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Diffamazione - Cassazione Civile: la mera diffusione di link a siti che trattano illecitamente dati personali integra responsabilità e comporta condanna al risarcimento del danno

Con sentenza del 19 luglio scorso, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al risarcimento dei danni per illecita diffusione di dati personali dei dipendenti di una società farmaceutica attraverso il link ad un sito internet gestito da terzi non identificati.

In particolare, la vicenda ruotava intorno alla portata di una serie di accezioni del termine “vivisezione” riferiti ai danneggiati nel loro ruolo di scienziati facenti parte di un team incaricato di testare una serie di farmaci sperimentali sugli animali.

La ricorrente infatti, attraverso il proprio sito internet di propaganda animalista, aveva non solo contribuito a diffondere gravi contenuti diffamatori - ad esempio, accostando negativamente termini come “tortura” o “morte” alle attività di dissezione a scopo scientifico compiute dai suddetti per conto dell’azienda - ma si era anche fatta promotrice della condivisione massiva di link a siti terzi sui quali erano facilmente reperibili dati personali dei resistenti illecitamente acquisiti da ignoti.

Peraltro, forte della minaccia rappresentata dal poter garantire “alla rete” libero accesso ad informazioni in grado di esporre e mettere a rischio la privacy dei dipendenti dell’azienda, la ricorrente invitava provocatoriamente i fruitori del proprio sitoa diventare la coscienza dei vivisettori”, tacciati come “nemico da combattere con qualsiasi mezzo”, screditandoli e colpendoli ove ciò fosse possibile mediante le informazioni sul loro conto diffuse.

In tal senso, dunque, la ricorrente non si sarebbe limitata - a detta della Corte - alla mera esposizione delle sue tesi animaliste esercitando il semplice diritto di critica online, ma avrebbe invece attivamentepropagandato ed organizzato un attacco per vie diretta ed indiretta all’azienda e alle persone dei suoi dipendenti” attraverso il megafono costituito dalla propria interfaccia web. L’insieme dei contenuti del sito, considerata la loro natura nettamente in contrasto con i limiti di continenza espressiva evidenziati da decenni di giurisprudenza della Corte in materia di bilanciamento tra diffamazione e cronaca giornalistica anche online (cfr. inter alia Cass. n. 7274/2013 e n. 15112/2013), è stato pertanto giudicato trascendere il semplice tono di accesa polemica e sfociare in vera e propria accusa di condotte infamanti e crimini in rapporto alla dimensione personale, sociale e professionale dei destinatari. “L’offesa - ha chiarito la Corte riprendendo la decisione d’Appello - è [da considerarsi] scriminata quando essa sia indispensabile per l’esercizio del diritto di critica, mentre restano punibili le espressioni gratuite, cioè non necessarie all’esercizio del diritto in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti od offensive”.

Inoltre, la Corte si è espressa anche sull’illecita divulgazione di dati personali effettuata dalla ricorrente per interposta persona, con particolare riferimento ai link al sito di terzi ignoti contenente informazioni sul personale dipendente dell’azienda farmaceutica.

Censurata la gestione propagandistica e arbitraria di tali contenuti illeciti insieme alla condotta lesiva del diritto costituzionale alla riservatezza e in assenza di una qualunque pertinenza divulgativa rispetto al tema trattato, i giudici hanno pertanto riconosciuta idonea a produrre danni risarcibili ex art. 2043 del codice civile.

Ove infatti, ha sottolineato la Corte, vi sia stata lesione di diritti inviolabili della persona da provarsi mediante nesso di causalità presuntivo, la relazione danno-conseguenza sarebbe comunque accettabile se, come nel caso di specie, “[...] le condotte dei terzi non sarebbero state possibili se non fossero stati resi noti i dati personali dei danneggiati”. Tutto ciò, in particolare, da applicarsi nel caso in cui una eventuale illecita divulgazione di dati personali, anche non materialmente posta in essere da un soggetto determinato o determinabile, sia stata accompagnata da “invito rivolto al pubblico indifferenziato degli utenti [di internet] ad utilizzare quei dati per molestarne i titolari o compiere azioni più o meno gravi ai loro danni [...] con l’ulteriore verifica in concreto della concomitanza temporale tra la diffusione dei dati e condotte delittuose di altri elementi di fatto idonei a fornire la prova, seppure presuntiva, che la realizzazione di queste ultime fosse stata resa possibile [a partire] dalla pubblicazione dei dati [proprio] sul sito internet”.

Avendo dunque censurato entrambi i profili del comportamento doloso della ricorrente, la Corte ha infine respinto il ricorso nel merito confermando la decisione di appello e sottolineando con veemenza come riservatezza e reputazione, sfumature diverse di diritti assoluti della personalità spesso strettamente collegati tra loro nel mondo online, debbano essere oggetto di specifica tutela anche e soprattutto nei casi in cui l’accertamento del nesso di causalità si riveli più difficile e controverso.

(Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, Sentenza 19 luglio 2016, n. 14694)

Con sentenza del 19 luglio scorso, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al risarcimento dei danni per illecita diffusione di dati personali dei dipendenti di una società farmaceutica attraverso il link ad un sito internet gestito da terzi non identificati.

In particolare, la vicenda ruotava intorno alla portata di una serie di accezioni del termine “vivisezione” riferiti ai danneggiati nel loro ruolo di scienziati facenti parte di un team incaricato di testare una serie di farmaci sperimentali sugli animali.

La ricorrente infatti, attraverso il proprio sito internet di propaganda animalista, aveva non solo contribuito a diffondere gravi contenuti diffamatori - ad esempio, accostando negativamente termini come “tortura” o “morte” alle attività di dissezione a scopo scientifico compiute dai suddetti per conto dell’azienda - ma si era anche fatta promotrice della condivisione massiva di link a siti terzi sui quali erano facilmente reperibili dati personali dei resistenti illecitamente acquisiti da ignoti.

Peraltro, forte della minaccia rappresentata dal poter garantire “alla rete” libero accesso ad informazioni in grado di esporre e mettere a rischio la privacy dei dipendenti dell’azienda, la ricorrente invitava provocatoriamente i fruitori del proprio sitoa diventare la coscienza dei vivisettori”, tacciati come “nemico da combattere con qualsiasi mezzo”, screditandoli e colpendoli ove ciò fosse possibile mediante le informazioni sul loro conto diffuse.

In tal senso, dunque, la ricorrente non si sarebbe limitata - a detta della Corte - alla mera esposizione delle sue tesi animaliste esercitando il semplice diritto di critica online, ma avrebbe invece attivamentepropagandato ed organizzato un attacco per vie diretta ed indiretta all’azienda e alle persone dei suoi dipendenti” attraverso il megafono costituito dalla propria interfaccia web. L’insieme dei contenuti del sito, considerata la loro natura nettamente in contrasto con i limiti di continenza espressiva evidenziati da decenni di giurisprudenza della Corte in materia di bilanciamento tra diffamazione e cronaca giornalistica anche online (cfr. inter alia Cass. n. 7274/2013 e n. 15112/2013), è stato pertanto giudicato trascendere il semplice tono di accesa polemica e sfociare in vera e propria accusa di condotte infamanti e crimini in rapporto alla dimensione personale, sociale e professionale dei destinatari. “L’offesa - ha chiarito la Corte riprendendo la decisione d’Appello - è [da considerarsi] scriminata quando essa sia indispensabile per l’esercizio del diritto di critica, mentre restano punibili le espressioni gratuite, cioè non necessarie all’esercizio del diritto in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti od offensive”.

Inoltre, la Corte si è espressa anche sull’illecita divulgazione di dati personali effettuata dalla ricorrente per interposta persona, con particolare riferimento ai link al sito di terzi ignoti contenente informazioni sul personale dipendente dell’azienda farmaceutica.

Censurata la gestione propagandistica e arbitraria di tali contenuti illeciti insieme alla condotta lesiva del diritto costituzionale alla riservatezza e in assenza di una qualunque pertinenza divulgativa rispetto al tema trattato, i giudici hanno pertanto riconosciuta idonea a produrre danni risarcibili ex art. 2043 del codice civile.

Ove infatti, ha sottolineato la Corte, vi sia stata lesione di diritti inviolabili della persona da provarsi mediante nesso di causalità presuntivo, la relazione danno-conseguenza sarebbe comunque accettabile se, come nel caso di specie, “[...] le condotte dei terzi non sarebbero state possibili se non fossero stati resi noti i dati personali dei danneggiati”. Tutto ciò, in particolare, da applicarsi nel caso in cui una eventuale illecita divulgazione di dati personali, anche non materialmente posta in essere da un soggetto determinato o determinabile, sia stata accompagnata da “invito rivolto al pubblico indifferenziato degli utenti [di internet] ad utilizzare quei dati per molestarne i titolari o compiere azioni più o meno gravi ai loro danni [...] con l’ulteriore verifica in concreto della concomitanza temporale tra la diffusione dei dati e condotte delittuose di altri elementi di fatto idonei a fornire la prova, seppure presuntiva, che la realizzazione di queste ultime fosse stata resa possibile [a partire] dalla pubblicazione dei dati [proprio] sul sito internet”.

Avendo dunque censurato entrambi i profili del comportamento doloso della ricorrente, la Corte ha infine respinto il ricorso nel merito confermando la decisione di appello e sottolineando con veemenza come riservatezza e reputazione, sfumature diverse di diritti assoluti della personalità spesso strettamente collegati tra loro nel mondo online, debbano essere oggetto di specifica tutela anche e soprattutto nei casi in cui l’accertamento del nesso di causalità si riveli più difficile e controverso.

(Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, Sentenza 19 luglio 2016, n. 14694)