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La mora e l’usura. La Cassazione reinterpreta le Sezioni Unite

La sentenza n. 27442 del 30 ottobre 2018
La mora e l’usura. La Cassazione reinterpreta le Sezioni Unite
La mora e l’usura. La Cassazione reinterpreta le Sezioni Unite

Indice

1. Premessa

2. La sentenza 27442 del 30 ottobre 2018

3. Prime riflessioni

 

Premessa

La Suprema Corte, occupandosi dell’usura nella mora, con una circostanziata ed approfondita esegesi sulla natura e funzione degli interessi di mora e degli interessi corrispettivi, perviene a stabilire un rigoroso e diretto rapporto del costo della mora alla soglia d’usura riportata dai decreti ministeriali per la categoria di credito interessata, escludendo ogni maggiorazione e/o diverso criterio di confronto. Con tale assunto la pronuncia in parola viene a limitare apprezzabilmente, finanche a discostarsi sostanzialmente dal principio di omogeneità del confronto nella verifica dell’usura, stabilito dalla recente sentenza delle Sezioni Unite n. 16303 del 20 giugno scorso. Nel contempo, tuttavia, contraddicendo le stesse conclusioni alle quali le minuziose riflessioni sviluppate nel corpo della sentenza inevitabilmente conducono, con una stringata quanto apodittica affermazione fuori dall’oggetto stesso dell’impugnazione, ha ritenuto aggiungere l’inapplicabilità dell’articolo 1815 del Codice Civile agli interessi di mora usurari, discriminando gli interessi di mora dagli interessi corrispettivi, ponendosi in tal modo in contrasto con la stretta sovrapposizione di tale articolo all’articolo 644 del Codice Penale sulla quale si fonda l’altra pronuncia delle Sezioni Unite n. 24675 del 19 ottobre 2017.

 

La sentenza n. 27442 del 30 ottobre 2018

Sulla base di una puntuale visitazione dei criteri di ermeneutica legale - condotta attraverso una minuziosa interpretazione sul piano letterale, sistematico, finalistico e storico - la sentenza stabilisce che il divieto di pattuire interessi eccedenti la misura massima prevista dall’articolo 2 della legge 108/96 si applica sia agli interessi corrispettivi ex articolo 1282 del Codice Civile, sia agli interessi moratori ex articolo 1224 del Codice Civile [1]. L’ampia formulazione degli articoli 644 del Codice Penale, dell’articolo 2 della legge 108/96, dell’articolo 1 del Decreto Legge 394/00, dimostrano che, ai fini dell’usura, la legge non consente distinzione di sorta tra i due tipi di interessi.

La Cassazione ritiene di nessun rilievo la circostanza che la rilevazione da parte del MEF degli interessi medi praticati dagli operatori non prenda in considerazione gli interessi moratori, né tanto meno considera le rilevazioni campionarie della Banca d’Italia, da ultimo aggiornate e modificate (Cfr. G.U. 30 dicembre 2017, n. 303). “L’art. 2,  comma 1, l. 108/96 stabilisce infatti che la rilevazione dei tassi medi debba avvenire per “operazioni della stessa natura”. E non v’è dubbio che con l’atecnico lemma “operazioni” la legge abbia inteso riferirsi alle varie tipologie contrattuali. Ma il patto di interessi moratori convenzionali ultralegali non può dirsi un’ “operazione” e tanto meno un tipo contrattuale. (...) È dunque più che normale che il decreto ministeriale non rilevi la misura media degli interessi convenzionali di mora, dal momento che la legge ha ritenuto di imporre al ministro del tesoro la rilevazione dei tassi omogenei per tipo di contratto, e non dei tassi di interesse omogenei per titolo giuridico”.

La sentenza rigetta altresì il reiterato riferimento alla legge contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali tra imprenditori, che prevede, come interesse legale di mora, un saggio del 9,25% che può risultare superiore alle soglie d’usura. L’articolo 5 del Decreto Legislativo 231/02 fissa il saggio “legale” di mora nelle transazioni commerciali, ma lascia alle parti la facoltà di derogarvi. Se le parti vi derogano, il patto di interessi moratori non sarà più disciplinato dal Decreto Legislativo 231/02, ma dalle restanti norme dell’ordinamento, dunque dall’articolo 2 legge 108/96.

Richiamando infine la Corte Costituzionale n. 29/02 e le reiterate pronunce della Cassazione intervenute nel corso degli ultimi vent’anni, si stabilisce il principio di diritto: “è nullo il patto col quale si convengono interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui all’articolo 2 della l. 7.3.1996 n. 108, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali”.

A detto principio viene altresì aggiunta la precisazione che, in assenza di qualsiasi norma di legge, l’usurarietà degli interessi moratori vada accertata in base al saggio rilevato ai sensi dell’articolo 2 della legge 108/96 (tasso soglia calcolato con riferimento al tipo di contratto) e non in base ad un “fantomatico tasso” talora definito nella prassi di “mora- soglia”, ottenuto incrementando arbitrariamente di qualche punto percentuale il tasso soglia.

Le dotte e circostanziate argomentazioni sviluppate nel corpo esteso a tutta la sentenza, volte a confermare l’insussistenza di ogni distinzione “funzionale” fra interessi corrispettivi e moratori, vengono completamente obliterate in un contraddittorio rigurgito finale,   nel   quale,   travalicando   l’ambito   dell’impugnazione,   viene   apoditticamente stabilito:  “nonostante  l’identica  funzione  sostanziale  degli interessi corrispettivi  e  di quelli moratori, l’applicazione dell’articolo 1815, comma secondo, cod. civ. agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa: il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale”.

In definitiva, mentre il divieto di pattuizione usuraria previsto dall’articolo 644 del Codice Penale, integrato dall’articolo 2 della legge 108/96 si estende sia agli interessi corrispettivi che agli interessi di mora, questi ultimi rimarrebbero esclusi dalla sanzione prevista nell’articolo 1815 del Codice Civile.

 

Prime riflessioni

Il testo della sentenza si manifesta completo, lucido, chiaro e consequenziale in tutti gli elementi propriamente attinenti l’oggetto di impugnazione ivi compresa la notazione finale con la quale si previene ogni ulteriore contenzioso, escludendo alla mora l’applicazione del principio di simmetria e omogeneità stabilito dalla Cassazione S.U. n. 16303/18 ed evitando in tal modo quella sorte di ‘spezzatino’ della soglia [2], esteso dalla CMS alla Mora soglia con l’adozione, anche per quest’ultima, del criterio di confronto suggerito a suo tempo dall’ABI e solo tardivamente fatto proprio dalla Banca d’Italia nella comunicazione del 3 luglio 2013 [3].

La menzionata sentenza delle Sezioni Unite n. 16303/18 risulta ridimensionata nel criterio di simmetria ed omogeneità che aveva indotto la Suprema Corte, per evitare l’illegittimità dei decreti del MEF, ad apprezzare, in una specifica comparazione, il valore della CMS media, inclusa, seppur separatamente dalle soglie, nei decreti stessi e nonostante che tale commissione si ponesse come elemento di costo distinto e comunque trasversale a più categorie di credito (Aperture di credito, Anticipazioni e Factoring). In questa pronuncia l’invarianza ed unicità della soglia rimane ferma sulla categoria di credito, a dispetto di ogni simmetria, omogeneità, inclusione nei decreti della mora media e della sua trasversalità applicativa.

Tuttavia, non può non destare sconcerto e disorientamento la parte conclusiva della sentenza, con la quale viene negata alla fattispecie della mora in usura la sanzione civile dell’articolo 1815 del Codice Civile. Balza agli occhi l’antinomia fra argomentazioni e conclusioni, per la manifesta contraddizione con il profluvio di argomentazioni che, nella determinazione   dell’usura, travalicando  pur anche il  concetto di assimilazione, pervengono a stabilire l’identità sostanziale degli interessi corrispettivi agli interessi di mora. Si attribuisce un rilievo determinante alla discriminazione fra interessi corrispettivi ed interessi di mora quando la stessa sentenza giudica tralatizia la distinzione della funzione remunerativa degli interessi corrispettivi dalla funzione risarcitoria di quelli moratori, distinzione valutata un “aforisma scolastico”, non giustificata sul piano storico e sistematico, ritenuta un “mantra” che “resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale nonché la pigrizia esegetica”.

Non si vede, per altro, come l’esclusione dall’applicazione dell’articolo1815 del Codice Civile agli interessi di mora in usura possa conciliarsi con il dettato della sentenza delle Sezioni Unite n. 24675/17. In quest’ultima si precisa: “La ragione della illiceità risiederebbe, come si è visto, nella violazione di un divieto imperativo di legge, il divieto d’usura, e in particolare il divieto di pretendere un tasso d’interesse superiore alla soglia dell’usura come fissata in base alla legge”. Aggiunge nel proseguo: “Una sanzione (che implica il cod. civ. – pure oggetto dell’interpretazione autentica di cui si discute – il quale però presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nella norma penale integrata dal meccanismo previsto dalla legge n. 108. Sarebbe pertanto impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare applicazione dell’articolo 644 cod. pen.”.

Alla luce di quanto asserito dalle Sezioni Unite n. 24675/17, una volta accertato il presupposto degli interessi usurari, nella nozione allargata definita dall’articolo 644 del Codice Penale integrata dal meccanismo delle legge 108/96 – indipendentemente dal fatto che siano corrispettivi o moratori – risulta automatica la sanzione dell’articolo 1815, secondo comma, del Codice Civile. D’altra parte, al momento originario, l’obbligazione accessoria va considerata come un tutt’uno con la principale, fondendosi interessi corrispettivi e interessi moratori, nei possibili scenari del rapporto di credito prospettati nel contratto predisposto dall’intermediario.

Non si comprende come l’inconsistenza, pur riconosciuta alla diversa causa degli interessi  corrispettivi  e  moratori,  possa  giustificare  un’interpretazione  radicalmente diversa dall’articolo 1, comma 1 della legge 24/01 “Ai fini dell'applicazione dell'articolo 644 del codice penale e dell'articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono  promessi  o  comunque  convenuti,  a  qualunque  titolo,  indipendentemente  dal momento del loro pagamento”. Aspetto ulteriormente ribadito dalla Corte Costituzionale n. 29/02 “L’articolo 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, nel precisare che le sanzioni penali e civili di cui agli artt. 644 cod. pen. e 1815, secondo comma, cod. civ. trovano applicazione con riguardo alle sole ipotesi di pattuizioni originariamente usurarie, impone - tra le tante astrattamente possibili - un’interpretazione chiara e lineare delle suddette norme codicistiche, come modificate dalla legge n. 108 del 1996, che non è soltanto pienamente compatibile con il tenore e la ratio della suddetta legge ma è altresì del tutto coerente con il generale principio di ragionevolezza”.

La sentenza ultima nella conclusione finale relativa all’applicazione dell’articolo 1815 del Codice Civile sembra contrapporsi alla giurisprudenza prevalente, condividendo con le S.U. n. 24675/17 la violazione del presidio penale, privata tuttavia della sanzione civile, che rimane inefficace, non proporzionata, né dissuasiva. Né si potrebbe ravvisare una forma di conciliazione con la pronuncia delle S.U. osservando che la sentenza in parola non si è espressa sul trattamento degli interessi corrispettivi nel caso di mora in usura. Potrebbe la circostanza leggersi nel senso che la sanzione dell’articolo 1815 del Codice Civile colpisca gli interessi corrispettivi, lasciando al danneggiato l’onere degli interessi di mora al tasso legale sul capitale da restituire; se così fosse, ma anche in caso contrario, l’aspetto andava opportunamente precisato, oltre che motivato nella distinzione.

La giurisprudenza in campo bancario da oltre un ventennio è attraversata da un susseguirsi di pronunce che, in breve volger di tempo, vengono modificando sistematicamente il quadro giuridico di riferimento, segnalando al di là della fisiologica evoluzione giurisprudenziale, una patologia dello jus dicere orientato ad un solipsismo giudiziario, alimentato da incertezze, conflittualità e interferenze alle quali non sempre appare contrapporsi una ferma intransigibilità. La dimensione dei risvolti economici coinvolti inducono valutazioni spurie ed estranee che spesso non si conciliano con il rigore e la fermezza dei principi giuridici.

La certezza del diritto e la connessa stabilità dei rapporti giuridici passano necessariamente attraverso un rafforzamento della funzione nomofilattica della Suprema Corte di Cassazione, dalla quale l’operatore economico si attende una maggiore razionalità, prevedibilità ed uniformità del decidere.

[1] Nell’interpretazione letterale vengono richiamati l’articolo 644 del Codice Penale, la norma di attuazione articolo 2, comma 4 legge 108/96 e l’articolo 1, comma 1 del Decreto Legge 394/00, precisando altresì che il richiamo agli interessi pattuiti “a qualsiasi titolo”, rende palese l’estensione del divieto agli interessi di mora, conclusione confermata dai lavori preparatori della legge 24/01.

Nell’interpretazione sistematica si precisa che tanto gli interessi corrispettivi che quelli moratori sono soggetti al divieto, costituendo la remunerazione di un capitale di cui il creditore non ha goduto: nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente. Il danno patito dal creditore d’una obbligazione pecuniaria altro non è che la conseguenza del principio economico della naturale fecondità del denaro: tanto gli interessi corrispettivi quanto quelli moratori ristorano il differimento nel tempo del godimento d’un capitale. Nell’interpretazione dell’articolo 1224 del Codice Civile il danno da ritardato adempimento d’una obbligazione pecuniaria si identifica nella perduta possibilità per il creditore di investire la somma dovutagli e trarne un lucro finanziario. Gli interessi corrispettivi e quelli convenzionali moratori presentano un’identità di funzione giuridica che ne implica l’assoggettamento al divieto d’usura. La distinzione fra funzione remunerativa dei primi e funzione risarcitoria dei secondi è una tralatizia affermazione, espressione sfuggente ed abusata che ha finito per divenire un “mantra” ripetuto all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione del significato.

Nell’interpretazione finalistica si richiama il criterio oggettivo posto dalla legge 108/96 al duplice scopo di tutelare da un lato le vittime dell’usura e dall’altro il superiore interesse pubblico all’ordinato e corretto svolgimento delle attività economiche. Escludere il patto di interessi convenzionali moratori sarebbe incoerente in quanto condurrebbe al risultato paradossale che per il creditore sarebbe più vantaggioso l’inadempimento che l’adempimento, agevolando altresì facili pratiche fraudolenti.

Nell’interpretazione storica si fornisce ampia illustrazione di come la pretesa distinzione “ontologica e funzionale” tra le due categorie di interessi costituisce un falso storico, sorto ed affermatosi per fini non più attuali.

[2] Matematicamente se si fraziona il costo del credito nelle distinte componenti (interessi propriamente detti, CMS, mora, ecc.) e per ciascuna di esse si calcola la media nelle modalità utilizzate dalla Banca d’Italia, ne risulta una somma delle medie marcatamente più elevata, che induce un’indebita edulcorazione del presidio di legge.

[3] La Banca d’Italia, perseverando nel sostenere – dopo la CMS soglia - il riferimento alla Mora soglia, ha già provveduto ad aggiornare la rilevazione campionaria del valore medio della mora applicato dagli intermediari creditizi; nel Decreto del MEF, relativo ai tassi soglia del I trimestre 2018, si riporta: “Secondo l’ultima rilevazione statistica della Banca d’Italia d’intesa con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, i tassi di mora pattuiti presentano, rispetto ai tassi percentuali corrispettivi, una maggiorazione media pari a 1,9 punti percentuali per i mutui ipotecari di durata ultraquinquennale, a 4,1 punti percentuali per le operazioni di leasing e a 3,1 punti percentuali per il complesso degli altri prestiti”.

Come si è avuto modo di osservare: “Lo squilibrio delle prestazioni risulterà ancor più stridente con le recenti modifiche introdotte dalle Istruzioni della Banca d’Italia del 2016. Nelle nuove Istruzioni ’16, infatti, si riporta: “il mancato rientro di un’apertura di credito scaduta o revocata dovrà essere segnalato, dalla data di scadenza o di revoca, tra i passaggi a debito dei conti non affidati”, che corrisponde alla Categoria degli “scoperti di conto”.(...) Con tale modifica, introdotta a partire dal 1 aprile ’17, senza patto successivo e senza alcun riferimento all’erogazione della prestazione prevista dall’articolo 644 del Codice Penale, con la scadenza del fido o con la revoca dello stesso, unilateralmente disposta dall’intermediario, in presenza di insolvenza, cioè di credito in mora, si escogita un finto momento genetico del contratto per introdurre una “sopravvenuta” soglia d’usura, innalzata del 48% (dal 15,15% delle Aperture di credito al 22,45% del “Credito in mora”, alias “Scoperto di conto”, IV trim. ’17). Queste anacronistiche ‘manipolazioni’ delle Categorie, con la creazione di “sopravvenute” soglie d’usura, apriranno nuovi e seriali varchi di conflittualità, risultando palmare la contraddizione con la stessa pronuncia della Cassazione S.U. n.24675/17 che ha avuto modo di stabilire: “Sarebbe pertanto il “momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento””. R. Marcelli, Usura e tasso di Mora. Sancita la verifica alla pattuizione: riflessi operativi (Cassazione n. 23192/17, Cassazione Sezioni Unite n. 24675/17).