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Attenzione a criticare eccessivamente il proprio datore di lavoro

Licenziamento
Licenziamento

La Corte di Cassazione ha ritenuto lecito il licenziamento per giusta causa del lavoratore che critica in maniera eccessiva l’impresa datoriale o i suoi dirigenti, in quanto tale comportamento può ledere il vincolo fiduciario, a tal punto da impedirne la prosecuzione del rapporto di lavoro.

 

Il caso

Una società italiana licenziava cinque lavoratori in seguito ad una protesta, ritenuta eccessiva, contro le politiche dell’azienda. I dipendenti avevano inscenato il suicidio dell’amministratore delegato della società tramite impiccagione su un patibolo accerchiato da tute macchiate di rosso (per rappresentare il sangue) e il funerale dello stesso con contestuale affissione di un manifesto, come fosse un testamento, attribuendo all’amministratore le morti per suicidio di alcuni lavoratori e la deportazione di altri allo stabilimento della società.

Il licenziamento veniva dichiarato legittimo dal Tribunale di Nola, ma non dalla Corte di Appello di Napoli, che, successivamente, condannava la società alla reintegrazione dei lavoratori nel posto di lavoro, escludendo la sussistenza della giusta causa e, in particolare, la ricorrenza di un “grave nocumento morale o materiale a danno della società” richiesto dall’articolo 32, lettera b), del contratto collettivo specifico di lavoro, ritenendo che la suddetta rappresentazione scenica doveva essere inquadrata nell’esercizio del legittimo diritto di critica dei dipendenti, in quanto rispettosa dei limiti di continenza sostanziale e di contingenza formale.

Sul caso si è pronunciata la Cassazione in merito al ricorso della società, ribaltando la decisione della Corte d’Appello.

 

La decisione della Suprema Corte

La rappresentazione scenica, ha affermato la Cassazione, ha esorbitato dai limiti della continenza formale attribuendo all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli, esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima nonché derisione e irrisione e travalicando, dunque, il limite della tutela della persona umana richiesto dall’articolo 2 della Costituzione che impone, anche a fronte dell’esercizio del diritto di critica e di satira, l’adozione di forme espositive seppur incisive e ironiche ma pur sempre misurate tali da evitare di evocare pretese indegnità personali.

La critica manifestata dai lavoratori, ha proseguito la Suprema Corte, ha oltrepassato i limiti del rispetto della “democratica convivenza civile”, mediante offese gratuite, dirette a evocare uno scontro violento e sanguigno, fine a se stesso, senza alcun interesse ad un confronto con la controparte.

Inoltre, ha aggiunto la Cassazione: “l’esorbitanza dai limiti della correttezza della critica espressa dai lavoratori, è pure comportamento idoneo al ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, introducendo in azienda una conflittualità che trascende il regolare svolgimento e la fisiologica dialettica del rapporto di lavoro”.

Come già affermato da questa Corte con Sentenza n. 5523 del 2016, la stessa ha ribadito che l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza di tutela della persona umana. Il superamento di tali limiti, con l’attribuzione al datore di lavoro od ai suoi rappresentanti di riferimenti disonorevoli, volgari e infamanti da parte del lavoratore, può costituire giusta causa di licenziamento, pur in assenza di elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.

Pertanto, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata e compensato le spese dell’intero processo.

(Corte di Cassazione - Sezione Quarta Lavoro, Sentenza 6 giugno 2018, n. 14527)