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Concorrenza sleale - Tribunale di Milano: i confini delle fattispecie di concorrenza sleale per prodotti confondibili (calzature con fiocco)

Concorrenza sleale - Tribunale di Milano: i confini delle fattispecie di concorrenza sleale per prodotti confondibili (calzature con fiocco)
Concorrenza sleale - Tribunale di Milano: i confini delle fattispecie di concorrenza sleale per prodotti confondibili (calzature con fiocco)

Prodotti confondibili: il Tribunale di Milano pone al centro della valutazione il consumatore. È così che il giudizio di confondibilità in buona parte segna il confine del diritto di concorrenza e diviene criterio identificativo delle ipotesi di cui all’articolo 2598 del Codice Civile.

Fatto

La ricorrente aveva proposto ricorso nei confronti di due società le quali avevano promosso e commercializzato sui loro rispettivi siti internet delle calzature in contraffazione a quelle della ricorrente. In particolare la ricorrente sosteneva di aver creato un nuovo ed originale modello di calzatura la cui caratteristica peculiare consisteva in un fiocco che avvolgeva quasi totalmente la parte superiore della scarpa.

Ad avviso della ricorrente, tale fiocco costituiva l’elemento individualizzante del suo prodotto, capace di contraddistinguerlo rispetto a tutti gli altri modelli di calzature in commercio, ed entrambe le società resistenti lo avevano imitato inserendo sul mercato scarpe sostanzialmente simili.

Tale condotta, secondo la ricorrente, integrava un’ipotesi di concorrenza sleale ai sensi dell’articolo 2598, numeri 1 e 2, del Codice Civile in quanto le resistenti avrebbero, da un lato, ingenerato confusione nel pubblico dei consumatori circa la provenienza delle calzature in oggetto, imitandone il modello, e dall’altro, si sarebbero indebitamente appropriate di pregi della ricorrente che aveva raggiunto un notevole accreditamento e apprezzamento del mercato. Il procedimento proseguiva nei confronti di una sola delle resistenti; l’altra società e la ricorrente, a seguito della prima udienza, avevano transatto la lite.

Motivazioni

Il Tribunale di Milano ha accolto il procedimento e disposto le misure cautelari ritenute opportune sulla base di puntuali valutazioni.

Innanzitutto ha accertato la sussistenza del requisito del fumus boni iuris rispetto all’ipotesi di concorrenza sleale di cui numero 1 dell’articolo 2598 del Codice Civile risolvendo in via preliminare una duplice questione.

Da un lato, infatti, ha riconosciuto che il fiocco sulla tomaia della calzatura della ricorrente è un segno dotato di capacità individualizzante e distintiva del prodotto. Nel caso in esame si tratta di una caratteristica esteriore, originale e non condizionata dalla funzione (non essenziale alla funzione tecnica), destinata ad avere una portata distintiva e quindi ad essere immediatamente ricollegata dal consumatore ad una determinata azienda, quella della ricorrente.

D’altro canto, ha rilevato che la resistente ha riprodotto in modo sostanzialmente identico l’elemento individualizzante del fiocco suscitando la medesima impressione generale nel consumatore che non sarebbe in grado di discernere quale sia il prodotto originale e quale quello imitato.

Alla luce delle considerazioni svolte, il Giudice ha concluso che è da ritenersi integrata la condotta di concorrenza sleale per imitazione servile di cui al numero 1 dell’articolo 2598 del Codice Civile, in quanto la calzatura proposta sul sito della resistente induce in inganno il consumatore circa la provenienza del prodotto.

Il Tribunale di Milano ha poi valutato il fumus boni iuris con riferimento a quanto previsto dal numero 2 dell’articolo 2598 del Codice Civile, ossia se l’imitazione servile del prodotto da parte della resistente le abbia permesso di appropriarsi indebitamente dell’accreditamento raggiunto sul mercato dalla calzatura della ricorrente. E questo, come dimostrato dalla ricorrente, grazie agli ingenti investimenti anche pubblicitari e il successo della scarpa, indossata da celebrità del mondo dello spettacolo, di cui ha dato riscontro la stampa.

In tal senso però, il Tribunale di Milano ha negato che si possano ravvisare nel caso di specie i presupposti dell’illecito concorrenziale di agganciamento ex articolo 2598 numero 2 del Codice Civile. Quest’ultima previsione infatti non si riferisce all’adozione di tecniche, materiali o procedimenti già usati da un’altra impresa (che può dar luogo alla concorrenza sleale per imitazione servile), bensì alla condotta parassitaria di un imprenditore che attribuisce ai propri prodotti dei pregi o dei requisiti da essi non posseduti in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.

In questa ipotesi non si crea un effetto confusorio a carico dei consumatori perché il fine è solo quello di richiamare alla mente di quest’ultimi il prodotto della concorrente, sfruttandone il lavoro e l’investimento, per l’accreditamento del nuovo. Il nuovo prodotto in qualche modo si appropria delle qualità e dei pregi che appartengono al prodotto di un’altra impresa ma ne resta in ogni caso distinto.

In altre parole l’agganciamento illecito è incompatibile con la fattispecie confusoria della concorrenza sleale di cui al numero 1 dell’articolo 2598 del Codice Civile.

Infine il Tribunale ha osservato che sussiste il periculum di un danno di confusione difficilmente reversibile amplificato dal fatto che i prodotti imitativi siano stati commercializzati tramite la rete internet, che implica di per sé un’elevata potenzialità di diffusione e, di conseguenza, un grave pregiudizio alla capacità distintiva del prodotto originale.

Decisione

In conclusione, il Tribunale di Milano ha ordinato in primo luogo l’inibizione della prosecuzione della condotta illecita posta in essere dalla resistente, fissando una somma a titolo di penale per ogni violazione successivamente constatata ed una somma per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento; in secondo luogo ha ordinato, in funzione non solo riparatoria e sanzionatoria ma anche deterrente, la pubblicazione dell’intestazione e del dispositivo dell’ordinanza cautelare sulla home page del sito web della resistente; e da ultimo ha condannato la resistente a rifondere tutte le spese in favore della ricorrente.

L’articolo 2598 Codice Civile, numero 1 e numero 2

L’articolo 2598 (Atti di concorrenza sleale) racchiude casi alternativi e diversi: al numero 1 si parla di imitazione servile destinata a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; al numero 2 di appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa concorrente.

Il procedimento sottoposto al vaglio del Tribunale di Milano consente di riflettere sulla differenza che intercorre tra la concorrenza sleale per riproduzione servile confusoria di cui al numero 1 dell’articolo 2598 del Codice civile e la concorrenza sleale per agganciamento di cui al numero 2 del sopra citato articolo.

L’imitazione servile è rilevante ai fini della concorrenza sleale quando un’impresa riproduca, non qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo quella forma esteriore che abbia un valore individualizzante e distintivo tale da rendere il prodotto originale (indipendentemente dal fatto che sia o meno oggetto di brevetto) e facilmente riferibile ad una determinata impresa. L’illiceità della riproduzione servile dipende dalla sua idoneità a creare confusione tra i prodotti messi in commercio. A tal proposito la Suprema Corte ha affermato il principio secondo il quale sussiste imitazione servile ai sensi del numero 1 dell’articolo 2598 del Codice Civile se questa è idonea ad indurre il consumatore in inganno sulla provenienza del prodotto. E per questa ragione ha rilievo esclusivamente l’imitazione che riguarda connotati formali non necessari alle caratteristiche funzionali del prodotto e visibili esteriormente.

Diversamente l’ipotesi di agganciamento prevista dal numero 2 dell’articolo 2598 del Codice civile consiste nell’appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui per introdursi sul mercato, ferma restando la distinzione d’identità fra gli uni e gli altri e, quindi, non integrando il rischio di confusione riguardo all’origine imprenditoriale del prodotto.

L’ordinanza è integralmente consultabile sulla Rivista Giurisprudenza delle Imprese.

(Tribunale Ordinario di Milano - Sezione specializzata in materia di impresa A, Ordinanza del 30 dicembre 2016, R.G. n. 51429/2016)

Prodotti confondibili: il Tribunale di Milano pone al centro della valutazione il consumatore. È così che il giudizio di confondibilità in buona parte segna il confine del diritto di concorrenza e diviene criterio identificativo delle ipotesi di cui all’articolo 2598 del Codice Civile.

Fatto

La ricorrente aveva proposto ricorso nei confronti di due società le quali avevano promosso e commercializzato sui loro rispettivi siti internet delle calzature in contraffazione a quelle della ricorrente. In particolare la ricorrente sosteneva di aver creato un nuovo ed originale modello di calzatura la cui caratteristica peculiare consisteva in un fiocco che avvolgeva quasi totalmente la parte superiore della scarpa.

Ad avviso della ricorrente, tale fiocco costituiva l’elemento individualizzante del suo prodotto, capace di contraddistinguerlo rispetto a tutti gli altri modelli di calzature in commercio, ed entrambe le società resistenti lo avevano imitato inserendo sul mercato scarpe sostanzialmente simili.

Tale condotta, secondo la ricorrente, integrava un’ipotesi di concorrenza sleale ai sensi dell’articolo 2598, numeri 1 e 2, del Codice Civile in quanto le resistenti avrebbero, da un lato, ingenerato confusione nel pubblico dei consumatori circa la provenienza delle calzature in oggetto, imitandone il modello, e dall’altro, si sarebbero indebitamente appropriate di pregi della ricorrente che aveva raggiunto un notevole accreditamento e apprezzamento del mercato. Il procedimento proseguiva nei confronti di una sola delle resistenti; l’altra società e la ricorrente, a seguito della prima udienza, avevano transatto la lite.

Motivazioni

Il Tribunale di Milano ha accolto il procedimento e disposto le misure cautelari ritenute opportune sulla base di puntuali valutazioni.

Innanzitutto ha accertato la sussistenza del requisito del fumus boni iuris rispetto all’ipotesi di concorrenza sleale di cui numero 1 dell’articolo 2598 del Codice Civile risolvendo in via preliminare una duplice questione.

Da un lato, infatti, ha riconosciuto che il fiocco sulla tomaia della calzatura della ricorrente è un segno dotato di capacità individualizzante e distintiva del prodotto. Nel caso in esame si tratta di una caratteristica esteriore, originale e non condizionata dalla funzione (non essenziale alla funzione tecnica), destinata ad avere una portata distintiva e quindi ad essere immediatamente ricollegata dal consumatore ad una determinata azienda, quella della ricorrente.

D’altro canto, ha rilevato che la resistente ha riprodotto in modo sostanzialmente identico l’elemento individualizzante del fiocco suscitando la medesima impressione generale nel consumatore che non sarebbe in grado di discernere quale sia il prodotto originale e quale quello imitato.

Alla luce delle considerazioni svolte, il Giudice ha concluso che è da ritenersi integrata la condotta di concorrenza sleale per imitazione servile di cui al numero 1 dell’articolo 2598 del Codice Civile, in quanto la calzatura proposta sul sito della resistente induce in inganno il consumatore circa la provenienza del prodotto.

Il Tribunale di Milano ha poi valutato il fumus boni iuris con riferimento a quanto previsto dal numero 2 dell’articolo 2598 del Codice Civile, ossia se l’imitazione servile del prodotto da parte della resistente le abbia permesso di appropriarsi indebitamente dell’accreditamento raggiunto sul mercato dalla calzatura della ricorrente. E questo, come dimostrato dalla ricorrente, grazie agli ingenti investimenti anche pubblicitari e il successo della scarpa, indossata da celebrità del mondo dello spettacolo, di cui ha dato riscontro la stampa.

In tal senso però, il Tribunale di Milano ha negato che si possano ravvisare nel caso di specie i presupposti dell’illecito concorrenziale di agganciamento ex articolo 2598 numero 2 del Codice Civile. Quest’ultima previsione infatti non si riferisce all’adozione di tecniche, materiali o procedimenti già usati da un’altra impresa (che può dar luogo alla concorrenza sleale per imitazione servile), bensì alla condotta parassitaria di un imprenditore che attribuisce ai propri prodotti dei pregi o dei requisiti da essi non posseduti in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.

In questa ipotesi non si crea un effetto confusorio a carico dei consumatori perché il fine è solo quello di richiamare alla mente di quest’ultimi il prodotto della concorrente, sfruttandone il lavoro e l’investimento, per l’accreditamento del nuovo. Il nuovo prodotto in qualche modo si appropria delle qualità e dei pregi che appartengono al prodotto di un’altra impresa ma ne resta in ogni caso distinto.

In altre parole l’agganciamento illecito è incompatibile con la fattispecie confusoria della concorrenza sleale di cui al numero 1 dell’articolo 2598 del Codice Civile.

Infine il Tribunale ha osservato che sussiste il periculum di un danno di confusione difficilmente reversibile amplificato dal fatto che i prodotti imitativi siano stati commercializzati tramite la rete internet, che implica di per sé un’elevata potenzialità di diffusione e, di conseguenza, un grave pregiudizio alla capacità distintiva del prodotto originale.

Decisione

In conclusione, il Tribunale di Milano ha ordinato in primo luogo l’inibizione della prosecuzione della condotta illecita posta in essere dalla resistente, fissando una somma a titolo di penale per ogni violazione successivamente constatata ed una somma per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento; in secondo luogo ha ordinato, in funzione non solo riparatoria e sanzionatoria ma anche deterrente, la pubblicazione dell’intestazione e del dispositivo dell’ordinanza cautelare sulla home page del sito web della resistente; e da ultimo ha condannato la resistente a rifondere tutte le spese in favore della ricorrente.

L’articolo 2598 Codice Civile, numero 1 e numero 2

L’articolo 2598 (Atti di concorrenza sleale) racchiude casi alternativi e diversi: al numero 1 si parla di imitazione servile destinata a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; al numero 2 di appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa concorrente.

Il procedimento sottoposto al vaglio del Tribunale di Milano consente di riflettere sulla differenza che intercorre tra la concorrenza sleale per riproduzione servile confusoria di cui al numero 1 dell’articolo 2598 del Codice civile e la concorrenza sleale per agganciamento di cui al numero 2 del sopra citato articolo.

L’imitazione servile è rilevante ai fini della concorrenza sleale quando un’impresa riproduca, non qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo quella forma esteriore che abbia un valore individualizzante e distintivo tale da rendere il prodotto originale (indipendentemente dal fatto che sia o meno oggetto di brevetto) e facilmente riferibile ad una determinata impresa. L’illiceità della riproduzione servile dipende dalla sua idoneità a creare confusione tra i prodotti messi in commercio. A tal proposito la Suprema Corte ha affermato il principio secondo il quale sussiste imitazione servile ai sensi del numero 1 dell’articolo 2598 del Codice Civile se questa è idonea ad indurre il consumatore in inganno sulla provenienza del prodotto. E per questa ragione ha rilievo esclusivamente l’imitazione che riguarda connotati formali non necessari alle caratteristiche funzionali del prodotto e visibili esteriormente.

Diversamente l’ipotesi di agganciamento prevista dal numero 2 dell’articolo 2598 del Codice civile consiste nell’appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui per introdursi sul mercato, ferma restando la distinzione d’identità fra gli uni e gli altri e, quindi, non integrando il rischio di confusione riguardo all’origine imprenditoriale del prodotto.

L’ordinanza è integralmente consultabile sulla Rivista Giurisprudenza delle Imprese.

(Tribunale Ordinario di Milano - Sezione specializzata in materia di impresa A, Ordinanza del 30 dicembre 2016, R.G. n. 51429/2016)