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Bancarotta - Cassazione Penale: sono utilizzabili le dichiarazioni rese dal fallito al curatore, quand’anche quest’ultimo non sia stato sentito sin dall’inizio in qualità di imputato

In tema di utilizzabilità degli atti processuali, non sono assoggettate al disposto dell’articolo 63, comma 2, del codice di procedura penale le dichiarazioni rese dal fallito al curatore. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha ritenuto privo di fondamento il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova.

Nel caso in esame, il ricorso in Cassazione era stato proposto dall’amministratore di fatto di una società dichiarata fallita, il quale era stato precedentemente condannato – dal giudice di merito – per aver tenuto le scritture contabili in modo incompleto ed irregolare. Più in dettaglio, il ricorrente lamentava una violazione di legge inerente, in particolare, all’articolo 63, comma 2, del codice di procedura penale, a norma del quale: “Se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate”.

La Corte di ultima istanza evidenzia, anzitutto, come l’orientamento giurisprudenziale seguito dalla Corte stessa in tema di reati fallimentari consideri l’amministratore “di fatto” soggetto agli stessi doveri di cui è gravato l’amministratore “di diritto”. In secondo luogo, precisa che la nozione di amministratore “di fatto”, prevista dall’articolo 2639 del codice civile, postula l’esercizio significativo e continuativo dei poteri tipici inerenti alla funzione o alla qualifica.

Orbene, sembra ormai confermato che l’accertamento degli elementi sintomatici di tale tipo di gestione societaria costituisca oggetto di apprezzamento insindacabile in sede di legittimità – qualora, si intende, esso sia sostenuto da motivazioni che siano logiche e congrue.

Investita della questione, la Suprema Corte, citando i principi dalla stessa enunciati precedentemente  conferma che: “le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono soggette alla disciplina di cui all’articolo 63, comma 2, del codice di procedura penale, che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria da chi, sin dall’inizio, avrebbe dovuto essere sentito in qualità di imputato, in quanto il curatore non rientra in queste categorie”.

Per i motivi summenzionati, la Corte “rileva che i motivi di ricorso sono destituiti di fondamento, dato che l’impugnata sentenza rende congrua motivazione in aderenza ai menzionati principi giurisprudenziali, nel disattendere le richieste della difesa appellante. Va pertanto pronunziato il rigetto del ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali”.

(Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, Sentenza 4 novembre 2015, n. 44575)

In tema di utilizzabilità degli atti processuali, non sono assoggettate al disposto dell’articolo 63, comma 2, del codice di procedura penale le dichiarazioni rese dal fallito al curatore. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha ritenuto privo di fondamento il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova.

Nel caso in esame, il ricorso in Cassazione era stato proposto dall’amministratore di fatto di una società dichiarata fallita, il quale era stato precedentemente condannato – dal giudice di merito – per aver tenuto le scritture contabili in modo incompleto ed irregolare. Più in dettaglio, il ricorrente lamentava una violazione di legge inerente, in particolare, all’articolo 63, comma 2, del codice di procedura penale, a norma del quale: “Se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate”.

La Corte di ultima istanza evidenzia, anzitutto, come l’orientamento giurisprudenziale seguito dalla Corte stessa in tema di reati fallimentari consideri l’amministratore “di fatto” soggetto agli stessi doveri di cui è gravato l’amministratore “di diritto”. In secondo luogo, precisa che la nozione di amministratore “di fatto”, prevista dall’articolo 2639 del codice civile, postula l’esercizio significativo e continuativo dei poteri tipici inerenti alla funzione o alla qualifica.

Orbene, sembra ormai confermato che l’accertamento degli elementi sintomatici di tale tipo di gestione societaria costituisca oggetto di apprezzamento insindacabile in sede di legittimità – qualora, si intende, esso sia sostenuto da motivazioni che siano logiche e congrue.

Investita della questione, la Suprema Corte, citando i principi dalla stessa enunciati precedentemente  conferma che: “le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono soggette alla disciplina di cui all’articolo 63, comma 2, del codice di procedura penale, che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria da chi, sin dall’inizio, avrebbe dovuto essere sentito in qualità di imputato, in quanto il curatore non rientra in queste categorie”.

Per i motivi summenzionati, la Corte “rileva che i motivi di ricorso sono destituiti di fondamento, dato che l’impugnata sentenza rende congrua motivazione in aderenza ai menzionati principi giurisprudenziali, nel disattendere le richieste della difesa appellante. Va pertanto pronunziato il rigetto del ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali”.

(Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, Sentenza 4 novembre 2015, n. 44575)