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Minaccia - Cassazione Penale: la frase “il mio scopo nella vita è farti piangere” integra comunque il reato di minaccia

Minaccia - Cassazione Penale: la frase “il mio scopo nella vita è farti piangere” integra comunque il reato di minaccia
Minaccia - Cassazione Penale: la frase “il mio scopo nella vita è farti piangere” integra comunque il reato di minaccia

La Corte di Cassazione, in una recente pronuncia, ha affermato che dire ad una persona “il mio scopo nella vita è farti piangere” è una condotta intimidatoria e, come tale, integra il reato di minaccia a prescindere se dalle parole non susseguono i fatti.

Il caso

Nel caso in esame, il Tribunale di Genova, confermando la decisione di primo grado, aveva condannato un soggetto alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni della parte civile, ritenendolo responsabile del reato di minaccia previsto dall’articolo 692 del Codice Penale. A detta decisione ha fatto seguito ricorso per Cassazione dell’imputato per i motivi di seguito esposti.

Innanzitutto, il ricorrente, con il primo motivo, ha  lamentato la mancata considerazione da parte del Tribunale delle sue dichiarazioni. Lo stesso aveva negato di aver pronunciato le minacce oggetto di reato, ritenendo che la decisione del Tribunale era stata presa tenendo conto delle sole affermazioni, peraltro vaghe, della persona offesa, senza indicare il contesto nel quale si sarebbe verificato l’episodio.

Inoltre, l’imputato ha aggiunto che nella sentenza impugnata non veniva preso in esame il clima sereno dei messaggi acquisiti e che il Tribunale aveva trascurato di valutare il clima di esasperata e persistente conflittualità di altro procedimento scaturito da una delle querele proposte dall’imputato nei confronti della persona offesa, che aveva, poi, condotto alla archiviazione.

Con il secondo motivo, il ricorrente ha lamentato vizi motivazionali e violazione di legge in relazione al mancato rilievo della particolare tenuità del fatto.

Ciò premesso, la Suprema Corte ha respinto il ricorso dell’imputato, ritenendo i motivi sopra esposti inammissibili.

La decisione della Corte di Cassazione

Con riferimento al primo motivo di ricorso, la Cassazione ha chiarito che le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputo. Tali dichiarazioni, seguite dal racconto della persona offesa, devono, però, essere più penetranti e rigorose rispetto ad altre dichiarazioni di qualsiasi testimone.

Con riferimento alla frase pronunciata dall’imputato “il mio scopo nella vita è farti piangere”, la Cassazione ha affermato che: “elemento essenziale del reato in esame è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall’autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest’ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire”.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato anche il secondo motivo di ricorso, dal momento che, in base a quanto disposto dall’articolo 34, comma 3 del Decreto Legislativo 274/2000, dopo l’esercizio dell’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata solo quando, oltre all’imputato, anche la persona offesa non si oppone, circostanza, peraltro, non verificatasi nel caso di specie, in quanto la parte offesa, una volta costituitasi parte civile, ha formulato richieste risarcitorie.

Pertanto, per i motivi sopra esposti, la Corte di Cassazione ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità.

 (Corte di Cassazione - Quinta Sezione Penale, Sentenza 16 marzo 2017, n. 12756)

La Corte di Cassazione, in una recente pronuncia, ha affermato che dire ad una persona “il mio scopo nella vita è farti piangere” è una condotta intimidatoria e, come tale, integra il reato di minaccia a prescindere se dalle parole non susseguono i fatti.

Il caso

Nel caso in esame, il Tribunale di Genova, confermando la decisione di primo grado, aveva condannato un soggetto alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni della parte civile, ritenendolo responsabile del reato di minaccia previsto dall’articolo 692 del Codice Penale. A detta decisione ha fatto seguito ricorso per Cassazione dell’imputato per i motivi di seguito esposti.

Innanzitutto, il ricorrente, con il primo motivo, ha  lamentato la mancata considerazione da parte del Tribunale delle sue dichiarazioni. Lo stesso aveva negato di aver pronunciato le minacce oggetto di reato, ritenendo che la decisione del Tribunale era stata presa tenendo conto delle sole affermazioni, peraltro vaghe, della persona offesa, senza indicare il contesto nel quale si sarebbe verificato l’episodio.

Inoltre, l’imputato ha aggiunto che nella sentenza impugnata non veniva preso in esame il clima sereno dei messaggi acquisiti e che il Tribunale aveva trascurato di valutare il clima di esasperata e persistente conflittualità di altro procedimento scaturito da una delle querele proposte dall’imputato nei confronti della persona offesa, che aveva, poi, condotto alla archiviazione.

Con il secondo motivo, il ricorrente ha lamentato vizi motivazionali e violazione di legge in relazione al mancato rilievo della particolare tenuità del fatto.

Ciò premesso, la Suprema Corte ha respinto il ricorso dell’imputato, ritenendo i motivi sopra esposti inammissibili.

La decisione della Corte di Cassazione

Con riferimento al primo motivo di ricorso, la Cassazione ha chiarito che le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputo. Tali dichiarazioni, seguite dal racconto della persona offesa, devono, però, essere più penetranti e rigorose rispetto ad altre dichiarazioni di qualsiasi testimone.

Con riferimento alla frase pronunciata dall’imputato “il mio scopo nella vita è farti piangere”, la Cassazione ha affermato che: “elemento essenziale del reato in esame è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall’autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest’ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire”.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato anche il secondo motivo di ricorso, dal momento che, in base a quanto disposto dall’articolo 34, comma 3 del Decreto Legislativo 274/2000, dopo l’esercizio dell’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata solo quando, oltre all’imputato, anche la persona offesa non si oppone, circostanza, peraltro, non verificatasi nel caso di specie, in quanto la parte offesa, una volta costituitasi parte civile, ha formulato richieste risarcitorie.

Pertanto, per i motivi sopra esposti, la Corte di Cassazione ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità.

 (Corte di Cassazione - Quinta Sezione Penale, Sentenza 16 marzo 2017, n. 12756)