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Cassazione: il lavoratore che scherza troppo rischia il licenziamento

La Corte di Cassazione ha stabilito che il lavoratore che per lungo tempo si dedica agli “scherzi” a danno dei suoi colleghi può essere licenziato per giusta causa.

Nel caso in esame, una società addetta alla produzione di componenti di automobili provvedeva a licenziare un suo dipendente, per aver questo, con condotte reiterate per diversi mesi, “molestato” l’addetta ai controlli, inserendo cartacce all’interno dei prodotti per costringere la collega ad esaminarli con attenzione e ad estrarre i materiali estranei, evitando di metterli in commercio.

L’addetta ai controlli, dopo mesi di silenzio, denunciava tali reiterati comportamenti al direttore, che disponeva il licenziamento disciplinare.

Il lavoratore ricorreva in giudizio per chiedere che venisse accertata l’illegittimità del provvedimento di licenziamento, in quanto privo di giusta causa o giustificato motivo, e per l’effetto di ciò condannare la controparte a reintegrarlo nel proprio posto di lavoro e a corrispondergli le retribuzioni mensili non percepite a seguito del licenziamento e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. In via subordinata, nell’eventualità che il licenziamento fosse stato ritenuto legittimo, chiedeva la condanna della società a corrispondere l’indennità di mancato preavviso, come previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (“CCNL”) nel settore metalmeccanico.

Il Tribunale respingeva la domanda principale ma accoglieva la subordinata, convertendo il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo.

Avverso tale sentenza, il lavoratore ricorreva in appello e la società datrice di lavoro proponeva appello incidentale.

La Corte d’appello accoglieva la domanda attorea e dichiarava illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore e condannava la società a reintegrare lo stesso nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.

Impugnando la sentenza della Corte territoriale, la società proponeva ricorso in Cassazione, lamentando che i giudici di merito, pur accertando i fatti contestati e la reiterazione delle condotte, ritenevano insussistente un animus nocendi quanto piuttosto un animus iocandi, essendo le carte ben visibili e estraibili dall’addetta ai controlli.

I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso della società, ritenendo la motivazione della sentenza d’appello erronea e contraddittoria.

La Corte territoriale, pur accertando la reiterazione della condotta del lavoratore, non ha qualificato la stessa come “un grave inadempimento degli obblighi di diligenza e correttezza gravanti sul lavoratore subordinato”. Inoltre, si legge nel testo della sentenza che “la stessa non ha adeguatamente considerato che nell’ipotesi di danneggiamento volontario al materiale dell’azienda o al materiale di lavorazione, legittimante il licenziamento ai sensi del CCNL di categoria, non può rientrare solo il fatto illecito di provocare consapevolmente un danno permanente al materiale di lavorazione, ma anche un danno immateriale, consistente nella manipolazione e svilimento del materiale aziendale, tanto più grave in quanto idoneo a rendere quel materiale inaccettabile dai clienti dell’azienda, esponendola ad una seria lesione della propria immagine presso la clientela qualora l’addetta ai controlli non si fosse accorta della manipolazione”.

Il comportamento tenuto dal dipendente determinava un grave nocumento morale o materiale per l’azienda, integrando un’esplicita ipotesi di giusta causa di licenziamento.

L’animus iocandi, come è stato definito dai giudici di merito, non scrimina il lavoratore da una sanzione per la violazione degli obblighi di lavoro e se questa è idonea a cagionare un danno, configurando un’ipotesi di giusta causa di licenziamento, la misura comminata è legittima. 

Pertanto, la Corte di legittimità ha cassato la sentenza impugnata, rinviando gli atti alla Corte territoriale per una nuova pronuncia.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 12 febbraio 2015, n. 2904)

La Corte di Cassazione ha stabilito che il lavoratore che per lungo tempo si dedica agli “scherzi” a danno dei suoi colleghi può essere licenziato per giusta causa.

Nel caso in esame, una società addetta alla produzione di componenti di automobili provvedeva a licenziare un suo dipendente, per aver questo, con condotte reiterate per diversi mesi, “molestato” l’addetta ai controlli, inserendo cartacce all’interno dei prodotti per costringere la collega ad esaminarli con attenzione e ad estrarre i materiali estranei, evitando di metterli in commercio.

L’addetta ai controlli, dopo mesi di silenzio, denunciava tali reiterati comportamenti al direttore, che disponeva il licenziamento disciplinare.

Il lavoratore ricorreva in giudizio per chiedere che venisse accertata l’illegittimità del provvedimento di licenziamento, in quanto privo di giusta causa o giustificato motivo, e per l’effetto di ciò condannare la controparte a reintegrarlo nel proprio posto di lavoro e a corrispondergli le retribuzioni mensili non percepite a seguito del licenziamento e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. In via subordinata, nell’eventualità che il licenziamento fosse stato ritenuto legittimo, chiedeva la condanna della società a corrispondere l’indennità di mancato preavviso, come previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (“CCNL”) nel settore metalmeccanico.

Il Tribunale respingeva la domanda principale ma accoglieva la subordinata, convertendo il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo.

Avverso tale sentenza, il lavoratore ricorreva in appello e la società datrice di lavoro proponeva appello incidentale.

La Corte d’appello accoglieva la domanda attorea e dichiarava illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore e condannava la società a reintegrare lo stesso nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.

Impugnando la sentenza della Corte territoriale, la società proponeva ricorso in Cassazione, lamentando che i giudici di merito, pur accertando i fatti contestati e la reiterazione delle condotte, ritenevano insussistente un animus nocendi quanto piuttosto un animus iocandi, essendo le carte ben visibili e estraibili dall’addetta ai controlli.

I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso della società, ritenendo la motivazione della sentenza d’appello erronea e contraddittoria.

La Corte territoriale, pur accertando la reiterazione della condotta del lavoratore, non ha qualificato la stessa come “un grave inadempimento degli obblighi di diligenza e correttezza gravanti sul lavoratore subordinato”. Inoltre, si legge nel testo della sentenza che “la stessa non ha adeguatamente considerato che nell’ipotesi di danneggiamento volontario al materiale dell’azienda o al materiale di lavorazione, legittimante il licenziamento ai sensi del CCNL di categoria, non può rientrare solo il fatto illecito di provocare consapevolmente un danno permanente al materiale di lavorazione, ma anche un danno immateriale, consistente nella manipolazione e svilimento del materiale aziendale, tanto più grave in quanto idoneo a rendere quel materiale inaccettabile dai clienti dell’azienda, esponendola ad una seria lesione della propria immagine presso la clientela qualora l’addetta ai controlli non si fosse accorta della manipolazione”.

Il comportamento tenuto dal dipendente determinava un grave nocumento morale o materiale per l’azienda, integrando un’esplicita ipotesi di giusta causa di licenziamento.

L’animus iocandi, come è stato definito dai giudici di merito, non scrimina il lavoratore da una sanzione per la violazione degli obblighi di lavoro e se questa è idonea a cagionare un danno, configurando un’ipotesi di giusta causa di licenziamento, la misura comminata è legittima. 

Pertanto, la Corte di legittimità ha cassato la sentenza impugnata, rinviando gli atti alla Corte territoriale per una nuova pronuncia.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 12 febbraio 2015, n. 2904)