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Concessione - Cassazione Civile: negare l’istallazione di un chiosco sulla spiaggia può essere fonte di risarcimento del danno

Concessione - Cassazione Civile: negare l’istallazione di un  chiosco sulla spiaggia può essere fonte di risarcimento del danno
Concessione - Cassazione Civile: negare l’istallazione di un chiosco sulla spiaggia può essere fonte di risarcimento del danno

I giudizi di merito

Su richiesta del soggetto interessato, il Comune di Amalfi aveva emesso un provvedimento di diniego della concessione per l’installazione di un chiosco sulla spiaggia comunale. Ma il TAR della Campania ne dichiarava ben presto l’illegittimità.

Successivamente, il richiedente vedeva riconosciuto dal Tribunale di Salerno il suo diritto a ricevere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’illegittimo diniego della concessione per l’installazione del chiosco.

Tuttavia, la Corte d’appello salernitana ha poi ribaltato il deliberato di prima istanza adducendo l’assenza di qualsiasi indagine in ordine alla lamentata insussistenza di presupposti che aveva legittimato l’adozione del diniego, la mancanza di prova del nesso di causalità tra l’atto illegittimo ed il danno patito ed il fatto che la sua adozione non aveva prodotto alcuna lesione in capo al ricorrente dell’interesse alla concreta ed effettiva utilizzazione di un bene della vita.

 

Il ricorso in Cassazione

Gli eredi del dante causa impugnano la sentenza del giudice d’appello e ne chiedono la cassazione a motivo della erroneità della decisione di secondo grado per il modo in cui ha escluso la sussistenza del pregiudizio e di un vizio motivazionale del deliberato in ordine alla rilevata carenza di indagine sui presupposti di adottabilità del provvedimento e al conclamato difetto del nesso di causalità tra l’atto denegato ed il pregiudizio subito. I ricorrenti adducono che, dovendo detta indagine operarsi con accertamento ex ante, al momento dell’originaria istanza erano sussistenti tutti i presupposti per ritenere che la concessione sarebbe stata accordata, e lamentano che l’impossibilità di realizzare la struttura aveva impedito di conseguire i relativi proventi economici: conseguentemente, considerano il danno in re ipsa.

La tutela risarcitoria dell’interesse legittimo pretensivo

Presupposto della decisone è che l’accertamento della responsabilità della pubblica amministrazione in relazione alla pretesa lesione di un interesse legittimo pretensivo deve essere condotto dal giudice secondo uno schema procedurale che subordina lo svolgimento delle indagini successive messe a punto dalle Sezioni Unite nella sentenza 22 luglio 1999, n. 500:

1) titolarità in capo al danneggiato di una chance in termini di probabilità consistente di successo della pretesa azionata.

Acclarata questa circostanza, il giudice deve verificare, in ordine successivo:

2) l’illiceità della condotta della pubblica amministrazione;

3) che la condotta sia potenzialmente lesiva della situazione giuridica del privato;

4) che l’evento dannoso sia eziologicamente connesso alla condotta della pubblica amministrazione;

5) che nella condotta della pubblica amministrazione siano ravvisabili gli estremi della colpa.

Ai fini della risarcibilità, il pretendente deve innanzi tutto essere titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, ma di una situazione soggettiva capace di determinare un oggettivo affidamento sulla conclusione positiva del procedimento finalizzato all’emanazione di un provvedimento ampliativo: una situazione cioè che, secondo la disciplina applicabile, sia destinata ad un esito favorevole e risulti quindi giuridicamente protetta, sulla base di una valutazione da condurre secondo un criterio di normalità e tale da non comportare alcuna sostituzione nelle scelte discrezionali della pubblica amministrazione.

E per stabilire se la probabilità di soddisfazione dell’istanza di ampliamento della sfera giuridica del privato è tale da ricevere protezione risarcitoria da parte dell’ordinamento, occorre procedere ad un giudizio prognostico sulla fondatezza o meno della richiesta alla luce della normativa applicabile: si tratta di verificare se il privato avrebbe conseguito o quanto meno avrebbe avuto una concreta e ragionevole probabilità di conseguire (con conseguente cosiddetta perdita di chance) il bene della vita agognato, qualora l’amministrazione non avesse commesso l’errore che ha determinato l’illegittimità del diniego. Infatti, in presenza di una situazione pretensiva, il giudizio sulla spettanza del bene della vita si traduce in un giudizio prognostico sulla conclusione del procedimento in quanto il privato non è ancora titolare del bene ma aspira a conseguirlo dall’amministrazione per effetto dell’esercizio del potere.

Il giudizio prognostico è un giudizio causale di carattere probabilistico, per il quale non c’è quindi bisogno della certezza del risultato finale: vale la regola civilistica del “più probabile che non”, ossia di una probabilità comunque consistente ma non il criterio penalistico che impone di accertare il nesso eziologico tra la condotta e l’evento oltre ogni ragionevole dubbio. Soltanto la sussistenza di una seria probabilità di soddisfacimento della posizione di interesse elimina il rischio di una indebita ingerenza del giudice, tramite il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita, nella sfera riservata alla (discrezionalità della) amministrazione.

All’indagine in chiave prospettica sulla lesione del bene della vita sottostante all’interesse pretensivo e ad esso ricollegato deve seguire la prova fornita dal danneggiato della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi, di carattere oggettivo e soggettivo, della domanda di cui all’articolo 2043 c.c.

Quanto alla illiceità dell’attività provvedimentale, essa deve essere tale da incidere sul contenuto dell’atto, nel senso che sia dimostrabile che senza i vizi di cui è affetto il provvedimento sarebbe stato satisfattivo e che il privato avrebbe conseguito l’utilità sperata.

La configurazione del danno ingiusto avviene «in relazione alla consistenza della protezione che l’ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente».

Già a partire dalla sentenza 22 luglio 1999, n. 500, poi, la Suprema Corte ha negato che la colpa possa essere considerata in re ipsa per l’illegittimità dell’agere, occorrendo verificare che l’apparato amministrativo abbia complessivamente violato le regole di correttezza, imparzialità e buona amministrazione che si pongono come limiti esterni alla discrezionalità. Incombe all’amministrazione l’onere di allegare la circostanza da cui desumere la scusabilità dell’errore.

 

La decisione

Secondo la Cassazione, in applicazione dei citati criteri, il giudice dell’appello, anziché previamente chiedersi se, in base ad una valutazione prognostica da operarsi in base alle regole del tempo, il ricorrente avesse titolo o meno al conseguimento del provvedimento reclamato, per poi procedere nella ricostruzione della fattispecie secondo lo schema sopra detto, ha escluso  che il diniego della concessione abbia prodotto una lesione dell’interesse alla concreta ed effettiva utilizzazione di un bene della vita sulla base di un mero giudizio apodittico: ciò espone già di per sé la sua decisione ad una pronuncia cassatoria. Inoltre, l’indagine compiuta dal giudice di primo grado risulta conforme al quadro di riferimento, e non lacunosa, laddove affermava la sussistenza di tutti i presupposti favorevoli alla concessione.

Per questi motivi, la Suprema Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa alla Corte d’appello di Salerno.

(Corte di Cassazione - Prima Sezione civile, Sentenza 12 gennaio 2018, n. 651)