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Religione - Corte di Giustizia UE: vietare il velo islamico sul posto di lavoro non costituisce discriminazione diretta

Religione - Corte di Giustizia UE: vietare il velo islamico sul posto di lavoro non costituisce discriminazione diretta
Religione - Corte di Giustizia UE: vietare il velo islamico sul posto di lavoro non costituisce discriminazione diretta

In questi primi mesi del 2017 possiamo vedere come la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sia intervenuta in merito ad uno dei temi centrali nel panorama socio politico del vecchio continente.  Infatti, con le sentenze C-188/15 e C-157/15 del 2017, ha sancito che il divieto di indossare il velo islamico sul posto di lavoro non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi della direttiva 2000/78/CE del Consiglio.

Il grande valore sociale e umano è stato anche evidenziato da Amnesty International che ha prodotto un documento ufficiale per esprimere il disaccordo con le decisioni dei giudici, che si sono espressi sul velo islamico sul posto di lavoro, formulando la propria interpretazione a due articoli della direttiva 2000/78/CE.

In primo luogo i giudici hanno cercato di dare un’interpretazione univoca all’articolo 2, paragrafo 2, lettera A della direttiva 2000/78/CE, ai sensi del quale: “sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente  di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.

Inoltre hanno interpretato l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE secondo cui: “Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a una qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato”.

 

I fatti

I fatti che hanno portato Belgio e Francia a interrompere il giudizio in sede nazionale e a portarlo davanti alla Corte di Giustizia Europea sono molto simili tra loro e hanno come protagoniste due donne di fede islamica.

Il caso presentato dalla corte di Cassazione belga riguarda una donna di fede mussulmana, assunta da una società belga in qualità di receptionist con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Nella suddetta società vigeva al tempo una regola non scritta che vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle proprie convinzioni politiche, filosofiche o religiose.

Dopo alcuni anni di lavoro, ella comunicò ai propri superiori l’intenzione di indossare il velo durante l’orario lavorativo ed in risposta la direzione della società le comunicò che il fatto di indossare il velo non sarebbe stato tollerato in quanto segno religioso visibile e perciò contrario alla neutralità a cui tendeva l’impresa.

A seguito di un cambiamento nel regolamento interno, che rese scritta la regola già sopra enunciata, la donna venne licenziata e dopo che il suo ricorso, avanti il tribunale del lavoro di Anversa, venne rigettato, ella impugnò tale decisione alla corte di Appello del lavoro di Anversa. Questa respinse l’appello in quanto il motivo del licenziamento non poteva essere considerato ingiustificato in quanto il divieto di indossare sul luogo di lavoro segni religiosi, politici e filosofici non era considerato discriminazione diretta. Ella dunque portò la sua causa fino in Cassazione dove sostenne che la Corte d’Appello del Lavoro di Anversa avesse travisato la nozione di discriminazione diretta e indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 2000/78/CE.

La Corte di Cassazione Belga decise allora di sospendere il giudizio e di proporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente domanda stragiudiziale: “se l’Articolo debba essere interpretato nel senso che il divieto per una donna musulmana di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro non configuri una discriminazione diretta qualora la regola vigente presso il datore di lavoro vieti a tutti i dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni esteriori di  convinzioni politiche, filosofiche e religiose”.

Invece il secondo caso sottoposto alla Corte di Giustizia UE riguarda una donna francese di origine araba di fede mussulmana. Durante una fiera per studenti la donna venne contattata da una grande azienda, interessata alle sue qualità per una possibile assunzione. Essa venne fin da subito avvisata che il velo avrebbe potuto causare dei problemi in sede di lavoro con il pubblico. Dopo aver svolto un tirocinio presso la società, venne assunta in qualità di ingegnere progettista con un contratto a tempo indeterminato. L’azienda, dopo circa una anno di lavoro, la sanzionò con il licenziamento in quanto nelle sue mansioni a contatto con i clienti, nonostante gli iniziali avvertimenti, ella aveva continuato a indossare il velo, infastidendo vari clienti.

Ritenendo che il licenziamento fosse discriminatorio, l’attrice ha proposto ricorso davanti al giudice del lavoro di Parigi, il quale ha condannato l’azienda al pagamento di una indennità di preavviso per non aver specificato la gravità della colpa contestata e ha, invece, respinto il ricorso per gli altri motivi. Il giudice ha giustificato la restrizione di libertà della lavoratrice alla luce del contatto con i clienti e l’ha giudicata proporzionata all’idea di neutralità promossa dall’azienda.

L’attrice ha proposto poi appello alla Corte D’Appello di Parigi, che ha ribadito come il suo licenziamento non fosse dovuto ad una discriminazione in base alle sue convinzioni religiose, ma che era giustificato dall’interesse dell’impresa. Infine il caso è giunto alla Corte di Cassazione francese che ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte la seguente domanda pregiudiziale: “se le disposizioni di cui all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 debbano essere interpretate nel senso che, per la natura di una attività lavorativa o per il contesto in cui essa va espletata , il desiderio di un cliente di non essere servito da un soggetto che indossi il velo islamico, costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

 

Le questioni pregiudiziali

Per poter analizzare in modo esaustivo le questioni pregiudiziali proposte dalle corti di Cassazione Belga e Francese è necessario analizzare velocemente i primi articoli della direttiva 2000/78/CE.

La direttiva promulgata nel 2000 fornisce un quadro generale per quanto riguarda la lotta alla discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali (Articolo 1) nell’ambito del posto di lavoro e con il fine ultimo di rendere effettivo negli stati membri il principio della parità di trattamento.

La direttiva però non contiene nessuna definizione della nozione di religione e questo ha portato il legislatore europeo a fare riferimento, in primo luogo, alla CEDU. Essa infatti statuisce che ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e ciò include anche il diritto di manifestare la propria religione individualmente o collettivamente, in privato o in pubblico. In secondo luogo sono state anche considerate le tradizioni comuni costituzionali dei vari stati membri, considerate come principi generali dell’Unione europea e che hanno portato i legislatori a concepire la nozione di religione con una visione molto ampia. Infatti si include in tale nozione la libertà per le persone di manifestare la propria religione e si deve ritenere che la stessa definizione sia stata mantenuta anche nella suddetta direttiva.

Un altro fattore che deve essere analizzato è se dalla norma interna emerga una disparità di trattamento tra lavoratori a seconda della loro religione o delle loro convinzioni. Considerando i casi in questione si deve ritenere che la norme interne trattino in maniera identica tutti i  dipendenti senza creare situazioni di discriminazione diretta o indiretta come quelle evidenziate dalla direttiva.

In ogni caso poi, spetta agli Stati Membri stabilire se e cosa possa costituire una disparità di trattamento e la Corte ha anche più volte ribadito come l’articolo 4 della direttiva stabilisca che non è il motivo su cui è basata la disparità a costituire un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, ma una caratteristica che può ad esso essere legata. In particolare si sottolinea come è solo in casi strettamente limitati che una caratteristica collegata alla religione può costituire un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Spetterà al giudice nazionale effettuare una ultima analisi dei due casi, sulla scorta delle pronunce della Corte di Giustizia. La Corte europea è infatti competente a dare le sole interpretazioni che consentano poi al giudice nazionale di pronunciarsi concretamente sulla questione.

 

La decisione

A seguito dei motivi sopra elencati la Corte di Giustizia Europea ha dichiarato:

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva.”

L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dev’essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione.”

(Sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, grande sezione, sentenza 14 Marzo 2017, causa C157/15 e sentenza del 14 Marzo 2017, causa C188-15)

In questi primi mesi del 2017 possiamo vedere come la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sia intervenuta in merito ad uno dei temi centrali nel panorama socio politico del vecchio continente.  Infatti, con le sentenze C-188/15 e C-157/15 del 2017, ha sancito che il divieto di indossare il velo islamico sul posto di lavoro non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi della direttiva 2000/78/CE del Consiglio.

Il grande valore sociale e umano è stato anche evidenziato da Amnesty International che ha prodotto un documento ufficiale per esprimere il disaccordo con le decisioni dei giudici, che si sono espressi sul velo islamico sul posto di lavoro, formulando la propria interpretazione a due articoli della direttiva 2000/78/CE.

In primo luogo i giudici hanno cercato di dare un’interpretazione univoca all’articolo 2, paragrafo 2, lettera A della direttiva 2000/78/CE, ai sensi del quale: “sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente  di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.

Inoltre hanno interpretato l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE secondo cui: “Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a una qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato”.

 

I fatti

I fatti che hanno portato Belgio e Francia a interrompere il giudizio in sede nazionale e a portarlo davanti alla Corte di Giustizia Europea sono molto simili tra loro e hanno come protagoniste due donne di fede islamica.

Il caso presentato dalla corte di Cassazione belga riguarda una donna di fede mussulmana, assunta da una società belga in qualità di receptionist con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Nella suddetta società vigeva al tempo una regola non scritta che vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle proprie convinzioni politiche, filosofiche o religiose.

Dopo alcuni anni di lavoro, ella comunicò ai propri superiori l’intenzione di indossare il velo durante l’orario lavorativo ed in risposta la direzione della società le comunicò che il fatto di indossare il velo non sarebbe stato tollerato in quanto segno religioso visibile e perciò contrario alla neutralità a cui tendeva l’impresa.

A seguito di un cambiamento nel regolamento interno, che rese scritta la regola già sopra enunciata, la donna venne licenziata e dopo che il suo ricorso, avanti il tribunale del lavoro di Anversa, venne rigettato, ella impugnò tale decisione alla corte di Appello del lavoro di Anversa. Questa respinse l’appello in quanto il motivo del licenziamento non poteva essere considerato ingiustificato in quanto il divieto di indossare sul luogo di lavoro segni religiosi, politici e filosofici non era considerato discriminazione diretta. Ella dunque portò la sua causa fino in Cassazione dove sostenne che la Corte d’Appello del Lavoro di Anversa avesse travisato la nozione di discriminazione diretta e indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 2000/78/CE.

La Corte di Cassazione Belga decise allora di sospendere il giudizio e di proporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente domanda stragiudiziale: “se l’Articolo debba essere interpretato nel senso che il divieto per una donna musulmana di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro non configuri una discriminazione diretta qualora la regola vigente presso il datore di lavoro vieti a tutti i dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni esteriori di  convinzioni politiche, filosofiche e religiose”.

Invece il secondo caso sottoposto alla Corte di Giustizia UE riguarda una donna francese di origine araba di fede mussulmana. Durante una fiera per studenti la donna venne contattata da una grande azienda, interessata alle sue qualità per una possibile assunzione. Essa venne fin da subito avvisata che il velo avrebbe potuto causare dei problemi in sede di lavoro con il pubblico. Dopo aver svolto un tirocinio presso la società, venne assunta in qualità di ingegnere progettista con un contratto a tempo indeterminato. L’azienda, dopo circa una anno di lavoro, la sanzionò con il licenziamento in quanto nelle sue mansioni a contatto con i clienti, nonostante gli iniziali avvertimenti, ella aveva continuato a indossare il velo, infastidendo vari clienti.

Ritenendo che il licenziamento fosse discriminatorio, l’attrice ha proposto ricorso davanti al giudice del lavoro di Parigi, il quale ha condannato l’azienda al pagamento di una indennità di preavviso per non aver specificato la gravità della colpa contestata e ha, invece, respinto il ricorso per gli altri motivi. Il giudice ha giustificato la restrizione di libertà della lavoratrice alla luce del contatto con i clienti e l’ha giudicata proporzionata all’idea di neutralità promossa dall’azienda.

L’attrice ha proposto poi appello alla Corte D’Appello di Parigi, che ha ribadito come il suo licenziamento non fosse dovuto ad una discriminazione in base alle sue convinzioni religiose, ma che era giustificato dall’interesse dell’impresa. Infine il caso è giunto alla Corte di Cassazione francese che ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte la seguente domanda pregiudiziale: “se le disposizioni di cui all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 debbano essere interpretate nel senso che, per la natura di una attività lavorativa o per il contesto in cui essa va espletata , il desiderio di un cliente di non essere servito da un soggetto che indossi il velo islamico, costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

 

Le questioni pregiudiziali

Per poter analizzare in modo esaustivo le questioni pregiudiziali proposte dalle corti di Cassazione Belga e Francese è necessario analizzare velocemente i primi articoli della direttiva 2000/78/CE.

La direttiva promulgata nel 2000 fornisce un quadro generale per quanto riguarda la lotta alla discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali (Articolo 1) nell’ambito del posto di lavoro e con il fine ultimo di rendere effettivo negli stati membri il principio della parità di trattamento.

La direttiva però non contiene nessuna definizione della nozione di religione e questo ha portato il legislatore europeo a fare riferimento, in primo luogo, alla CEDU. Essa infatti statuisce che ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e ciò include anche il diritto di manifestare la propria religione individualmente o collettivamente, in privato o in pubblico. In secondo luogo sono state anche considerate le tradizioni comuni costituzionali dei vari stati membri, considerate come principi generali dell’Unione europea e che hanno portato i legislatori a concepire la nozione di religione con una visione molto ampia. Infatti si include in tale nozione la libertà per le persone di manifestare la propria religione e si deve ritenere che la stessa definizione sia stata mantenuta anche nella suddetta direttiva.

Un altro fattore che deve essere analizzato è se dalla norma interna emerga una disparità di trattamento tra lavoratori a seconda della loro religione o delle loro convinzioni. Considerando i casi in questione si deve ritenere che la norme interne trattino in maniera identica tutti i  dipendenti senza creare situazioni di discriminazione diretta o indiretta come quelle evidenziate dalla direttiva.

In ogni caso poi, spetta agli Stati Membri stabilire se e cosa possa costituire una disparità di trattamento e la Corte ha anche più volte ribadito come l’articolo 4 della direttiva stabilisca che non è il motivo su cui è basata la disparità a costituire un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, ma una caratteristica che può ad esso essere legata. In particolare si sottolinea come è solo in casi strettamente limitati che una caratteristica collegata alla religione può costituire un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Spetterà al giudice nazionale effettuare una ultima analisi dei due casi, sulla scorta delle pronunce della Corte di Giustizia. La Corte europea è infatti competente a dare le sole interpretazioni che consentano poi al giudice nazionale di pronunciarsi concretamente sulla questione.

 

La decisione

A seguito dei motivi sopra elencati la Corte di Giustizia Europea ha dichiarato:

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva.”

L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dev’essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione.”

(Sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, grande sezione, sentenza 14 Marzo 2017, causa C157/15 e sentenza del 14 Marzo 2017, causa C188-15)