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Prostituzione - Cassazione Penale: anche le prostitute devono pagare le tasse

Prostituzione - Cassazione Penale: anche le prostitute devono pagare le tasse
Prostituzione - Cassazione Penale: anche le prostitute devono pagare le tasse

A suo dire i redditi accertati non sarebbero tassabili in quanto provento dell’attività di prostituzione da lei esercitata. Queste le motivazioni del ricorso promosso da una donna contro un avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2004 emesso dalla Agenzia delle Entrate  per recuperare a tassazione, ai fini Irpef, il reddito imponibile in questione. A seguito delle indagini svolte dalla Guardia di Finanza, infatti, la donna risultava essere intestataria di numerose automobili, acquirente di un appartamento, titolare di vari contratti di locazione immobiliare oltreché intestataria di dieci conti correnti attivi e di gestioni patrimoniali; tutto ciò pur non avendo mai presentato dichiarazione dei redditi se non per l’annualità 2003.

La questione è giunta sino alla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 15596 del 27/07/2016, ha affermato che, se la legge attribuisce natura reddituale ai proventi delle attività illecite, con conseguente tassabilità degli stessi, a maggior ragione deve essere ‹‹riconosciuta natura reddituale all’attività di prostituzione, di per sé priva di profili di illiceità (costituendo invece illecito penale ogni attività di favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione altrui a norma dell’art.3 della legge 20.2.1958 n.75)›› tanto più trattandosi di una attività parzialmente tutelata dallo stesso ordinamento civile che comprende la prestazione sessuale dietro corrispettivo nella categoria della obbligazione naturale, la quale (…) attribuisce alla persona che ha svolto l’attività di meretricio il diritto di ritenere legittimamente le somme ricevute in pagamento della prestazione (art.2035 cod.civ.).

La Suprema Corte ha così rigettato il ricorso della donna e riaffermato il principio della tassabilità dei proventi dell’attività di prostituzione (cfr. Cass., Sez. 5, sentenza n. 20528 dell’1/10/2010; Cass., Sez. 5, sentenza n. 10578 del 13/05/2011) precisando che «nel caso in esame il giudice di merito aveva accertato che la contribuente (per sua stessa dichiarazione) svolgeva liberamente ed autonomamente l’attività di prostituzione, dalla quale erano derivati i proventi risultanti dai conti correnti bancari, con conseguente imponibilità degli stessi, trattandosi di attività assimilabile al lavoro autonomo se svolto in forma abituale, ovvero rientrante nella categoria dei “redditi diversi” ai sensi dell’art.6 lett. f) e 67 lett. I) D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, se svolta, sempre autonomamente, ma in forma occasionale».

La ricostruzione degli ermellini trova peraltro conferma nella giurisprudenza comunitaria: la Corte di giustizia delle Comunità Europee con la sentenza del 20.11.2001- causa C-268/99 - ha affermato che « la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita la quale rientra nella nozione di attività economiche» e che «spetta al giudice nazionale accertare, caso per caso, se sussistono le condizioni per ritenere che la prostituzione sia svolto come lavoro autonomo» e quindi al di fuori di fenomeni di induzione, costrizione o sfruttamento (nel qual caso i proventi,  essendo di reato, sono innanzitutto confiscabili a norma dell’art. 240 comma 1 cod. pen., prima ancora che assoggettabili ad imposta).

Dunque chi esercita in libertà e autonomia l’attività di prostituzione deve essere considerato a tutti gli effetti un normale contribuente che, al pari degli altri e in virtù della propria soggettività tributaria passiva, è tenuto all’esecuzione della prestazione tributaria dovuta in base al reddito imponibile prodotto, non rilevando, a tal fine, che nel nostro ordinamento l’attività di prostituzione non goda ancora di adeguata regolamentazione.

(Corte di Cassazione, sentenza 27 luglio 2016, n. 15596)

A suo dire i redditi accertati non sarebbero tassabili in quanto provento dell’attività di prostituzione da lei esercitata. Queste le motivazioni del ricorso promosso da una donna contro un avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2004 emesso dalla Agenzia delle Entrate  per recuperare a tassazione, ai fini Irpef, il reddito imponibile in questione. A seguito delle indagini svolte dalla Guardia di Finanza, infatti, la donna risultava essere intestataria di numerose automobili, acquirente di un appartamento, titolare di vari contratti di locazione immobiliare oltreché intestataria di dieci conti correnti attivi e di gestioni patrimoniali; tutto ciò pur non avendo mai presentato dichiarazione dei redditi se non per l’annualità 2003.

La questione è giunta sino alla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 15596 del 27/07/2016, ha affermato che, se la legge attribuisce natura reddituale ai proventi delle attività illecite, con conseguente tassabilità degli stessi, a maggior ragione deve essere ‹‹riconosciuta natura reddituale all’attività di prostituzione, di per sé priva di profili di illiceità (costituendo invece illecito penale ogni attività di favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione altrui a norma dell’art.3 della legge 20.2.1958 n.75)›› tanto più trattandosi di una attività parzialmente tutelata dallo stesso ordinamento civile che comprende la prestazione sessuale dietro corrispettivo nella categoria della obbligazione naturale, la quale (…) attribuisce alla persona che ha svolto l’attività di meretricio il diritto di ritenere legittimamente le somme ricevute in pagamento della prestazione (art.2035 cod.civ.).

La Suprema Corte ha così rigettato il ricorso della donna e riaffermato il principio della tassabilità dei proventi dell’attività di prostituzione (cfr. Cass., Sez. 5, sentenza n. 20528 dell’1/10/2010; Cass., Sez. 5, sentenza n. 10578 del 13/05/2011) precisando che «nel caso in esame il giudice di merito aveva accertato che la contribuente (per sua stessa dichiarazione) svolgeva liberamente ed autonomamente l’attività di prostituzione, dalla quale erano derivati i proventi risultanti dai conti correnti bancari, con conseguente imponibilità degli stessi, trattandosi di attività assimilabile al lavoro autonomo se svolto in forma abituale, ovvero rientrante nella categoria dei “redditi diversi” ai sensi dell’art.6 lett. f) e 67 lett. I) D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, se svolta, sempre autonomamente, ma in forma occasionale».

La ricostruzione degli ermellini trova peraltro conferma nella giurisprudenza comunitaria: la Corte di giustizia delle Comunità Europee con la sentenza del 20.11.2001- causa C-268/99 - ha affermato che « la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita la quale rientra nella nozione di attività economiche» e che «spetta al giudice nazionale accertare, caso per caso, se sussistono le condizioni per ritenere che la prostituzione sia svolto come lavoro autonomo» e quindi al di fuori di fenomeni di induzione, costrizione o sfruttamento (nel qual caso i proventi,  essendo di reato, sono innanzitutto confiscabili a norma dell’art. 240 comma 1 cod. pen., prima ancora che assoggettabili ad imposta).

Dunque chi esercita in libertà e autonomia l’attività di prostituzione deve essere considerato a tutti gli effetti un normale contribuente che, al pari degli altri e in virtù della propria soggettività tributaria passiva, è tenuto all’esecuzione della prestazione tributaria dovuta in base al reddito imponibile prodotto, non rilevando, a tal fine, che nel nostro ordinamento l’attività di prostituzione non goda ancora di adeguata regolamentazione.

(Corte di Cassazione, sentenza 27 luglio 2016, n. 15596)