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Bilancio - Tribunale di Milano: il rapporto proporzionale fra perdita taciuta e perdita totale rileva ai fini dell’esclusione della responsabilità degli amministratori

Bilancio - Tribunale di Milano: il rapporto proporzionale fra perdita taciuta e perdita totale rileva ai fini dell’esclusione della responsabilità degli amministratori
Bilancio - Tribunale di Milano: il rapporto proporzionale fra perdita taciuta e perdita totale rileva ai fini dell’esclusione della responsabilità degli amministratori

Secondo quanto stabilito dal Tribunale di Milano, uno scarto di 11 mila euro fra situazione patrimoniale presentata all’assemblea e valore effettivo del patrimonio, a fronte di una perdita di oltre un milione, è da considerarsi una prova del tutto insufficiente ai fini della contestazione di comunicazioni sociali false e dolose.

Il collegio ha conseguentemente ricondotto il comportamento delle parti attrici alla fattispecie della lite temeraria e alle corrispondenti sanzioni, secondo quanto previsto dall’articolo 96 del Codice di Procedura Civile.

 

Aumento di capitale non giustificato

Nel caso di specie il giudice di primo grado ha rigettato la domanda degli attori, soci di una S.R.L. successivamente dichiarata fallita, i quali avevano citato in giudizio gli ex amministratori della medesima società lamentando di essere stati indotti a sottoscrivere un aumento di capitale sulla scorta di informazioni false ricevute in merito alle condizioni del patrimonio sociale.

In particolare gli attori avevano denunciato che in occasione dell’assemblea convocata straordinariamente per sottoscrivere l’aumento di capitale non era ancora stato discusso, né tantomeno approvato, il bilancio di esercizio per l’anno precedente.

I soci avevano contestato che la perdita a loro comunicata era “significativamente inferiore a quella effettiva”, aggiungendo poi, come espressamente affermato in un relazione redatta dal loro consulente commercialista, che era “ragionevole ipotizzare che il patrimonio netto fosse stato artificiosamente tenuto al di sopra del minimo legale solo al fine di indurre i soci a sottoscrivere l’aumento di capitale”. Dichiaravano inoltre di essere stati tenuti all’oscuro del fatto che in sei mesi la gestione aveva prodotto oltre un milione di perdite, consumando completamente il patrimonio netto.

Esperivano dunque una azione di responsabilità extracontrattuale – a norma dell’articolo 2476 Comma VI Codice Civile – nei confronti degli amministratori all’epoca in carica, lamentando la falsità delle informazioni, il dolo dei convenuti e l’incidenza causale delle false informazioni sulle loro successive decisioni di investimento.

 

Osservazioni del giudice di merito

Sulla falsità delle informazioni fornite dai soci, il Tribunale rileva la mancanza di uno specifico accertamento della effettiva falsità delle informazioni, che potevano invece essere ricondotte a discordanti ma comunque legittime valutazioni di stima. La mancanza di un riscontro rilevante ai fini processuali si evince anche dal fatto che l’accusa di falsità della situazione patrimoniale presentata in assemblea si basa prevalentemente su documenti (quale la relazione redatta da un commercialista incaricato dai soci medesimi) di formazione “unilaterale” dei medesimi attori.

Ne consegue che, non risultando provata in atti la falsità dei dati oggetto del contenzioso, la domanda degli attori dovrebbe essere automaticamente rigettata.

Per quanto riguarda invece il presunto occultamento dell’entità effettiva della perdita del capitale sociale, il collegio giudicante ritiene di dover prendere atto della assoluta irrilevanza dei giudizi formulati dal consulente degli attori, non supportati da dati obiettivi riscontrabili nei documenti contabili.

Al contrario, dal semplice controllo dei documenti emergeva con chiarezza che il reale scarto fra la situazione patrimoniale effettiva e la rappresentazione proposta nel bilancio sociale era costituito da una somma di appena 11 mila euro, a fronte di una perdita per oltre un milione e di un totale di ricavi di soli 195 mila euro.

Con una simile situazione patrimoniale, tale da esaurire in ogni caso tutte le risorse finanziarie a disposizione della società, si deve riconoscere che la sottoscrizione dell’aumento di capitale a cui i soci erano stai chiamati durante l’assemblea straordinaria non poteva, in ogni caso, ragionevolmente basarsi sulle asserite false o incomplete informazioni fornite dagli amministratori.

 

Conclusioni

Di fronte a tali rilievi, il Tribunale di Milano afferma “non solo l’infondatezza, ma addirittura la palese pretestuosità dell’iniziativa assunta dagli attori” configurabile quindi come un “ingiustificabile tentativo di rovesciare su altri il peso delle proprie scelte di investimento poi rivelatesi infelici”.

Il giudizio si conclude dunque con un deciso rigetto della domanda proposta dagli attori, con ulteriore rilievo circa la “temerarietà” dell’iniziativa assunta, tanto più grave quanto espressamente incentrata su una contestazione di “dolo” dei convenuti. La fattispecie della lite temeraria impone in questo caso agli attori il pagamento di un ulteriore importo ex articolo 96 del Codice di Procedura Civile, quale risarcimento in favore delle parti ingiustificatamente portate in giudizio. L’importo è stato quantificato in euro 7.000,00 a favore di ciascuno dei convenuti.

La sentenza è integralmente consultabile sulla Rivista Giurisprudenza delle Imprese.

 

Focus Procedura Civile: la lite temeraria

In base a quanto stabilito dall’ordinamento civilistico italiano, l’abuso del diritto ad agire o resistere in giudizio dà luogo alla c.d. lite temeraria. Fin dalla promulgazione del Codice di Procedura Civile, l’articolo 96 ha disciplinato l’istituto tradizionale della responsabilità processuale aggravata, sanzionando la parte soccombente che ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave al risarcimento dei danni quantificati in via equitativa, oltre che al pagamento delle spese della lite.

La temerarietà e l’arbitrarietà della lite si ravvisano in caso di mancata diligenza nel verificare la sussistenza dei presupposti necessari ad agire in giudizio (colpa grave), o nella fattispecie in cui l’attore è a conoscenza dell’infondatezza delle sue pretese, ma le propone ugualmente dando avvio ad un processo inutile e immotivato (mala fede).

La responsabilità ex articolo 96 del Codice di Procedure Civile si riconosce anche al convenuto che al momento dell’avvio del processo aveva coscienza dell’infondatezza della propria eccezione di fronte alla pretesa della parte avversa (o che poteva acquisirla con la normale diligenza).

Dalle condizioni dell’ordinamento attuale, caratterizzato da un sovraccarico del sistema giudiziario e da mutazioni che si susseguono a ritmo incalzante (in particolare per quanto riguarda lo sviluppo della mediazione  e della negoziazione assistita), è scaturita un’interpretazione dell’articolo 96 che mira a contemperare il diritto di difesa con l’esigenza di assicurare un ragionevole ricorso alla via giudiziale, evitando gli abusi e contenendo i costi di una giustizia civile già eccessivamente oberata.

(Tribunale Ordinario di Milano - Sezione specializzata in materia di impresa, Sentenza 8 novembre 2016, n. 12266)

Secondo quanto stabilito dal Tribunale di Milano, uno scarto di 11 mila euro fra situazione patrimoniale presentata all’assemblea e valore effettivo del patrimonio, a fronte di una perdita di oltre un milione, è da considerarsi una prova del tutto insufficiente ai fini della contestazione di comunicazioni sociali false e dolose.

Il collegio ha conseguentemente ricondotto il comportamento delle parti attrici alla fattispecie della lite temeraria e alle corrispondenti sanzioni, secondo quanto previsto dall’articolo 96 del Codice di Procedura Civile.

 

Aumento di capitale non giustificato

Nel caso di specie il giudice di primo grado ha rigettato la domanda degli attori, soci di una S.R.L. successivamente dichiarata fallita, i quali avevano citato in giudizio gli ex amministratori della medesima società lamentando di essere stati indotti a sottoscrivere un aumento di capitale sulla scorta di informazioni false ricevute in merito alle condizioni del patrimonio sociale.

In particolare gli attori avevano denunciato che in occasione dell’assemblea convocata straordinariamente per sottoscrivere l’aumento di capitale non era ancora stato discusso, né tantomeno approvato, il bilancio di esercizio per l’anno precedente.

I soci avevano contestato che la perdita a loro comunicata era “significativamente inferiore a quella effettiva”, aggiungendo poi, come espressamente affermato in un relazione redatta dal loro consulente commercialista, che era “ragionevole ipotizzare che il patrimonio netto fosse stato artificiosamente tenuto al di sopra del minimo legale solo al fine di indurre i soci a sottoscrivere l’aumento di capitale”. Dichiaravano inoltre di essere stati tenuti all’oscuro del fatto che in sei mesi la gestione aveva prodotto oltre un milione di perdite, consumando completamente il patrimonio netto.

Esperivano dunque una azione di responsabilità extracontrattuale – a norma dell’articolo 2476 Comma VI Codice Civile – nei confronti degli amministratori all’epoca in carica, lamentando la falsità delle informazioni, il dolo dei convenuti e l’incidenza causale delle false informazioni sulle loro successive decisioni di investimento.

 

Osservazioni del giudice di merito

Sulla falsità delle informazioni fornite dai soci, il Tribunale rileva la mancanza di uno specifico accertamento della effettiva falsità delle informazioni, che potevano invece essere ricondotte a discordanti ma comunque legittime valutazioni di stima. La mancanza di un riscontro rilevante ai fini processuali si evince anche dal fatto che l’accusa di falsità della situazione patrimoniale presentata in assemblea si basa prevalentemente su documenti (quale la relazione redatta da un commercialista incaricato dai soci medesimi) di formazione “unilaterale” dei medesimi attori.

Ne consegue che, non risultando provata in atti la falsità dei dati oggetto del contenzioso, la domanda degli attori dovrebbe essere automaticamente rigettata.

Per quanto riguarda invece il presunto occultamento dell’entità effettiva della perdita del capitale sociale, il collegio giudicante ritiene di dover prendere atto della assoluta irrilevanza dei giudizi formulati dal consulente degli attori, non supportati da dati obiettivi riscontrabili nei documenti contabili.

Al contrario, dal semplice controllo dei documenti emergeva con chiarezza che il reale scarto fra la situazione patrimoniale effettiva e la rappresentazione proposta nel bilancio sociale era costituito da una somma di appena 11 mila euro, a fronte di una perdita per oltre un milione e di un totale di ricavi di soli 195 mila euro.

Con una simile situazione patrimoniale, tale da esaurire in ogni caso tutte le risorse finanziarie a disposizione della società, si deve riconoscere che la sottoscrizione dell’aumento di capitale a cui i soci erano stai chiamati durante l’assemblea straordinaria non poteva, in ogni caso, ragionevolmente basarsi sulle asserite false o incomplete informazioni fornite dagli amministratori.

 

Conclusioni

Di fronte a tali rilievi, il Tribunale di Milano afferma “non solo l’infondatezza, ma addirittura la palese pretestuosità dell’iniziativa assunta dagli attori” configurabile quindi come un “ingiustificabile tentativo di rovesciare su altri il peso delle proprie scelte di investimento poi rivelatesi infelici”.

Il giudizio si conclude dunque con un deciso rigetto della domanda proposta dagli attori, con ulteriore rilievo circa la “temerarietà” dell’iniziativa assunta, tanto più grave quanto espressamente incentrata su una contestazione di “dolo” dei convenuti. La fattispecie della lite temeraria impone in questo caso agli attori il pagamento di un ulteriore importo ex articolo 96 del Codice di Procedura Civile, quale risarcimento in favore delle parti ingiustificatamente portate in giudizio. L’importo è stato quantificato in euro 7.000,00 a favore di ciascuno dei convenuti.

La sentenza è integralmente consultabile sulla Rivista Giurisprudenza delle Imprese.

 

Focus Procedura Civile: la lite temeraria

In base a quanto stabilito dall’ordinamento civilistico italiano, l’abuso del diritto ad agire o resistere in giudizio dà luogo alla c.d. lite temeraria. Fin dalla promulgazione del Codice di Procedura Civile, l’articolo 96 ha disciplinato l’istituto tradizionale della responsabilità processuale aggravata, sanzionando la parte soccombente che ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave al risarcimento dei danni quantificati in via equitativa, oltre che al pagamento delle spese della lite.

La temerarietà e l’arbitrarietà della lite si ravvisano in caso di mancata diligenza nel verificare la sussistenza dei presupposti necessari ad agire in giudizio (colpa grave), o nella fattispecie in cui l’attore è a conoscenza dell’infondatezza delle sue pretese, ma le propone ugualmente dando avvio ad un processo inutile e immotivato (mala fede).

La responsabilità ex articolo 96 del Codice di Procedure Civile si riconosce anche al convenuto che al momento dell’avvio del processo aveva coscienza dell’infondatezza della propria eccezione di fronte alla pretesa della parte avversa (o che poteva acquisirla con la normale diligenza).

Dalle condizioni dell’ordinamento attuale, caratterizzato da un sovraccarico del sistema giudiziario e da mutazioni che si susseguono a ritmo incalzante (in particolare per quanto riguarda lo sviluppo della mediazione  e della negoziazione assistita), è scaturita un’interpretazione dell’articolo 96 che mira a contemperare il diritto di difesa con l’esigenza di assicurare un ragionevole ricorso alla via giudiziale, evitando gli abusi e contenendo i costi di una giustizia civile già eccessivamente oberata.

(Tribunale Ordinario di Milano - Sezione specializzata in materia di impresa, Sentenza 8 novembre 2016, n. 12266)