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Cassazione Civile: azione di responsabilità contro i sindaci e dissesto della società, sempre più sottile il confine tra omesso controllo e posizione di garanzia

“… Ai fini della configurabilità della violazione del dovere di vigilanza imposto ai sindaci, non è necessaria l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere”. È quanto ha stabilito la Cassazione chiudendo una vicenda che aveva visto il Fallimento della società convenire in giudizio amministratori e sindaci quali responsabili della decozione della società.

Il giudice di merito aveva ravvisato come sui sindaci, in particolare, gravasse un obbligo di vigilanza non rispettato: ciò a fronte di operazioni fittizie poste in essere dalla società (nella specie, fatture intragruppo emesse a cavallo degli anni 2002-2003) che ne avevano indebitamente protratto la sopravvivenza sino alla liquidazione. Pertanto, addebitava il pregiudizio sofferto dalla società già decotta nella misura della somma delle operazioni effettuate, in tre quarti a carico degli amministratori e nel residuo quarto ai sindaci.

Contro la sentenza di primo grado i sindaci proponevano appello, ma la Corte d’appello di Trieste, confermando il giudizio di merito, rilevava la medesima violazione del dovere di vigilanza in relazione all’inerzia manifestata dai sindaci: e ciò a fronte della censurabile attività svolta dagli amministratori e l’omesso controllo del collegio. Altresì la Corte d’appello riscontrava come fosse corretta la quantificazione del danno operata dal giudice di prime cure.

I sindaci ricorrevano dunque ai giudici di Piazza Cavour, lamentando:

- la genericità della motivazione basata soltanto sul richiamo ai princìpi generali della Corte stessa;

- la presunta conoscibilità in capo ai sindaci delle operazioni compiute dagli amministratori soltanto in base a elementi deduttivi (quali la appartenenza al medesimo gruppo intrasocietario o i rilievi di altri processi in cui non si era formato contraddittorio);

- la mancata indicazione delle ragioni per le quali sarebbe stato applicato il criterio equitativo nella liquidazione del danno e nella sua ripartizione in capo ai sindaci;

- l’applicazione in capo ai sindaci dei doveri di vigilanza previsti dalla disciplina intervenuta posteriormente alla verificazione del danno (Decreto Legislativo 6/2003);

- vizio di motivazione in ordine al nesso causale non adeguatamente motivato e motivazione apparente nel rigetto delle prove testimoniali richieste dai ricorrenti.

La Cassazione però – esaminando congiuntamente i motivi – ha sinteticamente ritenuto che non fosse necessario individuare nello specifico i comportamenti compiuti dai sindaci in contrasto con i loro obblighi di vigilanza, perché fossero riconosciute le violazioni degli articoli 2406 e 2409 del Codice Civile in capo al collegio.

La Corte ha giudicato sufficiente, ai fini del riconoscimento di responsabilità solidale fra amministratori e collegio sindacale, che i sindaci “…non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, e non abbiano quindi posto in essere quanto necessario per assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede”. Tale responsabilità inoltre, statuisce la Corte, “si estende al contenuto della gestione nel caso in cui il danno non si sarebbe verificato se i sindaci avessero adeguatamente vigilato”,ritenendo la sommatoria delle operazioni illecitamente compiute un sufficiente parametro oggettivo di liquidazione del pregiudizio sofferto dalla società (il Fallimento della stessa, come spesso avviene).

Davvero poche, dunque, le chances riservate ai professionisti – che abitualmente ricoprono tale incarico – in caso di decozione societaria: essendo onere dei medesimi provare positivamente di aver posto in essere con ogni mezzo il proprio obbligo di vigilanza.

A questo riguardo, non pare fuori luogo rilevare un contrasto con altre sentenze della stessa Corte che, in passato, aveva affermato che l’accertamento del nesso causale (omesso controllo – pregiudizio della società) è “indispensabile per l’affermazione della responsabilità dei sindaci in relazione ai danni subiti dalla società come effetto del loro illegittimo comportamento omissivo”, a tal fine occorrendo accertare che “un diverso e più diligente comportamento dei sindaci nell’esercizio dei loro compiti (tra cui la mancata tempestiva segnalazione della situazione agli organi di vigilanza esterni) sarebbe stato idoneo ad evitare le disastrose conseguenze degli illeciti compiuti dagli amministratori” (Corte di Cassazione - Prima Sezione, n. 2538/2005).

È d’obbligo una precisazione sul punto: il nuovo comma 1 dell’articolo 2403 del Codice Civile, post-riforma 2003, prevede che il collegio sindacale debba vigilare “sul rispetto dei principi di corretta amministrazione”, con ciò modificando la più ampia formula precedente, in base alla quale “il collegio sindacale deve controllare l’amministrazione della società”.

Al collegio sindacale, dunque, non dovrebbe mai essere riconosciuto un dovere di vigilanza in linea generale ed astratta, una valutazione di opportunità e convenienza economica delle scelte imprenditoriali, né la Legge riconosce ai sindaci un ruolo di amministrazione attiva, nemmeno in via di sostituzione all’amministratore. La sottile linea di confine richiamata dall’articolo 2403 Codice Civile, che spesso sembra così invisibile, deve ricordare che non si può, in ogni caso, domandare ai sindaci di società una sorta di… controllo suppletivo. Non più oltre, trasformare l’obbligo di vigilanza in una responsabilità oggettiva.

(Corte di Cassazione - Prima Sezione Civile, Sentenza del 24 aprile 2014, n. 13517)

 

“… Ai fini della configurabilità della violazione del dovere di vigilanza imposto ai sindaci, non è necessaria l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere”. È quanto ha stabilito la Cassazione chiudendo una vicenda che aveva visto il Fallimento della società convenire in giudizio amministratori e sindaci quali responsabili della decozione della società.

Il giudice di merito aveva ravvisato come sui sindaci, in particolare, gravasse un obbligo di vigilanza non rispettato: ciò a fronte di operazioni fittizie poste in essere dalla società (nella specie, fatture intragruppo emesse a cavallo degli anni 2002-2003) che ne avevano indebitamente protratto la sopravvivenza sino alla liquidazione. Pertanto, addebitava il pregiudizio sofferto dalla società già decotta nella misura della somma delle operazioni effettuate, in tre quarti a carico degli amministratori e nel residuo quarto ai sindaci.

Contro la sentenza di primo grado i sindaci proponevano appello, ma la Corte d’appello di Trieste, confermando il giudizio di merito, rilevava la medesima violazione del dovere di vigilanza in relazione all’inerzia manifestata dai sindaci: e ciò a fronte della censurabile attività svolta dagli amministratori e l’omesso controllo del collegio. Altresì la Corte d’appello riscontrava come fosse corretta la quantificazione del danno operata dal giudice di prime cure.

I sindaci ricorrevano dunque ai giudici di Piazza Cavour, lamentando:

- la genericità della motivazione basata soltanto sul richiamo ai princìpi generali della Corte stessa;

- la presunta conoscibilità in capo ai sindaci delle operazioni compiute dagli amministratori soltanto in base a elementi deduttivi (quali la appartenenza al medesimo gruppo intrasocietario o i rilievi di altri processi in cui non si era formato contraddittorio);

- la mancata indicazione delle ragioni per le quali sarebbe stato applicato il criterio equitativo nella liquidazione del danno e nella sua ripartizione in capo ai sindaci;

- l’applicazione in capo ai sindaci dei doveri di vigilanza previsti dalla disciplina intervenuta posteriormente alla verificazione del danno (Decreto Legislativo 6/2003);

- vizio di motivazione in ordine al nesso causale non adeguatamente motivato e motivazione apparente nel rigetto delle prove testimoniali richieste dai ricorrenti.

La Cassazione però – esaminando congiuntamente i motivi – ha sinteticamente ritenuto che non fosse necessario individuare nello specifico i comportamenti compiuti dai sindaci in contrasto con i loro obblighi di vigilanza, perché fossero riconosciute le violazioni degli articoli 2406 e 2409 del Codice Civile in capo al collegio.

La Corte ha giudicato sufficiente, ai fini del riconoscimento di responsabilità solidale fra amministratori e collegio sindacale, che i sindaci “…non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, e non abbiano quindi posto in essere quanto necessario per assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede”. Tale responsabilità inoltre, statuisce la Corte, “si estende al contenuto della gestione nel caso in cui il danno non si sarebbe verificato se i sindaci avessero adeguatamente vigilato”,ritenendo la sommatoria delle operazioni illecitamente compiute un sufficiente parametro oggettivo di liquidazione del pregiudizio sofferto dalla società (il Fallimento della stessa, come spesso avviene).

Davvero poche, dunque, le chances riservate ai professionisti – che abitualmente ricoprono tale incarico – in caso di decozione societaria: essendo onere dei medesimi provare positivamente di aver posto in essere con ogni mezzo il proprio obbligo di vigilanza.

A questo riguardo, non pare fuori luogo rilevare un contrasto con altre sentenze della stessa Corte che, in passato, aveva affermato che l’accertamento del nesso causale (omesso controllo – pregiudizio della società) è “indispensabile per l’affermazione della responsabilità dei sindaci in relazione ai danni subiti dalla società come effetto del loro illegittimo comportamento omissivo”, a tal fine occorrendo accertare che “un diverso e più diligente comportamento dei sindaci nell’esercizio dei loro compiti (tra cui la mancata tempestiva segnalazione della situazione agli organi di vigilanza esterni) sarebbe stato idoneo ad evitare le disastrose conseguenze degli illeciti compiuti dagli amministratori” (Corte di Cassazione - Prima Sezione, n. 2538/2005).

È d’obbligo una precisazione sul punto: il nuovo comma 1 dell’articolo 2403 del Codice Civile, post-riforma 2003, prevede che il collegio sindacale debba vigilare “sul rispetto dei principi di corretta amministrazione”, con ciò modificando la più ampia formula precedente, in base alla quale “il collegio sindacale deve controllare l’amministrazione della società”.

Al collegio sindacale, dunque, non dovrebbe mai essere riconosciuto un dovere di vigilanza in linea generale ed astratta, una valutazione di opportunità e convenienza economica delle scelte imprenditoriali, né la Legge riconosce ai sindaci un ruolo di amministrazione attiva, nemmeno in via di sostituzione all’amministratore. La sottile linea di confine richiamata dall’articolo 2403 Codice Civile, che spesso sembra così invisibile, deve ricordare che non si può, in ogni caso, domandare ai sindaci di società una sorta di… controllo suppletivo. Non più oltre, trasformare l’obbligo di vigilanza in una responsabilità oggettiva.

(Corte di Cassazione - Prima Sezione Civile, Sentenza del 24 aprile 2014, n. 13517)