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Trattativa Stato - mafia: la sentenza di secondo grado per Calogero Mannino

Parte settima: procedimento sulla trattativa
Son of Man, Renè Magritte, 1964,  olio su tela, 116 x 89 cm, collezione privata
Son of Man, Renè Magritte, 1964, olio su tela, 116 x 89 cm, collezione privata

Questo scritto è stato originariamente pubblicato l'8 aprile 2020 dalla rivista Diritto Penale e Uomo. Viene adesso ripubblicato, per gentile concessione della direzione della predetta rivista, nella rubrica "La linea della palma" di Filodiritto" .

 

3.4.2 La sentenza della Corte di appello di Palermo

Il 22 luglio 2019 la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza di primo grado che era stata impugnata dalle parti civili e dalla Procura[1].

La decisione, in conseguenza di un’importante rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (che ha compreso il riesame dei dichiaranti Ciancimino e Brusca e l’acquisizione di fonti documentali), si è giovata di dati conoscitivi di notevole ampiezza.

Si riportano, come di consueto, le conclusioni finali, contenute nelle pagg. 1135 e ss. della motivazione.

«È pacifico […] che la reazione violenta decisa da Totò Riina all’azione posta progressivamente in essere dallo Stato contro “cosa nostra” mediante la legislazione antimafia del 1991 […] e le gravi condanne inflitte all’esito del primo maxiprocesso, confermate dalla Cassazione il 30 gennaio 1992, fu deliberata dal capo corleonese in prossimità della suddetta decisione, alla fine del 1991 […] dunque almeno sei mesi prima del contatto intercorso tra Mori, De Donno e Vito Ciancimino – e con evidenti finalità non ricattatorie, ma di vendetta reattiva […].

La strategia avviata con l’omicidio Lima e certamente proseguita con le stragi di Capaci e quella di Via D’Amelio non era certamente quella finalizzata ad ottenere dallo Stato concessioni o a indurlo a trattare. Si legga, a tal riguardo, uno stralcio della sentenza resa in data 6.6.1998 dalla Corte d’Assise di Firenze che ha escluso il vincolo della continuazione tra gli omicidi del 1992 e gli attentati a Firenze e Roma negli anni 1993 – 1994 (le ‘cd. Stragi in continente’) ed ha, quindi, ritenuto la competenza territoriale […].

A tale condivisa valutazione […] deve aggiungersi che, comunque, l’omicidio Lima e la strage di Capaci non possono in alcun modo integrare le minacce di cui all’art. 338 c.p. alla cui trasmissione allo Stato, secondo la contestazione della rubrica, avrebbero variamente concorso diversi esponenti delle istituzioni, giacché a quell’epoca il contatto – finalizzato, secondo l’accusa, ad una trattativa con ‘cosa nostra’ – tra Mori, De Donno e Ciancimino non si era ancora compiutamente realizzato e, dunque, non si era certamente creato, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, il presupposto per l’eventuale veicolazione, attraverso soggetti istituzionali, concorrenti esterni alla minaccia, delle proposte contenute nel cd. ‘papello’, dietro il ricatto di ulteriori stragi.

In tale contesto, poi, non è stato affatto dimostrato che il Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura il buon esito del primo maxi processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria per il reato di cui agli artt. 110, 416-bis c.p., che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘cosa nostra’ quale esponente del governo nel 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno. […] L’ipotesi del suo coinvolgimento nella fattispecie di cui in rubrica, non solo, dunque, non è riscontrata, ma si appalesa, ancora una volta, illogica. […].

Tutte le fonti, sia quelle dirette (Mori, De Donno), sia quelle indirette e provenienti, peraltro, non solo da personalità istituzionali di pacifica onestà e integrità morale, ma viepiù caratterizzate tutte dall’essere unite, in quel particolare periodo storico, nella lotta – concretizzatasi, ciascuna per le proprie competenze, nella specifica attività parlamentare, di governo, ministeriale – alla mafia – sono state convergenti nel descrivere l’iniziativa degli ufficiali del ROS come segue.

Si sarebbe trattato di un’operazione info – investigativa di polizia giudiziaria, comunicata da Mori e De Donno al loro diretto superiore gerarchico che allora era il generale Subranni (Comandante del ROS dal 1990 al 1993), realizzata attraverso la promessa di benefici personali al Ciancimino (per mantenere la quale era stata chiesa quella ‘copertura politica’ intesa nel senso di assecondare, ove possibile, le richieste nell’esclusivo interesse del Ciancimino stesso, prossimo alla carcerazione – così come pacificamente inteso dalla teste Ferraro, dal teste Martelli e dallo stesso Presidente Violante). Tale operazione si proponeva mediante la sollecitazione ad un’attività di infiltrazione in ‘cosa nostra’ del predetto Ciancimino, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, il precipuo fine della cattura di Totò Riina, interrompendo, così, la stagione delle stragi.

Nessuna delle fonti dichiarative sentite, nel descrivere i contatti avviati dal Colonnello Mori per favorire la collaborazione del Ciancimino, ha fatto invece riferimento – ciò che qui in via esclusiva interessa – ad un preesistente ‘mandato’ politico (quello asseritamente costituito dal Mannino, secondo la pubblica accusa) che gli alti ufficiali avrebbero posto a giustificazione di quell’operazione ma, al contrario, hanno tutti univocamente indicato una richiesta di sostegno ‘politico’ ex post rispetto all’iniziativa e consistente nel non ostacolare quell’operazione, eventualmente assecondando, ove possibile, le richieste di benefici personali per il Ciancimino (il passaporto, la restituzione dei beni in sequestro, etc.), dietro l’assicurazione della cattura dei latitanti.

Si è parimenti visto che tale appoggio non venne concesso né dal Ministro Martelli, che si adoperò anzi, in senso contrario, per fare in modo che il Ciancimino non ottenesse il passaporto e che stigmatizzò l’operato del ROS […] né dal Presidente Violante, che rifiutò qualsiasi colloquio informale col Ciancimino, informando della richiesta di Mori il vice presidente della Commissione Antimafia ed invitando il dichiarante ad un’audizione formale, innanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia.

Del resto, appare altamente probabile che gli alti ufficiali del ROS avessero informato di avere preso tale iniziativa anche il giudice Borsellino – che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia […].

Se, dunque, si trattava di iniziativa già discussa dagli alti ufficiali del ROS col giudice o, comunque, prossima all’asseverazione del Borsellino che già ne aveva preso atto senza stupirsene, a fine giugno 1992, parlando con la Ferraro, l’ipotesi che l’operato di Mori e De Donno celasse l’istigazione di Mannino per avere salva la vita, diventa, in tale ricostruito contesto, una remota illazione, priva di qualsiasi giustificazione logica.

Giova, da ultimo, sottolineare che l’avvio di tale iniziativa è stato comunicato – e non occultato, come teorizzato dalla pubblica accusa – in tempo reale dal De Donno e dal Mori al loro diretto superiore gerarchico, il Comandante del ROS, Subranni, a tutte le personalità istituzionali sopra esaminate ed anche all’autorità giudiziaria, tramite il contatto della Ferraro col giudice Borsellino; che all’esito del percorso avviato, dopo l’arresto del Ciancimino, anche il nuovo Procuratore della Repubblica di Palermo, Dott. Giancarlo Caselli, fu accompagnato dagli stessi Mori e De Donno – che avevano proseguito, ottenendone l’autorizzazione della Direzione Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, i colloqui info investigativi col Ciancimino anche quando costui era entrato in carcere, a decorrere dal 20 gennaio 1993 – nel corso dei successivi interrogatori del Ciancimino in quel tentativo, poi abortito, di una collaborazione formale del predetto, durato, tuttavia, oltre un anno.[…]

I PM appellanti […] per dare corpo alla loro tesi dello svolgimento, da parte di Mori e di De Donno, di un’”attività politica occulta” […] hanno insistito sull’omessa verbalizzazione dell’attività posta in essere dagli alti ufficiali del ROS, fino all’arresto di Ciancimino. A ben vedere, rileva la Corte, la mancata verbalizzazione di quell’attività embrionale avente ad oggetto un dialogo appena avviato con una fonte confidenziale passibile di eventuale infiltrazione, era, in realtà assolutamente giustificata e consona alla tipologia di attività svolta […]

Non può, a tale ultimo riguardo, non farsi riferimento alle già esaminate modalità operative del Colonnello Riccio (ovviamente depurate delle gravi illiceità da costui commesse a Genova in operazioni di criminalità organizzata antidroga, per cui il suddetto ha riportato una grave condanna ormai definitiva), che non risulta avere mai verbalizzato alcuna delle dichiarazioni versategli, viepiù nel corso di diversi anni (e non di pochi mesi, come dal Ciancimino), dal confidente Ilardo. […].

Dunque, anche il profilo, riscontrato, dell’immediata informazione ad opera degli ufficiali del ROS dei diversi soggetti istituzionali summenzionati dell’attività info-investigativa intrapresa, si pone in una logica inconciliabile con la diversa matrice (Mannino) ipotizzata dal PM di tale iniziativa, giacché, in quest’ultimo caso, se i militari avessero avuto quale garante istituzionale un ministro del Governo italiano in carica, non avrebbero certo avuto bisogno di alcuna ulteriore ‘copertura’ […].

Anche dalle fonti che provengono dal versante mafioso, ed a parte le valutazioni d’inattendibilità in parte qua del Brusca, del Giuffrè, del Lipari, non è stato fatto da alcuno il nome del Mannino (indicato peraltro dal Lipari, come inavvicinabile per ‘cosa nostra’) quale promotore e/o veicolatore del patto ipotizzato dall’accusa. […].

Ne consegue, anche alla stregua dell’approfondita rinnovazione dell’istruzione dibattimentale esperita dinanzi a questa Corte, non solo che non è possibile ribaltare con valutazione rafforzata, al di là, cioè, di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di promo grado trasformandola in condanna ma anzi, che è stata in questa sede ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli in rubrica e tanto a prescindere da una valutazione più complessiva - sia dal punto di vista della ricostruzione storica, sia di quella giuridica – della cd. ‘trattativa Stato – mafia’, valutazione che si è appalesata del tutto superflua rispetto alle concrete e troncanti risultanze relative alla specifica posizione del Mannino e che, dunque, è insuscettibile di approfondimento in questa sede».

La Corte di appello di Palermo non solo non intravede alcuna ragione per riformare nel senso voluto dall’accusa pubblica la sentenza di primo grado ma addirittura si muove in senso opposto, attestando, nei termini visti, la totale inesistenza di elementi di conferma della contestazione come formulata dai PM palermitani.

Il giudice di secondo grado conferma dunque l’assoluzione di Calogero Mannino e mantiene la medesima formula assolutoria per non avere commesso il fatto.

Una scelta obbligata non avendo l’imputato impugnato la prima sentenza allo scopo di chiedere una formula più vantaggiosa ed essendo stata devoluto alla Corte palermitana un segmento soltanto della complessiva prospettiva accusatoria.

E tuttavia, la nettezza delle conclusioni, l’esclusione del ruolo di Mannino di mandante politico della trattativa, l’esclusione della trattativa stessa, sono tutti elementi che portano inequivocabilmente all’insussistenza del reato.

Si consideri ancora che la decisione qui commentata è stata presa quando era già noto da tempo l’opposto esito del giudizio di primo grado nel giudizio ordinario di cui si parlerà diffusamente nel prossimo paragrafo.

I giudici di appello non si fanno fatti dunque “suggestionare” né dalla sentenza della Corte di assise né dal tam-tam mediatico che ad essa è seguito.

È corretto così, era loro compito decidere in completa autonomia e lo hanno fatto.

Resta solo da dire che la Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Palermo ha fatto ricorso per cassazione contro la decisione di secondo grado.

Il giudizio, quindi, non è ancora concluso e nuove parole e valutazioni si aggiungeranno alle altre.

 

[1] La sentenza è reperibile a questo link.