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Privacy - Cassazione Civile: sms pubblicitari, sufficiente l’assenso orale del cliente

La prestazione del consenso al trattamento dei dati personali comuni a favore del gestore telefonico che abbia inviato SMS pubblicitari all’utente va provata documentalmente per iscritto, ma tale requisito ben può essere integrato da riproduzioni meccaniche o informatiche dell’assenso prestato oralmente.

Lo ha stabilito la Cassazione, intervenendo sul delicato tema dei limiti all’utilizzo dei dati personali per finalità promozionali e/o pubblicitarie.

1. Caso

La pronuncia in commento – in punto di fatto – origina dalla domanda con cui il titolare di diverse utenze telefoniche destinatarie di plurimi SMS di contenuto promozionale e/o pubblicitario conveniva in giudizio il gestore telefonico allo scopo di ottenere l’interruzione dell’illegittimo trattamento dei suoi dati personali con conseguente risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali arrecati alla sua vita lavorativa e sociale.

In primo grado, l’adito Tribunale di Milano, nel contraddittorio delle parti, dichiarava cessata la materia dei contendere sulla domanda inibitoria (intimazione alla società convenuta di immediata cessazione del trattamento dati personali per finalità promozionali dell’invio di materiale pubblicitario ed altro) mentre rigettava la domanda di risarcimento del danno proposta dal cliente, condannandolo altresì al pagamento delle spese del giudizio.

Avverso la pronuncia di rigetto il cliente proponeva ricorso per cassazione affidato a sette motivi di censura.

In particolare il ricorrente fondava le sue doglianze sulla dedotta necessità, ai sensi dell’articolo 23, comma 3, del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, della prova scritta del consenso al trattamento dei dati personali nonché sulla inidoneità dei documenti prodotti dalla società convenuta ad integrare detto requisito formale (risultanze dei sistemi informatici, da lui non sottoscritte e recanti annotazioni eseguite da operatori incaricati dal gestore stesso).

Due, quindi, i profili sui quali il giudice di primo grado avrebbe – a suo dire – fallacemente fondato la statuizione di primo grado: da un lato, la prova della prestazione del consenso poteva essere fornita solo in forma scritta, posto anche che solo tale modalità avrebbe consentito di verificare la ricorrenza degli altri requisiti di validità; dall’altro, il consenso al trattamento dei dati doveva essere provato da chi intendeva farlo valere con avvalimento degli ordinari mezzi di prova, mentre nel caso di specie tale prova era stata indebitamente tratta da riproduzione informatica.

Di diverso avviso il Supremo Collegio, che ha invece disatteso tutte le censure sollevate.

2. La decisione della Suprema Corte

Ed invero, a parere degli Ermellini, entrambi i motivi sopra menzionati non hanno meritato favorevole sorte, in quanto «l’affermazione conclusiva secondo cui la prestazione del consenso al trattamento dei dati personali c.d. comuni non è soggetta al requisito della forma scritta, ma, a differenza che per i dati sensibili, può essere espressa anche oralmente purché venga documentata per iscritto, appare aderente alla lettera ed alla ratio della normativa, che ai commi 3 e 4 dell’articolo 23 del Decreto Legislativo n. 196 del 2003 espressamente e logicamente distingue le due ipotesi, imponendone una diversa disciplina e significativamente tacendo sulla forma della prima (cfr Cass n. 17399 del 2015)».

Altresì prive di pregio si sono rivelate le ulteriori argomentazioni addotte dal ricorrente.

Con una importante precisazione, i giudici di Piazza Cavour hanno infatti osservato che, nel richiedere la documentazione dell’esplicito consenso, l’articolo 23, comma 3 del Decreto Legislativo sopra citato intende riferirsi alla categoria di “documenti” che s’identifica non solo con quella degli atti pubblici e delle scritture private, direttamente rappresentativa dei fatti dedotti in causa, ma anche con quella ampia e generica elaborata in sede di teoria generale dei diritto, che fa precipuo riferimento a qualsiasi oggetto idoneo e destinato a fissare in qualsiasi forma, anche non grafica, la percezione di un fatto storico al fine di rappresentarlo in avvenire, e che nel capo II del titolo II e del libro VI del codice civile, intitolato “prova documentale”, trova compiuta regolamentazione (in tema, cfr Cass. n. 1838 del 1990).

Tanto premesso – secondo la Cassazione – «detta norma, dunque, consente al titolare del trattamento, onerato della prova della relativa liceità, di fare ricorso all’articolo 2712 del codice civile per dare riscontro scritto documentale dell’acquisizione da parte sua del consenso al trattamento dei dati personali comuni, e perciò di avvalersi di registrazioni e riproduzioni anche informatiche da lui stesso attivate (e da correlare con la doverosa preventiva informativa resa all’utente, ai sensi dell’articolo 13 del Decreto Legislativo n. del 2003), ferma restando la successiva verificabilità da parte delle Autorità a tanto deputate dell’idoneità, adeguatezza e sufficienza probatoria della recepita annotazione, seppure non sottoscritta, e ciò anche in merito alla ricorrenza degli ulteriori requisiti di validità del consenso in questione, suscettibile se contestata, di essere pure altrimenti dimostrata, tramite il complesso delle codificate regole probatorie».

In altri termini, il consenso al trattamento dei dati personali comuni – salva la disciplina speciale e più rigida prescritta per i dati c.d. sensibili – può ben essere prestato oralmente dall’utente in favore del gestore telefonico, ma quest’ultimo dovrà essere in grado di documentare, con strumenti probatori conformi alle regole del codice di rito, la recepita annotazione dello stesso.

Sulla scorta di questa impostazione concettuale, i Giudici di Legittimità sono pervenuti, in conclusione, alla espressa enucleazione dei seguenti principi di diritto:

 «In tema di trattamento dei dati personali c.d. comuni per finalità promozionali e commerciali mediante messaggi di testo (SMS) su utenze telefoniche mobili:

a) la regola introdotta dall’articolo 23 comma 3, del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, secondo cui il consenso al trattamento è validamente prestato, tra l’altro, se è documentato per iscritto, attiene non alla forma di manifestazione del consenso in questione – come, invece, stabilito per il trattamento dei dati sensibili di cui al comma 4 dello stesso articolo 23 -, ma al contenuto dell’onere probatorio gravante sul titolare dei dati personali;

b) al titolare dei dati personali è imposto di dare documentazione per iscritto dell’assenso anche orale esplicitato dall’utente del servizio, al trattamento dei medesimi suoi dati per scopi pubblicitari e promozionali aggiuntivi rispetto al fornito servizio di telefonia mobile;

c) la documentazione per iscritto può essere integrata anche da riproduzioni meccaniche o informatiche di cui all’articolo 2712 del codice civile, effettuate dal titolare del trattamento, salva l’eventuale successiva verifica dell’idoneità, adeguatezza e sufficienza del contenuto dell’acquisita annotazione (in tema, cfr anche art.17 Direttiva 2002/58/CE)».

Dall’applicazione dei suddetti principi al caso di specie è derivato, dunque, il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio.

(Corte di Cassazione - Prima Sezione Civile, Sentenza 16 febbraio - 16 maggio 2016, n.9982)

La prestazione del consenso al trattamento dei dati personali comuni a favore del gestore telefonico che abbia inviato SMS pubblicitari all’utente va provata documentalmente per iscritto, ma tale requisito ben può essere integrato da riproduzioni meccaniche o informatiche dell’assenso prestato oralmente.

Lo ha stabilito la Cassazione, intervenendo sul delicato tema dei limiti all’utilizzo dei dati personali per finalità promozionali e/o pubblicitarie.

1. Caso

La pronuncia in commento – in punto di fatto – origina dalla domanda con cui il titolare di diverse utenze telefoniche destinatarie di plurimi SMS di contenuto promozionale e/o pubblicitario conveniva in giudizio il gestore telefonico allo scopo di ottenere l’interruzione dell’illegittimo trattamento dei suoi dati personali con conseguente risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali arrecati alla sua vita lavorativa e sociale.

In primo grado, l’adito Tribunale di Milano, nel contraddittorio delle parti, dichiarava cessata la materia dei contendere sulla domanda inibitoria (intimazione alla società convenuta di immediata cessazione del trattamento dati personali per finalità promozionali dell’invio di materiale pubblicitario ed altro) mentre rigettava la domanda di risarcimento del danno proposta dal cliente, condannandolo altresì al pagamento delle spese del giudizio.

Avverso la pronuncia di rigetto il cliente proponeva ricorso per cassazione affidato a sette motivi di censura.

In particolare il ricorrente fondava le sue doglianze sulla dedotta necessità, ai sensi dell’articolo 23, comma 3, del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, della prova scritta del consenso al trattamento dei dati personali nonché sulla inidoneità dei documenti prodotti dalla società convenuta ad integrare detto requisito formale (risultanze dei sistemi informatici, da lui non sottoscritte e recanti annotazioni eseguite da operatori incaricati dal gestore stesso).

Due, quindi, i profili sui quali il giudice di primo grado avrebbe – a suo dire – fallacemente fondato la statuizione di primo grado: da un lato, la prova della prestazione del consenso poteva essere fornita solo in forma scritta, posto anche che solo tale modalità avrebbe consentito di verificare la ricorrenza degli altri requisiti di validità; dall’altro, il consenso al trattamento dei dati doveva essere provato da chi intendeva farlo valere con avvalimento degli ordinari mezzi di prova, mentre nel caso di specie tale prova era stata indebitamente tratta da riproduzione informatica.

Di diverso avviso il Supremo Collegio, che ha invece disatteso tutte le censure sollevate.

2. La decisione della Suprema Corte

Ed invero, a parere degli Ermellini, entrambi i motivi sopra menzionati non hanno meritato favorevole sorte, in quanto «l’affermazione conclusiva secondo cui la prestazione del consenso al trattamento dei dati personali c.d. comuni non è soggetta al requisito della forma scritta, ma, a differenza che per i dati sensibili, può essere espressa anche oralmente purché venga documentata per iscritto, appare aderente alla lettera ed alla ratio della normativa, che ai commi 3 e 4 dell’articolo 23 del Decreto Legislativo n. 196 del 2003 espressamente e logicamente distingue le due ipotesi, imponendone una diversa disciplina e significativamente tacendo sulla forma della prima (cfr Cass n. 17399 del 2015)».

Altresì prive di pregio si sono rivelate le ulteriori argomentazioni addotte dal ricorrente.

Con una importante precisazione, i giudici di Piazza Cavour hanno infatti osservato che, nel richiedere la documentazione dell’esplicito consenso, l’articolo 23, comma 3 del Decreto Legislativo sopra citato intende riferirsi alla categoria di “documenti” che s’identifica non solo con quella degli atti pubblici e delle scritture private, direttamente rappresentativa dei fatti dedotti in causa, ma anche con quella ampia e generica elaborata in sede di teoria generale dei diritto, che fa precipuo riferimento a qualsiasi oggetto idoneo e destinato a fissare in qualsiasi forma, anche non grafica, la percezione di un fatto storico al fine di rappresentarlo in avvenire, e che nel capo II del titolo II e del libro VI del codice civile, intitolato “prova documentale”, trova compiuta regolamentazione (in tema, cfr Cass. n. 1838 del 1990).

Tanto premesso – secondo la Cassazione – «detta norma, dunque, consente al titolare del trattamento, onerato della prova della relativa liceità, di fare ricorso all’articolo 2712 del codice civile per dare riscontro scritto documentale dell’acquisizione da parte sua del consenso al trattamento dei dati personali comuni, e perciò di avvalersi di registrazioni e riproduzioni anche informatiche da lui stesso attivate (e da correlare con la doverosa preventiva informativa resa all’utente, ai sensi dell’articolo 13 del Decreto Legislativo n. del 2003), ferma restando la successiva verificabilità da parte delle Autorità a tanto deputate dell’idoneità, adeguatezza e sufficienza probatoria della recepita annotazione, seppure non sottoscritta, e ciò anche in merito alla ricorrenza degli ulteriori requisiti di validità del consenso in questione, suscettibile se contestata, di essere pure altrimenti dimostrata, tramite il complesso delle codificate regole probatorie».

In altri termini, il consenso al trattamento dei dati personali comuni – salva la disciplina speciale e più rigida prescritta per i dati c.d. sensibili – può ben essere prestato oralmente dall’utente in favore del gestore telefonico, ma quest’ultimo dovrà essere in grado di documentare, con strumenti probatori conformi alle regole del codice di rito, la recepita annotazione dello stesso.

Sulla scorta di questa impostazione concettuale, i Giudici di Legittimità sono pervenuti, in conclusione, alla espressa enucleazione dei seguenti principi di diritto:

 «In tema di trattamento dei dati personali c.d. comuni per finalità promozionali e commerciali mediante messaggi di testo (SMS) su utenze telefoniche mobili:

a) la regola introdotta dall’articolo 23 comma 3, del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, secondo cui il consenso al trattamento è validamente prestato, tra l’altro, se è documentato per iscritto, attiene non alla forma di manifestazione del consenso in questione – come, invece, stabilito per il trattamento dei dati sensibili di cui al comma 4 dello stesso articolo 23 -, ma al contenuto dell’onere probatorio gravante sul titolare dei dati personali;

b) al titolare dei dati personali è imposto di dare documentazione per iscritto dell’assenso anche orale esplicitato dall’utente del servizio, al trattamento dei medesimi suoi dati per scopi pubblicitari e promozionali aggiuntivi rispetto al fornito servizio di telefonia mobile;

c) la documentazione per iscritto può essere integrata anche da riproduzioni meccaniche o informatiche di cui all’articolo 2712 del codice civile, effettuate dal titolare del trattamento, salva l’eventuale successiva verifica dell’idoneità, adeguatezza e sufficienza del contenuto dell’acquisita annotazione (in tema, cfr anche art.17 Direttiva 2002/58/CE)».

Dall’applicazione dei suddetti principi al caso di specie è derivato, dunque, il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio.

(Corte di Cassazione - Prima Sezione Civile, Sentenza 16 febbraio - 16 maggio 2016, n.9982)