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Il Vincitore

Il Vincitore
Il Vincitore

- Presidente, Signori del Tribunale, prendo la parola per l’ultima volta, per un’ultima arringa in difesa di una persona, di un uomo che ha bisogno della mia voce e del mio intelletto per parlare a Voi e farsi intendere superando i mille anni di distanza che corrono tra la sua semplice mente e la Vostra evoluta capacità di raziocinio. E questa volta voglio essere sincero come non lo sono mai stato nella mia lunga carriera, mi perdoni Signor Presidente se parlo di me.

Ci sono molti modi di essere sinceri, ma uno solo per esserlo davvero.

Come Voi, Signori, ho perseguito in ogni tempo la Verità, la Verità che non sempre si vede, quella che comunque non può nascere solo dai Codici e dalle Pandette, la Verità dell’uomo, della vita reale, della vita vissuta. Mi lasci dire, Presidente, forse è l’ultima volta che la mia voce risuona dentro quest’aula, che riecheggia, un po’ troppo forte come quella degli avvocati vecchi, su quei pannelli di legno più vecchi di me, che si presenta con intenzioni seduttive alle vostre orecchie, le quali, lo so, selezionano freddamente l’utile dall’inutile di ciò che sentono.

Ma io pavento che, nonostante la Vostra consumata esperienza, Voi possiate comunque correre il rischio di eliminare, tra le altre, una parola oggettivamente inutile, ma illuminante e inaspettata nelle Vostre meditazioni. Signori del Tribunale, riflettete, È colpevole? È innocente? Non lo so, ve lo giuro. Non chiedo mai al mio cliente se quello che mi racconta sia vero. Non sono qui per assolvere o condannare ma per difendere.

Dice l’accusa che quest’uomo ha violentato una povera giovane. Ebbene, considerate con pazienza, con libera fiducia quanto Vi andrò a dire. La società, quella società che Voi ritenete doverosamente di difendere con la Vostra sentenza, trova naturale fondamento su alcuni principi che in questa circostanza si debbono evocare con accenti alti e forti. Sono i principi del bilanciamento o dell’equilibrio o dell’armonia. Tra quali elementi? Ma tra gli elementi primordiali della vita e della morte, della luce e delle tenebre, della vittoria e della sconfitta. Solo nell’equilibrio armonico di queste forze che si battono in eterno consiste la quiete dell’esistente.

Signori del Tribunale, ma forse che, quando Voi ammirate la natura incontaminata, quando i Vostri occhi scorrono tra i colori dei fiori di un giardino e si beano di quegli istanti fuggevoli di pace e di concordia assoluta, quando respirate col respiro dei boschi, forse che Voi ignorate che, tra due foglie, sotto una pietra, nel fondo del bosco, quella natura, che vi si mostra in vesti incantevoli,  è in realtà tutta un agitarsi di violenze, di lotte mortali, di spasimi per la sopravvivenza?

Orbene, Signori, non dissimile da ciò è il caso della società di quegli animali chiamati "umani", non dissimile è addirittura la situazione che nel medesimo corpo di ogni singolo essere si determina perché quel corpo viva la sua breve e incantata vita. E, nella lotta cosmica di ogni attimo, solo colui che sopravvive consente il prolungarsi della vita del tutto. È colui che sopravvive e così facendo può far vivere altri singoli e, con questi, l’intero. Ecco l’unico soggetto che interessa alla natura, non gli altri che soccombono, che escono dalla comune, che si mettono da soli fuori dal gioco infernale.

Riflettete sulla vita che vive e non solo sul fatto che dicono abbia commesso quest’uomo. Vi ricordate del Manzoni? "Se foste stato il più forte sarei stato con voi!"  E, come nella natura è solo il vincitore che trova considerazione, così anche nella società - che della natura è la necessaria copia o filiazione o sublimazione - solo il vincitore gode dei favori dell’intero mondo. E, badate, che per vincitore non intendo colui che intenzionalmente fa soccombere l’antagonista, ma anche colui che si trova nella situazione più favorevole; penso ai figli, Signori del Tribunale, figli di ogni specie vivente: una volta generati e allevati e pronti per altri generare, coloro che li hanno generati e allevati e resi pronti ad altri generare sono dalla natura accantonati, hanno esaurito il loro compito. Si levino di torno oppure badino da soli a sé stessi senza invocare pietà o giustizia, perché la natura è già più avanti che pensa ad altro. E così in eterno.

Considerate gli avvenimenti della storia. Eroi sono sempre i vincitori, sono quelli che incarnano i nostri desideri e le nostre ambizioni: mai ci identifichiamo con i perdenti non solo perché perdenti ma anche perché incapaci di altro se non che di perdere. I miseri sono commiserati, sono blanditi con promesse di mondi futuri e lontani dove potranno essere perdenti e non per questo infelici, anzi dove saranno, proprio perché perdenti, più felici dei vincitori, il che significa riconoscere che soltanto i vincitori hanno qui ed ora il diritto di essere felici.

È una storia lunga, lunga quanto la storia dell’universo, ma che ci si ostina a non voler intendere e così si cade nel banale e nell’errore.

Ma voglio tornare al nostro caso, Presidente, il mio cliente ha forse commesso ciò che l’accusa sostiene abbia commesso, ma quale condanna può meritare se non una condanna puerilmente morale? La vera condanna deve infliggersi a chi contrasta le leggi della natura, a chi ne turba l’ordinato e millenario svolgersi, a chi ritiene che la propria azione sia più giusta di quella che le forze primigenie impongono. Ricordo che un Procuratore, vecchio quando io ero giovane, diceva che ad ogni reato che si commette si apre nei cieli un conto che dovrà essere chiuso con la stessa moneta, cioè con la stessa sofferenza ma di segno contrario, e che solo dopo che il reo ha patito ciò che ha fatto patire si potrà cominciare a processarlo per aver egli fatto aprire quel conto nei cieli, per aver turbato l’ordine del creato. Taglione?

No, il conto da pagare - diceva - era composto di due voci: quella relativa alla vittima e quella relativa alla Comunità.

Giustizia etica, questa, Presidente, la più distante dalla vita vera, dalla Verità. In quale società naturale si può riscontrare una simile insensatezza? Il Procuratore morì rabbioso quando si affermò l’attuale principio della parità tra lo Stato e l’accusato e non quello della innaturale parità tra la parte offesa e l’accusato; morì rabbioso vivendo tale principio come una intrusione di estranei nel rapporto di dolore tra il colpevole e la vittima. Impostazione errata, Illustri Signori, perché non si tratta di un rapporto "di dolore" bensì di un rapporto "di vita" tra due soggetti in tenzone tra loro, dove l’unico che merita il nostro interesse è il vincitore.

Nazismo? No, miei Signori, non cado così in basso, non mi richiamo a meschini regimi politici transeunti, parlo di principi cosmici.

Per quanti sforzi di memoria possa io fare, non riesco a ricordare interessi in favore delle vittime dei più atroci delitti almeno pari a quelli suscitati dai colpevoli.

Chi, Signori del Tribunale, si prende cura della vedova dell’assassinato? chi pone mente all’assassinato stesso se questi non è persona eccellente, un vincitore in altri tornei? Chi si preoccupa del corpo dello sbandato scoperto sul greto del fiume? E invece, quanti e quanti si occupano delle vicende personali, addirittura private, intime, dell’assassino?

Un tempo - quando i fatti si vivevano direttamente, con i suoni, gli odori, i gemiti della realtà non medializzata - si andava ai processi per vedere l’assassino, non certo la vittima. L’ingresso dell’imputato era sempre un colpo di teatro, destava sensazione; brividi di emozione trapassavano per la folla. Io stesso, difensore, li indovinavo con innegabile piacere nei mormorii soffocati, nei sospiri sempre più intensi, perfino nei silenzi gonfi di tensione.

Siate sinceri con Voi stessi, Giudici, ammettetelo: la vittima annoia, non accende la curiosità, ci appare piegata come una mendicante, è addirittura importuna, infastidisce, e questo forse perché ci ricorda qualcuno, qualcuno che conosciamo fin troppo bene e che cerchiamo di nascondere nel fondo di noi stessi.

L’accusato no, lui seduce.

È lui il vincitore della contesa vitale, contesa che è venuta alla superficie e non è più sotterranea e segreta come le contese nostre di ogni giorno, guerreggiate sotto il velame della ipocrisia, dell’ignavia o della vigliaccheria grazie alla quale ci definiamo civili, tolleranti e bugiardamente buoni. Quale rilievo ha mai l’accusato! quale fascino emana la sua ambiguità! Colpevole o innocente?

Quanta commozione hanno sempre destato i criminali, quante donne - la parte più sensitiva e quindi più naturale dell’umanità - si sono innamorate dell’assassino! e invece quali mai uomini sono stati attratti dalle stuprate, dalle abbandonate, dalle umiliate? Con la sola loro presenza, i grandi criminali hanno eccitato fino all’isteria moltitudini di folle.

Lettere, profferte d’amore, addirittura richieste di matrimonio e matrimoni celebrati con assassini prima sconosciuti... amore, sì, anche da parte delle religiose che li assistono, che li nutrono del loro caritatevole latte virginale.

È a tutti noto, Signori Giudici, che, se subito dopo la violenza commessa è possibile - per quel fenomeno di contagio proprio della violenza - che l’assassino venga ghermito e linciato, allorché il tempo ha fatto sfumare il fremito della recente brutalità e la natura ha ripreso il suo dominio sulle sensazioni, quando cioè l’assassino è stato sottratto alla furia momentanea e proposto per il processo, allora la sua azione criminale, come un lievito stregato, inizia l’opera misteriosa di adescamento degli animi di quelli stessi che al momento del fatto lo avrebbero linciato e ne raccoglie subdolamente prima le simpatie, poi il consenso e infine la comprensione completa. Esseri che patiscono per i suoi patimenti come non si sono mai sognati di patire per le sofferenze da quello inferte alla vittima.

E se poi la vittima non è una persona fisica, ma ad esempio lo Stato, allora i patimenti dell’accusato, qui totalmente abusivi, si mutano in rancore nei confronti di chi glieli infligge, e lui, l’imputato, si radica, come il martire, nel cuore di ognuno e nelle memorie di tutti. È lui il vincitore che tutti vorrebbero essere.

Non è sociologia, Giudici, che voi non apprezzate, non è psicologia che voi disdegnate: lo stesso Codice che voi venerate e in ossequio al quale pronuncereste qualsiasi sentenza, dico “qualsiasi” rispetto a quanto sto dicendo, lo stesso Codice proclama a gran voce ciò che ora vi può sembrare paradosso o addirittura motivo di scandalo.

Non sarò io ad insegnarvi ciò che esiste nel Codice, mi basterà richiamare alla Vostra attenzione alcune linee che uniscono punti distanti che possono sembrare, da soli, insignificanti in senso letterale. All’imputato è consentito di non presentarsi al processo, di non rispondere al giudice che lo interroga o anche di mentire, senza che ne subisca alcuna conseguenza; alla vittima non è consentito nulla di tutto questo: se non si presenta davanti al giudice viene prelevata a forza, se mente o anche se solo non risponde viene punita. L’imputato che si presenta parla solo e quando gli aggrada, a suo piacimento. Se l’imputato si contraddice si ha comprensione per lui pensando al suo stato di precarietà psicologica; al contrario, se la vittima nei suoi ricordi non è assolutamente certa e precisa e convincente riscuote la rabbia dell’accusa, il dileggio della difesa e il crucifige del pubblico.

La vittima è conclusivamente un elemento tollerato che disturba il processo!

Tutta la nostra legge scritta e non scritta è rivolta al ruolo di primo piano dell’accusato. Ruolo che si esalta ancor più se poi l’accusato è giudicato colpevole. Accanto a coloro - e lo sapete non sono pochi - che vedono nella sua condanna il frutto naturale della perfidia dei giudici sempre prevenuti o quanto meno della iniquità della legge sempre repressiva, non potete negarlo miei Signori, ci sono quelli che ravvisano nella sua pena la pena universale, la pena che deve essere consolata, e dalla consolazione all’amore il passo è breve. Ricordate ancora, Signori Giudici, i rappresentanti del popolo, i nostri eletti? Eletti perché da noi scelti ed eletti perché spiriti eletti, i migliori di tutti noi. Essi si fanno vanto di recarsi sovente nelle prigioni, da soli o meglio in deputazione, a confortare, a rincuorare, a rassicurare, a controllare, a manifestare ogni compassione, ad ispezionare il trattamento subito dai colpevoli, a verificare che nessuna sofferenza li affligga oltre la deplorevole e deplorata privazione della libertà.

Al colpevole essi rendono inconsapevole omaggio come i Magi splendenti al bambino povero che, nella esposta umiltà, era invece il loro Re. Avete mai visto deputazioni di eletti deporre oro, incenso e mirra sulla soglia di una vittima?

Niente si dimentica più facilmente del perdente, l’assassinato sopravvive quel tanto che vive chi lo ricorda. Non merita riflettori. La realtà lo travolge.

Signori, tutto ciò che è reale è razionale! Ecco che davanti a Voi sta una delle parti del conflitto eterno, quella che è riuscita vittoriosa dallo scontro. La punizione che potreste infliggerle violerebbe le leggi della natura, anzi dell’universo tutto, ancorché conseguente ai miseri suggerimenti di un povero codice, inadeguato ed inaffidabile come ogni umano prodotto, il quale pretende presuntuosamente di contrastare i dettami delle divine leggi, fisse come stelle nel cielo del tempo. E chi è poi la controparte di questo vincitore? Quasi nessuno o, meglio, quasi nulla.

Perché mai la parte offesa dovrebbe godere della Vostra preziosa considerazione? Essa è degna dei vincitori quali, per altro, Voi stessi siete! Infatti, Voi state "per natura" dalla medesima parte del mio cliente, non vorrete quindi tradire Voi stessi e preoccuparvi di chi è già stato condannato dalla vita come perdente. Mi lusingo che questa mia ultima arringa, priva per una volta dei tartufismi consuetudinari, possa aver fatto cadere in Voi le cortine delle ipocrisie utopiche egalitaristiche o umanitaristiche e vi abbia fatto scorgere, anche solo per un attimo, la sfera di luce e di gloria ove troneggia la Verità che tutti insieme ricerchiamo sopra ogni cosa.

L’accusato, specie se colpevole, non deve essere punito, Vi dico, tal come non lo debbono essere i corridori che hanno tagliato per primi il traguardo facendo torto agli altri concorrenti. Ora, Signori del Tribunale, io, in nome della Verità, vado a stringere la mano all’accusato nella certezza di rappresentare anche Voi, finalmente risvegliati dal troppo lungo sonno dell’errore. Grazie.