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Tribunale delle imprese: packaging, contraffazione e concorrenza sleale

La Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano si è recentemente espressa in tema di contraffazione di marchio e concorrenza sleale, relativamente al packaging di un bene di consumo comune: un tubetto di colla.

La vicenda vede protagonista (e parte attrice del giudizio) un’azienda produttrice di materiali per la finitura, la riparazione e la realizzazione di oggetti, tra cui la citata colla, distinta e protetta con marchio regolarmente registrato.

L’attrice conveniva in giudizio una società, propria cliente e distributrice della colla in oggetto, accusandola di aver copiato pedissequamente il prodotto commercializzato dalla prima e di averlo messo in vendita nei propri locali commerciali. Le condotte illecite lamentate dalla società attrice erano quelle di concorrenza sleale per imitazione servile, appropriazione di pregi e concorrenza parassitaria e contraffazione del marchio di forma del prodotto, costituito dal packaging della colla.

Nelle more del giudizio, il Tribunale di Milano ha escluso la sussistenza della contraffazione di marchio di forma, non essendo stata fornita la prova della registrazione del packaging della colla come marchio di forma, né essendo ravvisabile un marchio di fatto. Mancano, infatti, i requisiti richiesti per considerare tale il packaging del prodotto: la (i) diffusione sul mercato e la (ii) convinzione radicatasi presso il pubblico dell’immediata riconducibilità di un simile marchio di forma alla società attrice

D’altro canto, la pedissequa imitazione del packaging della colla originale, ha integrato, secondo il Tribunale, una condotta lesiva sul piano della concorrenza. Nonostante la presenza di differenze tra i due prodotti (marchio e denominazione, dimensione della confezione, composizione chimica e prezzo ridotto), (i) l’identità del packaging, (ii) l’offerta contestuale con il prodotto originale, (iii) il medesimo colore e carattere della scritta e, soprattutto, (iv) la presenza, nel prodotto illecito, di un errore che caratterizzava la confezione della colla originale (un riferimento normativo errato), risultano tutti elementi atti a confondere o quantomeno a collegare i due prodotti, ingenerando nel consumatore la convinzione che provengano dallo stesso produttore.

È stata esclusa la sussistenza di concorrenza sleale parassitaria, mancando l’elemento di un’imitazione continua sistematica e durevole, che non può configurarsi nel caso di specie, essendo gli atti imitativi rivolti ad un solo prodotto dell’attrice.

Sulla scorta di quanto sopra, il Tribunale ha condannato la convenuta per atti di concorrenza sleale e, precisamente, per imitazione servile e appropriazione di pregi dell’altrui prodotto, ai sensi dell’articolo 2598 n. 1 e 2 del Codice Civile.             

Un profilo interessante, sul piano operativo, è rappresentato dalle voci considerate dal Tribunale ai fini della quantificazione del danno. Il Giudicante, infatti, ha condannato la convenuta al pagamento di 15.000,00 euro così risultanti:

a. 9.108,48 euro, a titolo di danno patrimoniale (lucro cessante), quantificato sugli utili conseguiti dalla convenuta con la vendita dei prodotti illeciti;

b. 4.554,24 euro, a titolo di danno non patrimoniale (risarcimento del danno all’immagine), quantificato nella somma pari al 50% del danno patrimoniale;

c. 1337,28 euro, per rivalutazione monetaria e interessi legali.

(Tribunale Ordinario di Milano - Sezione specializzata in materia di impresa, Sezione A - Sentenza n. 8817 del 17 luglio 2015; provvedimento interamente consultabile e scaricabile al seguente link: http://www.giurisprudenzadelleimprese.it/imitazione-servile-del-packaging/)

La Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano si è recentemente espressa in tema di contraffazione di marchio e concorrenza sleale, relativamente al packaging di un bene di consumo comune: un tubetto di colla.

La vicenda vede protagonista (e parte attrice del giudizio) un’azienda produttrice di materiali per la finitura, la riparazione e la realizzazione di oggetti, tra cui la citata colla, distinta e protetta con marchio regolarmente registrato.

L’attrice conveniva in giudizio una società, propria cliente e distributrice della colla in oggetto, accusandola di aver copiato pedissequamente il prodotto commercializzato dalla prima e di averlo messo in vendita nei propri locali commerciali. Le condotte illecite lamentate dalla società attrice erano quelle di concorrenza sleale per imitazione servile, appropriazione di pregi e concorrenza parassitaria e contraffazione del marchio di forma del prodotto, costituito dal packaging della colla.

Nelle more del giudizio, il Tribunale di Milano ha escluso la sussistenza della contraffazione di marchio di forma, non essendo stata fornita la prova della registrazione del packaging della colla come marchio di forma, né essendo ravvisabile un marchio di fatto. Mancano, infatti, i requisiti richiesti per considerare tale il packaging del prodotto: la (i) diffusione sul mercato e la (ii) convinzione radicatasi presso il pubblico dell’immediata riconducibilità di un simile marchio di forma alla società attrice

D’altro canto, la pedissequa imitazione del packaging della colla originale, ha integrato, secondo il Tribunale, una condotta lesiva sul piano della concorrenza. Nonostante la presenza di differenze tra i due prodotti (marchio e denominazione, dimensione della confezione, composizione chimica e prezzo ridotto), (i) l’identità del packaging, (ii) l’offerta contestuale con il prodotto originale, (iii) il medesimo colore e carattere della scritta e, soprattutto, (iv) la presenza, nel prodotto illecito, di un errore che caratterizzava la confezione della colla originale (un riferimento normativo errato), risultano tutti elementi atti a confondere o quantomeno a collegare i due prodotti, ingenerando nel consumatore la convinzione che provengano dallo stesso produttore.

È stata esclusa la sussistenza di concorrenza sleale parassitaria, mancando l’elemento di un’imitazione continua sistematica e durevole, che non può configurarsi nel caso di specie, essendo gli atti imitativi rivolti ad un solo prodotto dell’attrice.

Sulla scorta di quanto sopra, il Tribunale ha condannato la convenuta per atti di concorrenza sleale e, precisamente, per imitazione servile e appropriazione di pregi dell’altrui prodotto, ai sensi dell’articolo 2598 n. 1 e 2 del Codice Civile.             

Un profilo interessante, sul piano operativo, è rappresentato dalle voci considerate dal Tribunale ai fini della quantificazione del danno. Il Giudicante, infatti, ha condannato la convenuta al pagamento di 15.000,00 euro così risultanti:

a. 9.108,48 euro, a titolo di danno patrimoniale (lucro cessante), quantificato sugli utili conseguiti dalla convenuta con la vendita dei prodotti illeciti;

b. 4.554,24 euro, a titolo di danno non patrimoniale (risarcimento del danno all’immagine), quantificato nella somma pari al 50% del danno patrimoniale;

c. 1337,28 euro, per rivalutazione monetaria e interessi legali.

(Tribunale Ordinario di Milano - Sezione specializzata in materia di impresa, Sezione A - Sentenza n. 8817 del 17 luglio 2015; provvedimento interamente consultabile e scaricabile al seguente link: http://www.giurisprudenzadelleimprese.it/imitazione-servile-del-packaging/)