparare l’individuo alla volontà di compiere un atto motorio.

Quest’attività preparatoria inconscia potrebbe essere influenzata da input sia esterni (di tipo sensoriale) che interni (emozioni, memoria, attenzione) e non rappresenta un limite alla volontà libera del soggetto, dando vita piuttosto a un meccanismo facilitatorio basale che serve ad assicurare il compimento adeguato dell’attività volitiva.

Ed allora, ciò che Santa Maria dà per scontato non è affatto tale.

È vero che la coscienza e la volontà sono funzioni cerebrali e non risiedono in un altrove autonomo.

È vero che entrambe seguono a un impulso che le precede.

Questo però non impedisce, non ancora almeno, che ad entrambe si possa continuare ad attribuire lo stesso significato fin qui conosciuto.

Il cervello e ogni sua funzione fanno parte dell’uomo, sono l’uomo.

Ma non ne fanno un automa inconsapevole, dominato da un’unica pulsione brutale.

Non è questo che dice la scienza e neanche la storia umana.

È ancora possibile allora affermare l’esistenza di coscienza e volontà, è di conseguenza possibile una volontà colpevole, ha ancora senso fondare la responsabilità penale sulla volontà colpevole.

È il tempo, adesso, di riprendere alcuni temi soltanto sfiorati quando si è iniziato a parlare delle implicazioni dell’attuale dibattito neuroscientifico.

Il complesso delle proposizioni che Santa Maria accumula in un’unica proposta/offerta rifondativa sembra portare in sé contraddizioni di non poco conto, anche a prescindere da ciò che si è appena detto.

Il diritto penale è violenza – si assume – perché violento è l’uomo che lo genera.

Le pene che ne rappresentano l’attuazione concreta servono a soddisfare quest’istinto.

Ma come può conciliarsi questa visione con l’altra, pure accreditata da Santa Maria, dell’irrilevanza dell’io soggettivo e per forza di cose anche collettivo?

Sottolineare la violenza come causa fondativa – si crede - ha un senso solo se essa è il prodotto di un io consapevole o, più appropriatamente, se il relativo impulso, una volta generato, sia consapevolmente utilizzato come ragione ispiratrice di un progetto sociale e normativo.

Esigenza tanto più manifesta e specializzata se si considera l’ulteriore proposizione di una violenza selettiva e discriminatoria, posta al servizio della classe dominante e destinata a soggiogare le classi inferiori.

La violenza intesa come strumento di governo non ha cioè particolare credibilità concettuale ove si voglia presentarla non come una volontà d’essere ma come un dover essere necessitato da meccanismi cerebrali che precedono la coscienza e la volontà e ne annichiliscono l’autonomia.

Se così fosse, infatti, la violenza e il progetto complessivo da questa ispirato sarebbero solo riflessi automatici di derivazione non attingibile dal pensiero umano.

Non dovrebbero perciò essere censurati, perché non ha senso censurare un automatismo, e non potrebbero neanche essere spiegati in quanto incomprensibili per definizione.

L’unica opzione disponibile sarebbe allora di limitarsi a prendere atto che il diritto penale è così perché non può che essere così.

La seconda contraddizione è legata alla prima ed altrettanto palese.

Santa Maria ritiene possibile e quindi auspicabile una profonda ed evolutiva modifica delle relazioni umane: “Poco o nulla cambierà almeno fino a che la società, cioè l’uomo, cioè noi, non saremo abbastanza forti da riconoscere e non rimuovere – con transfert più meno riusciti – la violenza che è in lui (in noi), che continua ad essere in lui (in noi). La violenza dovrà perdere quell’alone di mistero che sembra renderla inevitabile. Noi dobbiamo tornare a sentire più che a pensare che la violenza è il male, è il vero scandalo”[22].

Un totale ribaltamento, una nuova condizione umana.

I quali, però, richiedono che l’uomo, intuendo e accettando meglio i suoi meccanismi interiori, in ciò aiutato dal progresso scientifico, riconosca il male come sua caratteristica immanente (quindi non più utilizzabile come criterio selettivo tra l’uno e l’altro) e incontrollabile (quindi inservibile come fondamento di un’impossibile colpa).

Visione affascinante, poco ma sicuro.

Ma, come si diceva, profondamente contraddittoria nella sua pretesa essenziale: ritenere cioè possibile che l’uomo, pur costretto al male e alla violenza da impulsi che precedono la sua coscienza, sappia poi non solo rendersi consapevole di questi meccanismi ma annullarne l’effetto deleterio e porre così le basi di un nuovo Rinascimento.

Un’utopia, resa tale da se stessa più che dal cinico disincanto che la storia umana rende quasi inevitabile.

Il pensiero di Santa Maria si espone infine a un’obiezione pressochè paralizzante.

Il male produce dolore, insicurezza e instabilità sociale, desiderio di vendetta e rappresaglia.

Tutte pulsioni umane che, a seguire Santa Maria, sarebbero anch’esse frutto di processi inconoscibili e quindi inservibili come giustificazione oggettiva di una risposta sociale al male.

Eppure una risposta serve perché, quali che siano i meccanismi di produzione dei comportamenti ai quali si associa ordinariamente un giudizio negativo, la gran parte degli esseri umani pretende una reazione e la considera indispensabile.

Santa Maria lascia sullo sfondo questa necessità.

E così facendo finisce involontariamente per assimilare coloro che nel linguaggio comune sono definiti vittime e carnefici.

Gli uni e gli altri, senza distinzioni, protagonisti ma non responsabili di una storia che non hanno voluto.

Non si ripetono le obiezioni precedenti.                 

Ci si limita solo ad osservare che, con ogni probabilità, nessuna società umana è disponibile e pronta ad accettare una condizione del genere.

Che rimane allora del pensiero che si è provato ad analizzare, senza neanche la sicurezza di esserci riusciti?

Rimangono il suo fascino visionario, lo sguardo rivolto a un altrove che ogni uomo dovrebbe desiderare, il tentativo di uscire dalle secche di un pensiero politico e giuridico che poco sembra sapere e altrettanto poco si interessa della condizione umana contemporanea.

Rimane l’invito a pensare in modo nuovo, liberandosi di tutti gli assiomi che imprigionano la creatività e la tensione verso nuovi e possibili mondi.

Non è poco, anzi è molto.

 

Il diritto penale in affanno

Esistono varie prospettive possibili per chi, cogliendo segnali d’allarme, voglia verificare la tenuta complessiva del diritto penale contemporaneo e l’eventuale presenza di falle.

Dalla premessa di questo scritto, risulta chiaramente che ne sono state privilegiate due, focalizzate rispettivamente sul populismo e sulla giurisprudenza creativa.

Il diritto è una materia assai plasmabile e risente di una congerie di influenze.

Ma il legislatore lo fa e il giudice lo applica.

Gli atti tipici di questi due poteri fondamentali, le leggi e le sentenze, sono quindi, indiscutibilmente, i primi obiettivi del ricercatore che sospetti una crisi in atto.

Poi, certo, la ricerca si potrebbe allargare a cascata ma diventerebbe un’altra cosa rispetto ai limitati scopi qui perseguiti.

 

La crisi generata dal populismo penale

L’intento qui perseguito, cioè la verifica di uno stato di crisi del diritto penale dovuto a una legislazione inadeguata, dà ovviamente per scontato che un rapporto causa – effetto di questo tipo possa esistere ed esista davvero.

Si ammette cioè pacificamente che una norma o un pacchetto di norme o un’intera disciplina possano essere “sbagliate”.

Il problema, come sempre, è fare chiarezza sul metro di giudizio.

La mancanza di sintonia con lo spirito dei tempi? Parametro insieme vago e pericoloso. Si farebbe fatica a individuare la posizione e le istanze sociali che meglio la esprimono e, quand’anche ci si riuscisse, il sentire predominante potrebbe essere aberrante e ambire a norme aberranti.

La scarsa funzionalità? Certo, la norma che non riesce a raggiungere il suo scopo è fortemente indiziata di inadeguatezza ma il parametro non è comunque decisivo.

Un esempio per tutti: le norme che sovrintendono all’accertamento della base imponibile fiscale e alla riscossione dell’imposta dovuta da ogni contribuente. Se funzionassero bene, il nostro Paese non sarebbe afflitto dall’imbarazzante evasione con cui deve invece fare i conti. Eppure molta parte di quel malfunzionamento è dovuta ai contribuenti stessi che non offrono allo Stato – fisco la leale collaborazione che altrove è la norma.

L’assenza di un’adeguata sintesi tra plurimi interessi in conflitto? Anche questo è un indizio di un certo peso ma troppo affidato a contingenze politiche e visioni di parte per potere fungere da parametro stabile.

Norme di favore o norme odiose? Assolutamente sì, ma quelle chiaramente definibili come tali sono poche e ancor meno quelle che, essendo tali, durano nel tempo e non si riferiscono a singoli individui o gruppi quantitativamente insignificanti.

L’opinabilità, la vaghezza o la scarsa significatività inducono a scartare tutti i criteri presi in considerazione.

E allora cosa?

L’unico parametro che sfugge alle critiche è dunque ancora una volta quello costituzionale, come del resto si era anticipato in un precedente paragrafo.

Inteso tuttavia in un’accezione che va oltre lo stretto riconoscimento formale dell’illegittimità costituzionale.

Se ci si limitasse a questo, si dovrebbe concludere che le uniche norme sbagliate sono quelle riconosciute tali dalla Consulta.

Ma è troppo poco.

La nostra Costituzione ha delineato un modello sociale con caratteristiche perfettamente definite e fortemente identitarie: una società aperta, accogliente, laica, multiculturale, libera nella sua capacità espressiva, equilibrata nei rapporti tra poteri pubblici e cittadini e nelle relazioni istituzionali, attenta alla salvaguardia delle libertà essenziali.

A questo modello bisogna quindi guardare: le norme che lo assecondano sono giuste (nel senso di realizzare nel modo più equilibrato gli interessi individuali e generali dei cittadini), le norme che lo ripudiano sono sbagliate.

Si potrebbe perfino affermare, a certe condizioni, che anche l’assenza di norme può essere giusta o sbagliata nel significato appena esposto. Ma si andrebbe più lontani di quanto serva.

Ci si rende conto che è solo un’opinione, per di più espressa troppo assertivamente.

Ma da qualcosa bisogna pur partire e la Carta fondamentale non è affatto male come punto di partenza e magari anche d’arrivo.

Lo stesso, del resto, hanno detto milioni di italiani nel recente voto referendario.

Il 23 ottobre 2014 Papa Francesco ha ricevuto una delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale.

Nell’occasione ha tenuto un breve discorso[23].

Piace riportarne i passi più significativi.

“… negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina.

Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale.

Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose.

I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste (…)

Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte.

C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato.

Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione.

Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative.

In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze”.

Il Santo Padre, non importa se ex cathedra oppure no, ha espresso un’opinione perentoria e esortato i giuristi a recepirla e fare quanto è in loro potere per contenere derive che giudica incompatibili col principio pro homine.

Parole forti, lontane anni luce dai secoli in cui la Chiesa Cattolica, in piena fase fondativa, si manifestava con l’odio di Giovanni Crisostomo verso i Giudei o l’irriducibile intolleranza del vescovo Ambrogio verso il Paganesimo.

Parole che meritano attenzione e tutt’altro che isolate.

Soprattutto negli ultimi anni si è molto allargata la cerchia di coloro che guardano con preoccupazione a ciò che ritengono un crescente distacco tra l’uomo e il diritto che ne regola la vita.

Studiosi e pratici del diritto, ma anche sociologi, giornalisti e comuni cittadini, si interrogano sempre più spesso sul fenomeno in esame.

Anche la sua etichettatura in termini di populismo è largamente condivisa in questa cerchia.

A cominciare da Papa Francesco che l’ha usata appunto come titolo di uno dei paragrafi del suo discorso.

È altrettanto esplicito Giovanni Fiandaca che, intervistato da Giulia Merlo per Il Dubbio[24], chiarisce così il concetto: “può parlarsi di populismo penale in tutti i casi in cui i politici assecondano la tentazione di creare nuovi reati o inasprire reati preesistenti allo scopo di dimostrare alla gente di volere combattere sul serio e in modo drastico i diversi mali che affiggono la società.

Insomma, la risposta punitiva rappresenta uno strumento non solo apparentemente risolutore proprio perché energico, ma anche molto comunicativo perché semplice, facilmente comprensibile da tutti nella sua elementare simbologia; inoltre, essa canalizza pulsioni vendicative e sentimenti di indignazione morale diffusi a livello popolare e, ancora, esime la politica dalla ricerca di strategie di intervento più costose e tecnicamente più appropriate”.

Il fenomeno, lungi dall’essere meramente teorico e astratto, si sta concretamente manifestando e assume la forma della progressiva adesione della politica al lessico accusatorio: “Alludo, com’è intuibile, al fenomeno di esponenti politici a vari livelli che pongono al centro della loro azione politica o del loro programma di governo la lotta alla criminalità o la difesa della legalità: una sorta di professionismo politico specificamente anticriminale o antimafioso.

Con una tendenziale differenza, peraltro, a seconda che questo tipo di politico militi sul fronte conservatore o progressista: nel primo caso, egli muoverà guerra soprattutto alla criminalità comune e alla criminalità da strada; nel secondo caso, alle mafie e alla criminalità dei “colletti bianchi”.

In entrambi i casi, comunque, il politico di turno tenderà a vestire i panni del pubblico ministero più che del giudice: porrà infatti l’accento, con parecchia enfasi, sulla necessità di denunciare, indagare, accertare, impiegare tutti i mezzi di contrasto possibili e immaginabili per sradicare la mala pianta del crimine e fare terra bruciata intorno ad esso, applicare pene draconiane, controllare e neutralizzare gli individui pericolosi o sospettabili tali”.

A sua volta, secondo Fiandaca, “Il “populismo giudiziario”, quale specifica forma di manifestazione del populismo penale sul versante della giurisdizione, è un fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere il ruolo di autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (o della cosiddetta gente), e ciò in una logica di concorrenza - supplenza, e in alcuni casi di aperto conflitto con il potere politico ufficiale.

Questa sorta di magistrato tribuno, che pretende di entrare in rapporto diretto con i cittadini, finisce col far derivare la principale fonte di legittimazione del proprio operato, piuttosto che dal vincolo alle leggi scritte così come prodotte dalla politica, dal consenso e dall’appoggio popolare”.

Sulla stessa lunghezza d’onda, e non da ora, Luigi Ferrajoli.

Intervistato il 28 ottobre 2008 da Roberto Ciccarelli per Il Manifesto, Ferrajoli definì in questi termini il populismo penale: “Con questa espressione il giurista francese Denis Salas e quello domenicano Eduardo Jorge Prats definivano una strategia diretta ad ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo alla paura generata nella popolazione dalla criminalità di strada.

Si afferma così un uso congiunturale del diritto penale in senso repressivo ed antigarantista che è totalmente inefficace rispetto alle intenzioni di prevenire i crimini”.

E ancora, riferendosi a un’espressione allora come ora fortemente in voga: “Tolleranza zero” è un’espressione assurda che esprime un’utopia reazionaria.

L’eliminazione dei delitti, cioè la loro riduzione a zero, è impossibile senza un’involuzione totalitaria del sistema politico.

La “tolleranza zero” potrebbe essere forse raggiunta solo in una società panottica di tipo poliziesco, che sopprimesse preventivamente le libertà di tutti, mettendo un poliziotto alle spalle di ogni cittadino e i carri armati nelle strade.

Il costo sarebbe insomma la trasformazione delle nostre società in regimi disciplinari e illiberali sottoposti alla vigilanza capillare e pervasiva della polizia”.

Una deriva cui bisognerebbe contrapporre una concezione ben diversa: “una politica razionale, e non demagogica, che abbia a cuore la prevenzione dei delitti, insieme alla garanzia dei diritti fondamentali di tutti, e che consideri la giustizia penale come un’extrema ratio.

La vera prevenzione della delinquenza è una prevenzione pre-penale, prima ancora che penale”.

Lo stesso pensiero è condiviso dal sociologo politico Manuel Anselmi che ne spiega l’essenza così: “Nella numerosa famiglia dei populismi, quello penale si caratterizza per la non necessaria riconducibilità a un leader carismatico che stabilisce con il popolo una dinamica di consenso alla luce di una crisi istituzionale, come invece avviene nei più conosciuti populismi politici.

Il populismo penale è quindi un fenomeno acefalo e per questo meno visibile, che consiste nell’uso distorto di informazioni, in prassi sociali che investono vari settori della società, in comportamenti collettivi e rappresentazioni sociali diffusi che contribuiscono all’alterazione di contenuti relativi alla giustizia con una finalità politica. Sotto questa larga etichetta possiamo far rientrare la manipolazione dei dati sulla criminalità nelle campagne elettorali, le campagne di “tolleranza zero”, la resistenza tutta italiana a introdurre il reato di tortura, la criminalizzazione dello straniero, ma anche la glamourizzazione dei magistrati e quello che in Italia siamo soliti chiamare in modo vago e troppo spesso assolutorio “giustizialismo”.

Il populismo penale esercita una costante azione di delegittimazione sociale delle istituzioni in materia di giustizia, indebolendo di fatto ciò che definiamo lo stato di diritto.

Tutto ciò è favorito dalla complicità di molte redazioni che per non perdere il consenso dei lettori/spettatori lo cavalcano senza alcune remora deontologica.

Al rispetto dei fatti giuridici (ebbene sì, esistono anche i fatti giuridici) si è ormai sostituita uno stile giornalistico basato sul kitsch-emozionale, dove prioritario è l’effetto di senso sentimentale sul lettore/spettatore.

Un effetto di senso che lusinga il destinatario secondo un’accorta retorica, i cui stilemi sono l’indignazione costante, il compiacimento dell’impotenza politica, la sfiducia per le istituzioni e il risentimento permanente per una dimensione privilegiata e ingiusta che lo esclude.

E il fatto di cronaca resta solo un pretesto per ribadire tutto questo periodicamente, quasi fosse un rituale[25].

Perfino nelle stanze del Palazzaccio, solitamente piuttosto restie ad abbandonare il rassicurante lessico giuridico, il termine populismo ha fatto di recente il suo timido ingresso[26].

È stato associato a un certo modo di fare giornalismo nel quale i giudici di legittimità hanno intravisto “una concezione sicuramente paternalistica (nei confronti dei destinatari della informazione) e aprioristicamente giustificatoria (nei confronti dei diffusori della informazione), una concezione sicuramente inaccettabile in quanto legittimante una sorta di “populismo della informazione”.

Ancora un riferimento, questa volta generato da un commento vivacemente critico verso l’applicazione retroattiva a un notissimo ex parlamentare degli istituti dell’incandidabilità e della decadenza creati dal D. Lgs. 235/2012 (meglio noto come Legge Severino): “La vicenda della quale ci siamo occupati di tutto ciò costituisce una preoccupante dimostrazione. Nessuno – almeno a parole – nega il principio di irretroattività sfavorevole.

D’altronde un’affermazione così grossolanamente falsa sarebbe risultata improponibile.

Piuttosto si preferisce eluderlo, negandone l’efficacia negli spazi immensi destinati ai giudizi morali.

Oggi non importa se ciò avviene al prezzo di sacrificare i principi generali sui quali si è retta – per lo meno sin qui – la nostra civiltà del diritto. Si fa finta di nulla.

Tutto ciò lascia intravedere un futuro molto ricco di efficacia punitiva, ma poverissimo sul piano delle garanzie”[27].

È interessante notare, in aggiunta, che poche settimane addietro il Senato, pronunciandosi sul caso di un suo componente condannato in via definitiva a due anni e sei mesi di reclusione per il reato di peculato con l’irrogazione aggiuntiva della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici di uguale durata, non ha ritenuto applicabile la decadenza[28].

Per inciso, la condanna inflitta al senatore in questione riguardava fatti commessi prima dell’entrata in vigore della Legge Severino, esattamente come per il suo collega dichiarato decaduto. Ma, a quanto pare, l’art. 3 della Costituzione non vale in Senato.

Infine, il contributo dell’On. Andrea Orlando, ex Guardasigilli: “la politica da sola non ce la fa.  Se vogliamo affermare i principi del garantismo nel nostro Paese c’è bisogno che altri diano una mano, e che lo facciano i magistrati soprattutto”, questo perché “riscuotere consenso con le battaglie garantiste è difficile, ecco perché la politica non può condurle da sola”[29].

Altri autorevoli studiosi e esponenti di cerchie professionali si sono espressi in termini affini sicchè se ne omette la citazione.

Esiste dunque una percezione oggettivamente diffusa (anche se indiscutibilmente minoritaria, almeno per ora) del fenomeno di cui si parla, delle caratteristiche che lo definiscono, degli ambiti istituzionali che ne sono all’origine, delle ragioni che lo ispirano ed anche delle difficoltà che ostacolano le opportune reazioni.

Si condivide questa percezione e il giudizio fortemente negativo che ne deriva.

I fenomeni che le danno alimento sono la negazione dell’idea di società che il Costituente ha pensato adatta per il nostro Paese.

Danno vita a un modello sociale ansiogeno, impaurito, ripiegato su se stesso, inospitale, dimentico dell’uomo come giustificazione e scopo del diritto.

Non è un Paese per giovani, ma neanche per vecchi, per genti straniere, per chi ha bisogno di una seconda chance.

Questo non dovrebbe piacere a nessuno.  

È comunque un autentico fattore di crisi del diritto penale di oggi.

 

La crisi causata dalla giurisprudenza creativa

Il significativo ampliamento della funzione creativa della giurisprudenza appare oggi un dato non controvertibile, del quale occorre prendere laicamente atto, che si registra non solo in tutti i campi nei quali il legislatore opera attraverso clausole generali (o norme elastiche), ma anche nelle sempre più frequenti situazioni in cui le esigenze di tutela giuridica espresse dal corpo sociale sopravan­zano la capacità (o la volontà) del legislatore mede­simo di farvi fronte, ponendo perciò stesso il giudice nella condizione di dover dare risposta a domande di giustizia per le quali l’ordinamento non ha appronta­to regole puntuali e specifiche.

D’altronde, la neces­sità dell’interprete di confrontarsi con un universo giuridico plurale, costituzionale ed europeo, da cui emergono non solo e non tanto regole, quanto valori e principi, alla luce dei quali le medesime regole deb­bono esser lette, inevitabilmente comporta un eserci­zio interpretativo tutt’altro che meccanico e dall’esito sovente per nulla scontato”[30].

Queste parole costituiscono un eccellente punto di partenza per la riflessione che qui si vuol compiere.

Colgono una tendenza vecchia quanto il diritto ma che oggi si colora di nuovi significati, supera confini che si pensava invalicabili, trova il suo terreno più fertile in bisogni sociali ignorati dal legislatore.

Rordorf invita a una presa d’atto laica.

Allude probabilmente alla necessità di affrontare il tema senza alcun pregiudizio ideologico, respingendo la tentazione di utilizzare l’attuale conformazione del rapporto tra giudice e legge come pretesto per esigenze dimostrative congiunturali e di parte.

In questo senso ha certamente ragione.

E tuttavia il ruolo del giudice, l’influenza che il sistema gli consente (o che il giudice stesso ritiene) di esercitare, la valenza particolare e generale delle sue attività e decisioni, sono fattori largamente dipendenti da visioni ideologiche e risentono acutamente della sensibilità che una certa società manifesta in un certo periodo.

Anche di questo bisogna tenere conto.

Sicchè, la laicità della riflessione può e deve caratterizzare l’individuazione degli elementi oggettivi di riscontro (positivo o negativo che sia) della tesi.

Non può invece riguardare la loro valutazione perché in questo caso è richiesta una scelta discrezionale che dipende da una visione.

Fatta questa indispensabile premessa, si può subire procedere a una sintetica ricognizione dello stato dell’arte, provando a individuare le ragioni del fenomeno che si sta analizzando.

Vi è un generale consenso sulla forte incidenza della cessazione del monopolio normativo statale, connessa al ruolo progressivamente crescente di altri soggetti regolatori quali ONU, UE, Corte EDU, Regioni, autorità amministrative indipendenti e all’esistenza di ambiti specifici, come ad esempio la finanza e il commercio, nei quali si affermano complessi di regole che si affiancano alla legislazione statale e talvolta la oltrepassano.

Alla pluralità delle fonti di produzione seguono come fenomeno inevitabile un aumento dell’incertezza del diritto e un accresciuto bisogno di interpretazione.

Fenomeno ulteriormente accentuato da deficit della legislazione nazionale: tecniche spesso infelici di redazione delle norme, incapacità di cogliere e regolare i nuovi bisogni sociali, visioni ispiratrici prive della dovuta laicità, incapacità di elevarsi al di sopra delle logiche di maggioranza.

Un quadro complesso e per molti versi deprimente ma la cui oggettività è di immediata evidenza.

Resta adesso da capire se questa oggettiva situazione stia inducendo il giudice a spingersi oltre ciò che occorre. Se egli la stia usando come giustificazione per una trasformazione strutturale della sua identità istituzionale. Se questa trasformazione stia provocando un’alterazione significativa del principio fondamentale della separazione dei poteri.

Si anticipa fin d’ora, ma certo non è una sorpresa, che le risposte a questi quesiti sono quantomai differenziate.

A un indirizzo di pensiero piuttosto critico, che guarda con preoccupazione al crescente spazio occupato dalla giurisprudenza e vi scorge il sintomo di un’alterazione degli equilibri istituzionali, si contrappone un indirizzo giustificazionista per il quale il giudice che non si facesse carico di soddisfare le necessità di chiarezza imposte dai fattori di complessità prima elencati verrebbe meno alla sua funzione.

Si darà subito conto di queste correnti, e lo si farà, sia pure per sintesi, attingendo al pensiero di coloro che da tempo e intensamente stanno esplorando l’ambito di cui si parla.

Tra questi, in posizione di primo piano, Luigi Ferrajoli.

Di recente è uscito un suo scritto[31], dal titolo quantomai eloquente, che rilancia la questione e ne definisce nettamente i contorni.

L’Autore individua anzitutto una relazione direttamente proporzionale tra lo spazio interpretativo e l’indeterminatezza della “lingua legale”.

Questa provoca l’aumento della “dimensione potestativa dell’attività giudiziaria” e la diminuzione della sua “dimensione conoscitiva”.

Non solo: dall’indeterminatezza derivano effetti disastrosi sulle argomentazioni probatorie e, in ultima analisi, sulla verità detta nel giudizio.

Perché “dove la verità giuridica è indecidibile per totale indetermi­natezza della lingua legale, lo spazio dell’argomenta­zione è amplissimo, e il potere giudiziario si converte, da potere di applicazione della legge tramite prove e interpretazioni, in potere dispositivo di creazione di nuovo diritto, tendenzialmente arbitrario e illegitti­mo perché in contrasto con il principio della sua sog­gezione alla legge”.

Sicchè “il grave problema che affligge i nostri ordinamenti è la crisi della legge e del ruolo di limitazione dell’arbitrio che, nel modello teorico dello stato di diritto, è svolto dal principio di legalità: dalla legalità costituzionale quale sistema di limiti e vincoli alla legislazione; dalla legalità ordina­ria quale sistema di limiti e vincoli alla giurisdizione.

Ne sono seguite una crescita patologica della discre­zionalità giudiziaria, che rischia di sconfinare nell’ar­bitrio, e una conseguente espansione del potere dei giudici, oltre un certo limite lesiva della sua fonte di legittimazione e dell’equilibrio tra i pote­ri”.

A questo primo fattore di crisi, interamente imputabile all’incapacità del legislatore, si aggiunge “la struttura multilivello degli attuali ordinamenti”, nell’accezione prima ricordata.

C’è poi l’aumentato bisogno di giustizia penale in conseguenza dell’illegalità diffusa tra i poteri pubblici e di giustizia civile nelle materie del lavoro, ambiente, tutela dei consumatori, bioetica.

Ferrajoli individua infine un ultimo fattore: “è la tendenza del potere giudiziario, conna­turata del resto a qualunque potere, a dilatare indebi­tamente il proprio ruolo e a dar vita a un diritto di cre­azione giurisprudenziale.

Il fenomeno si manifesta in forme vistose nel diritto civile.

Ma si sta sviluppan­do, in Italia, perfino in materia penale, dove si mani­festa talora nello sviluppo di un’incontrollata fantasia incriminatrice che esorbita dalla legalità, sia pure dis­sestata dai fattori sopra elencati.

Proprio il dissesto della legalità favorisce infatti un costume di arbitrio che si esprime nell’estensione di fattispecie penali, ad opera dell’argomentazione interpretativa, a fenomeni vagamente analoghi e, più in generale, nello sviluppo di un cosiddetto “diritto penale giurisprudenziale”: espressione ambivalente con cui si allude e si offre di solito legittimità (…) al ruolo “creativo” della giurisdizione consistente nell’”introduzione di nuove figure di reato”.

Gli spazi creati da questa tendenza sono in parte “perfettamente legittimi e di carattere pro­gressivo perché a garanzia dei diritti”, in parte e purtroppo “legittimi ma regressivi perché provocati dal dissesto della legalità”, in parte, sciaguratamente, “di carattere extra-legale e di segno regressivo – da soli idonei a generare squilibri nei rapporti tra poteri e a provocare tra di essi tensioni e conflitti che rischiano di minare alla radice la legittimazione del potere giudiziario come potere soggetto alla legge, l’effettività del principio di legalità e la tenuta dello stato di diritto”.

Ferrajoli aggiunge proprio a questo riguardo una notazione di estremo interesse: “Al fondo di tutti questi orientamenti (quelli che giustificano la giurisprudenza creatrice) c’è il reali­smo, esplicito o latente, che consente di presentare le tesi sul ruolo creativo della giurisdizione come tesi “scientificamente” descrittive di una prassi giudizia­ria priva di alternative; come se il diritto fosse una realtà naturale, e non un fenomeno artificiale intera­mente costruito dagli uomini; e come se non fossero normativi, bensì descrittivi, il principio di legalità, quello della certezza e quello della soggezione dei giudici alla legge (…)

Ciò che ac­comuna tutti questi diversi orientamenti è la legitti­mazione, sul piano epistemologico e su quello teorico, del collasso dello stato di diritto – cioè dei limiti e dei vincoli legali imposti all’esercizio di qualunque pote­re, sia pubblico che privato – assunto poi come veri­fica empirica delle loro stesse raffigurazioni teoriche”.

Fondamentale è poi la riflessione di Ferrajoli su ciò che lui stesso definisce lo statuto epistemologico del giudizio e del ragionamento giudiziario: “Ogni applicazione della legge richiede dunque una decisione e perciò un’argomentazione a sostegno della scelta tra le tante, possibili interpretazioni legittima­mente ammissibili degli enunciati normativi.

Si trat­ta però di decisioni sulla verità, e non su altri valori, cioè di decisioni le cui motivazioni sono argomentate come “vere” o confutate come “false” sulla base del diritto vigente. (…) la giurisdizione è sempre applicazione sostanziale di un diritto preesistente, argomentabile come legittima e giusta solo se in base a tale diritto ne sia predicabile la “verità” processuale sia pure in senso intrinsecamente relativo (…) Per questo parlare di ruolo creativo della giurisdizione o di interpreta­zione creativa, anche solo nel senso debole e impro­prio della nostra distinzione, vuol dire assecondarne le derive creazioniste, avallarne l’arbitrio, deformare la deontologia professionale dei giudici e l’intero im­maginario istituzionale intorno allo stato di diritto (…) Alla base della tesi del carattere non cognitivo ma creativo della giurisdizione c’è in realtà una conce­zione ristretta e insostenibile sia della conoscenza che della verità giuridica, l’una intesa come descri­zione, l’altra come verità assoluta”.

Parole alte, impossibili da ignorare, anche quando non condivise.

Un contributo altrettanto prezioso, sebbene significativamente differente su alcune prospettive essenziali, viene da Giovanni Fiandaca[32]: “può apparire plausibile persino rispetto al settore penale affermare che oggi viviamo nell’ età della giurisdizione o – detto altrimenti – nell’ epoca del giudice (…) è non meno importante registrare (…) la scoperta – divenuta, nel frattempo, una verità quasi banale fuori dal recinto penalistico – che il giudice in qualche modo e misura crea (ancorché rimanga impreciso il significato di questo ‘creare’), e crea persino quando interpreta e applica le norme penali: e come a tale scoperta inizi ad accompagnarsi, ad un tempo, la presa di consapevolezza o (almeno) il dubbio che non possa accadere altrimenti.

Nel senso di cominciare a riconoscere che l’interprete/applicatore finisce con l’essere ‘creativo’ non per voluta infedeltà al suo ruolo, non perché animato da una perversa intenzione di manipolare o eludere la legge scritta: ma perché (…) la visione (cara soprattutto al penalista tradizionale) dell’interprete fedele e passivo servitore del legislatore-padrone assoluto del diritto non è altro che pura ideologia (…)

In realtà sarebbe irrealistico, illusorio continuare a confidare che, per contenere l’ampio spazio della concretizzazione giudiziale delle fattispecie penali e, quindi, il potere creativo dei giudici, il rimedio risolutore consista in una più precisa tipizzazione legislativa dei fatti punibili. Si tratta di una ricetta vecchia, nella cui efficacia miracolistica si potrebbe seguitare a credere soltanto rimanendo ingenuamente affezionati a mitologie del passato (…)

Il discorso diventa sotto alcuni aspetti più complesso se si passa a considerare l’interpretazione costituzionalmente orientata in diritto penale, nel cui ambito il livello di autonomia o discostamento dal tenore letterale della legge ordinaria può risultare ancora maggiore (…)

Ciò ripropone, e a un tempo drammatizza il problema dei limiti, dei vincoli alla discrezionalità ermeneutica dell’interprete e, in particolare, del giudice.

Quali difese, quali antidoti garantistici opporre di fronte al rischio di una discrezionalità giudiziale esercitata con troppa disinvoltura? È possibile confidare nella fissazione di nuovi limiti, di nuovi vincoli nascenti da una più chiara definizione di funzioni, di competenze e di rapporti di coordinamento tra le varie Corti oggi operanti a livello sia nazionale che sovranazionale, in modo tale che il ‘dialogo’ costruttivo e virtuoso alla fine prevalga rispetto a forme di concorrenza conflittuale se non proprio anarchica ovvero rispetto a spiacevoli tentazioni di “colonialismo giurisdizionale”? (…)

Ma, sin da ora, di una cosa si può essere abbastanza sicuri: e cioè che la certezza del diritto penale, ammesso che sia realistico continuare ad auspicarla, appare oggi come una variabile dipendente da un gioco sempre più complesso di interazioni tra poteri e saperi collocati, a loro volta, a più livelli.

Ci troviamo ormai, dunque, in un orizzonte di riferimento in cui il potenziale beneficiario della certezza non potrà a maggior ragione mai essere quel generico cittadino comune, in grado di conoscere un numero ridotto di leggi penali semplici e chiare, vagheggiato con ideologica ingenuità dai filosofi dell’età dei lumi”.

Fisiologici e dunque scontati, per Fiandaca, il ruolo creativo del giudice e addirittura la sua attiva partecipazione alla definizione delle fonti e del loro grado di precettività.

Illusoria la pretesa di delimitare questo spazio creativo facendo appello a una più netta tassatività delle fattispecie e dei precetti.

Nuova declinazione del concetto di certezza del diritto che, anche ad ammettere la possibilità di raggiungerla, non è più uno strumento di cui il cittadino possa avvalersi nel rapporto con i poteri pubblici.

Sullo sfondo, incombente, la crisi profonda della riserva di legge e del principio di legalità, cui non sarebbe male, secondo Fiandaca, ovviare introducendo una “riserva di razionalità descrittiva”.

Considerazioni di rilievo sono formulate pure da Francesco Palazzo[33], il quale ricorda, in accordo a Calamandrei, che «nello stampo della legalità si può colare oro o piombo[34].

Dunque, secondo Palazzo: “affiora l’idea della “relatività” della legalità. Consapevolezza della relatività significa acquisire coscienza critica delle trasformazioni cui anche la legalità è soggetta nel fluire e nelle mutevoli condizioni della storia; non significa certo accettare i tradimenti che della legalità si consumano più o meno platealmente (…)

Sono (…) tradimenti quelli consumati dall’arroganza del potere, quale esso sia, che piega il diritto penale – non importa se in buona o mala fede – a strumento di violenza legalizzata, seppure con le migliori intenzioni di governare una realtà e un sentire sociale che pare ormai quasi spasmodicamente invocare la violenza punitiva come panacea dei tanti nostri problemi.

Sono tanti i quotidiani tradimenti della legalità che niente, proprio niente, hanno a che fare col nuovo paradigma della giuridicità. Tradisce la legalità il giudice che dimentica che la soluzione del conflitto d’interessi attesa dalla sua decisione va tessuta sulla trama imposta dalla parola legislativa. Quando dimentica, cioè, che la parola legislativa non solo fa parte della struttura ordinante intrisa di socialità che è il linguaggio; ma è anche espressione di “potestatività (…).

E, su un piano di maggiore concretezza o addirittura di contingenza storica, tradisce la legalità il magistrato che inverte il rapporto fisiologico tra momento cautelare del processo e momento dell’accertamento definitivo della responsabilità (…).

Tradisce la legalità anche, e forse prima di tutti, il legislatore: e non solo quando, come ormai si ripete fino alla noia, licenzia leggi mal fatte e mal scritte, in ispregio a ogni vincolo di sistema e ogni decoro di formulazione linguistica.

Ancor più profonda è la ferita inferta alla legalità quando il legislatore erige sul sospetto l’edificio oscuro delle misure di prevenzione, capaci di inghiottire – quale vero e proprio “buco nero” dell’ordinamento – tutta la faticosa tessitura dei grandi principi di garanzia, dalla legalità appunto alla presunzione di non colpevolezza (…).

Un ulteriore fronte di cedimento del monopolio della fonte legislativa è quello, per ora limitato ma già significativo, dell’ingresso dei saperi esperti nella individuazione degli obblighi penalmente sanzionati.

Soprattutto in campi come quelli della responsabilità medica o imprenditoriale, non è infrequente che lo Stato abdichi alla sua funzione di formulazione della norma – in particolare cautelare – a vantaggio di vere e proprie comunità epistemiche ritenute scientificamente più adatte alla valutazione del rischio, alla formulazione e individuazione di legge scientifiche, all’accreditamento di queste ultime.

Protocolli e modelli organizzativi di produzione privata entrano a vale spiegate nella causalità e nella colpa, plasmando così il nucleo centrale della fattispecie penale.

Per quanto qui interessa, simili soluzioni d’individuazione dell’illecito contribuiscono ad allentare la legalità penale, sotto il profilo di un trasferimento della garanzia dalla rappresentatività democratica della fonte legislativa alla verità scientifica delle norme tecniche elaborate dalle comunità epistemiche.

Quasi un spostamento dell’asse dalla auctoritas seppure democraticamente legittimata alla veritas del sapere scientifico e tecnologico: quasi la realizzazione di un’antica e sempre rinascente utopia giuridica (…) vale la pena qui di segnalare fugacemente come l’ingresso del sapere scientifico nell’individuazione del precetto penale possa comportare l’attribuzione al giudice di un compito che non sappiamo dire quanto gli sia proprio e congeniale, cioè quello di costituirsi in ultima istanza di controllo della reale scientificità di quel sapere integrativo del precetto. Il giudice diventa custode della vera scienza (…)

La discrezionalità giudiziale nel senso suo più proprio non s’identifica con gli spazi valutativi insiti nell’attività interpretativa.

Essa piuttosto designa una volontaria e deliberata attribuzione al giudice da parte del legislatore di un potere di valutazione e di decisione che il legislatore ritiene impossibile o incongruo esercitare in astratto.

Nel fisiologico ricorso alla discrezionalità non manca mai la previsione di criteri e scopi che debbono fungere da guida all’attività del giudice, impedendo la sua degenerazione in puro arbitrio.

Così intesa, la discrezionalità giudiziale sta conquistando spazi crescenti in tutta l’area della pena, del sistema sanzionatorio e soprattutto di quegli istituti ispirati a finalità specialpreventive di rieducazione.

In questo senso diciamo che la discrezionalità giudiziale, pur essendo ovviamente antinomica all’idea della legalità “legalistica”, è funzionale all’affermazione di valori e fors’anche di diritti personalistici, come sono quelli perseguiti dalla pena rieducativa. Non è dunque un caso che la Corte costituzionale, seppure con apparato argomentativo basato sulla ragionevolezza, si sia fatta paladina nel bandire ogni presunzione legale nelle valutazioni di pericolosità, a tutto vantaggio della discrezionalità giudiziale: sentita, quest’ultima, non come una necessità negativa ma come uno strumento positivo di riconoscimento del personalismo punitivo.

Va detto, però, che la discrezionalità giudiziale è terreno scivoloso.

È facile infatti trascorrere da una discrezionalità funzionale alle esigenze rieducative ad una discrezionalità che costituisce un vero e proprio tradimento della legalità penale.

A tanto si arriva quando la concessione di discrezionalità da parte del legislatore è il risultato di un suo inammissibile disimpegno dal decidere o, ancor peggio, quando la discrezionalità è concessa sotto le mentite spoglie della rieducazione all’unico e reale fine di appagare mere esigenze di gestione carceraria: istituti costruiti discrezionalmente sotto la falsa egida della finalità rieducativa sono rimessi nelle mani del giudice per trarre fuori il legislatore dalle difficoltà carcerarie alimentate da logiche securitarie e populistiche.

La rassegna è di certo incompleta ma dovrebbe essere sufficiente a dare l’idea di un dibattito che è in pieno movimento, fatto di sensibilità differenti (a migliore garanzia dell’approccio laico auspicato da Rordorf), consapevole del definitivo tramonto di concezioni ormai inadatte a ispirare il rapporto tra giudice e legge, dunque alla ricerca di nuove ragioni giustificatrici che, senza privare il giudice stesso degli strumenti che gli sono necessari per adeguarsi alla complessità contemporanea, impediscano che l’adeguamento avvenga a discapito di garanzie essenziali, troppe volte sacrificate sull’altare di visioni e scopi autoreferenziali.

Chi scrive avverte, al pari di tanti, il periodo di mezzo dei principi sottostanti al ruolo del giudice e al modo in cui deve essere svolto.

Una fase di transizione che preannuncia trasformazioni di lunga durata e di natura strutturale.

L’ovvio auspicio è che, quali che siano i cambiamenti che si verificheranno, nessuno di essi ponga il cittadino che incontra il suo giudice nell’infelice condizione di non sapere né chi ha di fronte (nel senso di ignorarne l’identità istituzionale) né quali saranno i parametri del suo giudizio.

 

Conclusione

Il diritto penale, oggi come sempre, è un prodotto in cui si riversano pressochè tutte le pulsioni umane, quelle buone e quelle cattive.

Risente enormemente dell’ideologia di chi lo crea e di chi lo interpreta.

È permeabile a prassi e sentimenti populisti.

È un ideale terreno di sperimentazioni di ogni tipo.

Ha un rapporto imprescindibile, ma non sempre armonioso, con il sapere scientifico.

Lo stesso vale per il giudizio penale.

Fatto per arrivare alla verità, non sempre la afferma, talvolta la nega.

Fatto a difesa della vittima e del carnefice, talvolta dimentica la prima e vezzeggia il secondo, qualche altra volta beatifica la prima e travolge il secondo, altre volte ancora non riesce nemmeno a comprendere chi sia l’uno e chi sia l’altro.

Il legislatore è in affanno, spesso privo di conoscenza ed empatia, spesso incapace di preservare la civiltà giuridica necessaria a un equilibrato sviluppo della comunità.

Il giudice tenta di orientarsi nella complessità contemporanea e di darle risposte plausibili ma talvolta si lascia tentare dalla geometrica potenza ormai connaturale al suo ruolo e si appropria di spazi che gli sono estranei.

Il cittadino vive in mezzo a tutto questo. Il diritto e la sua applicazione sono come la neve e la grandine per lui, fenomeni la cui genesi e i cui effetti sono qualcosa che può solo subire, nel bene e nel male.

E si può dire che è tutto.

 

1. La esprime Santa Maria in un corpus di scritti, tutti pubblicati su Diritto Penale Contemporaneo: Piccolo manifesto per un programma di idee sul diritto e il processo penale, 7 febbraio 2017, La verità, 1.3.2017, Il falso nella causa del diritto penale, 20 marzo 2017

2. In questa direzione si muove il pensiero di Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, www.edizioninets.com/criminalia/2013 ma si vedano anche, tra gli altri, S. Bonini, T. Guerini, G. Insolera, A. Manna, N. Mazzacuva, D. Pulitanò, L. Risicato, A. Sessa, C. Sotis, La società punitiva. Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista, Diritto Penale Contemporaneo, 21 dicembre 2016

3. Si confrontino Fiandaca, Crisi della riserva di legge e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, www.edizioninets.com/criminalia/2013 ma anche L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, A. Lamorgese, L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro, tutti in Questione Giustizia, numero monografico 2016/4 focalizzato su Il giudice e la legge

4. Si richiama sul punto il pensiero di G. Gadamer, espresso in opere quali Warheit und Methode, Tubingen, Mohr, 1960, tradotta in italiano da G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983 e Text und interpretation, tradotta in italiano da F. Vercellone, Testo e interpretazione, in Aut aut, n. 217 -18, 1987

5. Qui il riferimento è al pensiero di Heidegger, particolarmente in Essere e tempo, e dello stesso Gadamer, entrambi richiamati da A. Pace in Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, Costituzionalismo.it, Fascicolo 2/2006

6. Ruggeri, Introduzione ai lavori in Quaderni del “Gruppo di Pisa”, Il diritto penale nella giurisprudenza costituzionale, Atti del seminario svoltosi a Udine il 7 novembre 2008, Giappichelli Editore

7. Manes, Principi costituzionali in materia penale, sito web istituzionale della Corte Costituzionale, 1.10.2013

8. Manes, op.cit.

9. Cost., sentenza n. 1 del 15 gennaio 2013

10. [1] J. Luther, Il costituzionalismo dei giudici costituzionali, Diritto & Questioni pubbliche, XVI-2016/2

11. W. Nietzsche, La gaia scienza

12. Brecht, L’opera da tre soldi, Einaudi, 1963

13. Santa Maria, Piccolo manifesto … pag. 26

14. Brecht, Vita di Galileo, Einaudi, 2005

15. Brecht, Le storie del signor Keuner, Einaudi, 2008

16. Per un approfondimento generale sul tema, si rimanda a N. D’Ascola, Impoverimento della fattispecie e responsabilità penale “senza prova”, Iiriti Editore, 2012

17. P. Sartre, La nausea, Einaudi, 2005

18. Santa Maria, Piccolo manifesto … pag. 31 e ss.

19. La riassunzione degli attuali approdi delle neuroscienze è dovuta, in modo rilevante e spesso testuale, alla neurofisiopatologa G. Marciani, Coscienza e volontà nella prospettiva delle neuroscienze, Simposi rosminiani, Stresa, 27/30 agosto 2014

20 Libet, C. A. Gleason, E. W. Wright, D. K. Pearl, Time of conscious intention to act in relation to onset of cerebral activity (readiness-potential). The unconscious initiation of a freely voluntary act.Brain, 1983

21. Libet, Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina, Milano, 2007, p.130

22. Santa Maria, Piccolo manifesto … pag. 52

23. Oltre che sul Bollettino della Santa Sede, il testo integrale è reperibile in Diritto Penale Contemporaneo.

24. Il resoconto è disponibile sul sito web del giornale nell’edizione del 4 febbraio 2017

25. Anselmi, S. Anastasia, D. Falcinelli, Populismo penale. Una prospettiva italiana, CEDAM, 2015

26. Pen., Sez. 5^, sentenza 6463/2016

27. N. D’Ascola, Alla ricerca di un diritto che non c’è. La presunta retroattività della “Legge Severino” tra derive sistematiche e suggestioni moralistiche, Archivio penale, 2014, n. 1

28. Per un approfondimento dei profili sistematici della questione, si veda Buonomo, L’irresistibile forza espansiva dell’autodichia parlamentare, Questione Giustizia, 3 aprile 2017

29. La dichiarazione del ministro Orlando è riportata in un articolo di Spigarelli, già presidente dell’UCPI, pubblicato il 10 giugno 2015 sul sito web di L’Opinione

30. Rordorf, Editoriale introduttivo al numero monografico su Il Giudice e la legge, Questione Giustizia, 2016/4, gennaio 2017

31. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creatrice 

32. Fiandaca, Crisi della riserva di legge 

33. Palazzo, Il principio di legalità tra Costituzione e suggestioni sovranazionali, La legislazione penale, 2016/2

34. Calamandrei, Prefazione a Dei delitti e delle pene, Cesare Beccaria, Le Monnier, 1950