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Procedure Concorsuali e Pubblica Amministrazione: la fallibilità delle Società Pubbliche

Procedure Concorsuali e Pubblica Amministrazione: la fallibilità delle Società Pubbliche
Procedure Concorsuali e Pubblica Amministrazione: la fallibilità delle Società Pubbliche

Il tema riguardante la possibile assoggettabilità delle Società Pubbliche al regime del fallimento e delle procedure concorsuali è argomento assai recente e cavalca indistintamente, sia in dottrina che in giurisprudenza, giudizi favorevoli o di assoluta contrarietà.

Le ipotesi di assoggettabilità, peraltro corroborate da una naturale predisposizione giuridica alla tutela degli eventuali creditori, trova riscontro (tra le altre) da una pronuncia giurisprudenziale (Tribunale Napoli – Sezione VII – 31 ottobre 2012) secondo la quale “l’esenzione dalle procedure concorsuali di tali Società pregiudicherebbe sia l’interesse dei creditori, sia l’interesse pubblico, sia (potenzialmente) l’interesse della stessa Società”, con ciò violando la regola della “par condicio creditorum” e di fatto creando una palese disparità di trattamento tra crediti vantati verso società pubbliche e crediti vantati verso società private, alterando, dunque, le forme minime di tutela del credito approntate dal legislatore.

L’idea di fondo è che la società pubblica sia trattata alla stregua di una normale società di capitali e disciplinata, nei tratti amministrativi peculiari, da quelle norme poste in essere dal legislatore civile e riportate nel Titolo V del Codice Civile.

Considerando ciò, la eventuale assoggettabilità alle normali procedure concorsuali all’uopo previste trova chiaramente la sua ragion d’essere.

Tale impostazione, però, non ha compiutamente convinto la recente giurisprudenza (Corte di Cassazione, Sentenza n. 10068/11), che in più occasioni ha elaborato, con cognizione di causa, una teoria diametralmente opposta e tendente, in maniera decisa, all’esclusione del fallimento delle società pubbliche.

La motivazione, peraltro recepita e riproposta in altre pronunce giurisprudenziali (Tribunale Fallimentare di Palermo, Decreto dell’8 gennaio 2013), risulta essere quella della carenza di un requisito fondamentale per la legge fallimentare, ossia la impossibilità, per le società pubbliche, di essere assoggettate al regime fallimentare in quanto effettuanti attività di carattere non imprenditoriale.

La mancanza di questo requisito, peraltro riportato nell’art. 1 della “Legge Fallimentare” quale condicio sine qua non, ne escluderebbe tout court tanto la fallibilità quanto la possibilità di accesso alla procedura di “amministrazione controllata”.

Secondo tale impostazione, accolta dalla dottrina con discreto favore, dovrebbero essere gli stessi Enti Pubblici controllanti a dover garantire, col proprio patrimonio, gli eventuali creditori insoddisfatti, a cui non resterebbero altri rimedi che quelli classici e non sempre efficaci del decreto ingiuntivo o, per fare un esempio tra tutti, del pignoramento.

La situazione muta con una nuova pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (Sentenza n. 22209/13), la quale, ammettendo chiaramente l’assoggettabilità al fallimento di una società per la gestione dei rifiuti e partecipata al 51% da un ente pubblico, nelle motivazioni afferma categoricamente che, laddove un ente decida di avvalersi dello strumento societario di privatistica istituzione, di conseguenza avrebbe dovuto ponderare tutte le eventuali conseguenze intrinseche allo stesso, come, ad esempio, la eventualità di incappare nella procedura fallimentare.

A sostegno della decisione, la stessa Corte aggiunge che:

  • non osta alla dichiarazione d’insolvenza il pericolo relativo alla possibile interruzione del “servizio pubblico essenziale”, atteso che la stessa “Legge Fallimentare” prevede strumenti specifici per la gestione provvisoria della Società fallita;
  • gli impianti necessari alla prosecuzione del Servizio rimangono di proprietà pubblica: così, nonostante la procedura fallimentare, l’Ente pubblico proprietario ha la possibilità di affidare ad altri soggetti terzi la gestione dei servizi senza interrompere il servizio.

E conclude affermando, “..secondo quanto è stato correttamente rilevato in dottrina, che la scelta del Legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a Società di capitali - e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico - comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti  che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la  necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di  trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità”.

A sostegno di questa tesi interviene dapprima e nuovamente la Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 237702/13) stabilendo che “l’organizzazione di un servizio pubblico secondo un modello privatistico non solleva l’Ente organizzatore dai vincoli di finanza pubblica ma non lo sottrae neppure, salva espressa eccezione, alla normativa civilistica propria del modello, come avviene appunto per le Società per azioni. Fatte salve le espresse cautele di legge, vincoli di finanza pubblica e garanzie giuslavoristiche non sono in contraddizionePer quanto concerne i rapporti di lavoro è certo che l’impegno di capitale pubblico sottomette le assunzioni ai principi costituzionali di imparzialità e di economicità, quali specificazioni del principio di buon andamento, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., e dei quali è espressione nel pubblico impiego l’art. 35 del Dlgs. n. 165. … Le assunzioni al lavoro infatti non sono rimesse al mero arbitrio degli Amministratori. Ma tutto ciò non comporta necessariamente la separazione delle garanzie legislative contro l’assoggettamento illimitato dei prestatori di lavoro a situazioni precarie, contrarie alla tutela della libertà e dignità di cui all’art. 36, comma 1, Costituzione e contrastate dalla sopra richiamata normativa europea” e, successivamente la Corte Costituzionale (Corte Costituzionale, Sentenza n. 227/13), secondo cui “lo scopo perseguito dalle Società commerciali affidatarie di servizi pubblici, scopo capace di configurare questi soggetti, sul piano economico-funzionale, come ‘longa manus’ o varianti organizzative degli Enti pubblici, non può portare ad una identificazione dei regimi di assunzione e di trattamento dei lavoratori dipendenti”.

Alla luce dei fatti sopra descritti, resta confermata l’assoggettabilità delle società pubbliche ai regimi fallimentari, con ciò decretando una sorta di livellamento della normativa applicabile alle ipotesi di insolvenza, nel rispetto del modello societario prescelto e a conferma della “par condicio creditorum” tra pubblico e privato.