x

x

Pubblicità - CEDU: manifesti, violazione della morale e libertà di espressione

Pubblicità - CEDU: manifesti, violazione della morale e libertà di espressione
Pubblicità - CEDU: manifesti, violazione della morale e libertà di espressione

In caso di presunta violazione della libertà di pensiero, di coscienza e di religione ad opera di manifesti pubblicitari, le autorità nazionali competenti devono verificare l’opportunità di adottare misure restrittive alla libertà di espressione dell’azienda pubblicitaria in questione conformemente ai canoni della legalità e della necessità delle misure stesse, allo scopo di evitare un’ingiustificata repressione della libertà di espressione.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stata investita della questione avente ad oggetto la presunta violazione del diritto alla libera espressione, garantito dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ad opera di una multa imposta da un’autorità nazionale Lituana.

 

Il fatto

Un’azienda pubblicitaria Lituana (“l’azienda”) aveva lanciato nel Settembre 2014 una nuova linea di abbigliamento. Per la pubblicità erano stati realizzati disegni di due giovani, un uomo dai capelli lunghi incorniciati da un’aureola, barba e tatuaggi con indosso un paio di jeans, accompagnato dalla scritta “Gesù, che pantaloni!”. La donna invece vestiva una tunica bianca, un copricapo pieno di fiori e, similmente al primo soggetto, un’aureola e la didascalia “Maria, che vestito!”.

A seguito di alcune segnalazioni di privati, che ritenevano la pubblicità anti-etica ed offensiva per le persone religiose, la SCRPA (Autorità Statale per la Protezione dei Diritti dei Consumatori) si era rivolta prima all’Agenzia per la Pubblicità Lituana (LAA, formata da esperti nel settore) e poi alla Conferenza Lituana Vescovile (LBC) domandando se le immagini in questione fossero effettivamente contrarie a quanto stabilito dalla Legge sulla Pubblicità. L’articolo 4 della stessa, al paragrafo 2 stabilisce che “la pubblicità deve essere eliminata se è contraria alla pubblica morale”.

Entrambe le autorità rispondevano affermativamente, confermando che quelli raffigurati fossero “riferimenti a personaggi ed oggetti di fede Cristiana,che incitavano ad uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa”. Dal momento che “offrivano un’immagine distorta e degradante” erano considerati “offensivi della sensibilità religiosa” e pertanto avrebbero dovuto essere censurati.

L’azienda si difendeva facendo notare che le immagini differivano in alcuni particolari dalle raffigurazioni dei soggetti religiosi così come rappresentati nell’arte classica e che, di conseguenza, una società cosmopolita ed acculturata non avrebbe equiparato le due. Per quanto riguarda le didascalie, l’azienda chiariva che le parole usate facevano riferimento alle tipiche esclamazioni gergali comuni nel linguaggio Lituano, volendo quindi essere un mero gioco di parole scevro da fini offensivi.

Nonostante ciò, la SCRPA multava l’azienda - che procedeva contestualmente all’eliminazione dei cartelloni pubblicitari - con un ammontare della sanzione di poco superiore al limite minimo previsto dalla legge. La decisione era giustificata con argomentazioni di questo tipo: “i cartelloni pubblicitari eccedono i limiti di quanto può essere tollerato”, “le raffigurazioni dei personaggi ha effettivamente offeso i sentimenti delle persone religiose, di cui sono prova le oltre cento lamentele ricevute dalla LBC” e “l’uso dei nomi di Gesù e Maria per scopi commerciali non è in linea con la pubblica morale”. Tuttavia, l’autorità definiva una minima sanzione in quanto l’azienda aveva collaborato con le altre associazioni coinvolte, si trattava del suo primo episodio di questo genere e i cartelloni erano stati esposti nella sola città di Vilnius (e non nel resto del Paese) per solo un paio di settimane.

 

Procedimenti amministrativi nazionali

L’azienda presentava alla Corte Amministrativa Regionale di Vilnius un ricorso contro la restrizione della SCRPA. In particolare, portava all’attenzione di questa le argomentazioni avanzate precedentemente in sede extra-giudiziale, aggiungendo che la Legge sulla Pubblicità non proibiva esplicitamente l’uso dei simboli religiosi di per sè, ma solo laddove questo avrebbe potuto causare offesa ai sentimenti altrui, elemento da escludersi nel caso di specie, ad avviso della ricorrente.

Inoltre, quest’ultima non riteneva giustificate le affermazioni della autorità sanzionante in quanto non chiarivano in che modo l’uso dei nomi religiosi per scopi commerciali non fosse in linea con la pubblica morale. Riteneva poi che il numero di cento non fosse sufficiente per provare che la maggior parte dei Lituani fossero stati offesi dalla pubblicità. Concludeva adducendo che la pubblicità è una forma di esercizio della libertà d’espressione, diritto garantito a livello Costituzionale. La Corte respingeva il ricorso ritenendo giusto l’apprezzamento delle circostanze da parte della SCRPA ed in quanto "il tipo di pubblicità usato dalla ricorrente era proibito perchè distorceva il principale significato dei simboli religiosi rispettati dalla comunità dei fedeli, vale a dire il riferimento ad una divinità".

La soccombente impugnava a questo punto la sentenza, avanzando le stesse argomentazioni ed allegando quattro diversi esempi di commercializzazione di prodotti per dimostrare che l’articolo 4 della Legge sulla Pubblicità impediva non l’uso di simboli religiosi ex se, bensì soltanto laddove questo risultasse offensivo.

La Corte Suprema Amministrativa, similmente a quanto avvenuto in primo grado, respingeva l’impugnazione argomentando: “le prove complessivamente portano a concludere che la pubblicità è contraria alla pubblica morale...in quanto il loro uso è inappropriato e quindi contrario a norme morali ed etiche universalmente accettate”. Aggiungeva che “le lamentele di un centinaio di fedeli circa l’insoddisfazione per la pubblicità in questione respinge gli argomenti della ricorrente, classificandoli quindi come infondati”.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

L’azienda, esauriti i ricorsi interni, si rivolgeva alla Corte EDU lamentando che la multa impostale violava la sua libertà d’espressione tutelata all’articolo10 della CEDU.

Il convenuto Governo Lituano non negava l’interferenza della multa con l’esercizio della libertà ma affermava che questa è avvenuta conformemente alla legge, come richiesto dal paragrafo 2 dell’articolo in questione. Avanzava poi la tesi che il concetto di “pubblica morale” è vasto e che, se da un lato sarebbe impensabile darne una compiuta definizione legislativa, dall’altro però questo può basarsi su visioni religiose, data l’importanza storica della Cristianità in Lituania (si pensi al ruolo della comunità religiosa durante la guerra). Tale restrizione è legata poi ad un duplice obiettivo: proteggere la morale (originante dalla fede Cristiana e seguita da numerosi nazionali) e i diritti di altri soggetti (segnatamente, quello dei fedeli a non essere insultati per via del loro credo).

La ricorrente si difendeva negando la necessità della misura, ribadendo che la pubblicità non intendeva essere profana ma solo suscitare ilarità. Anzi, nè le corti nè il convenuto governo avevano specificato in che modo questa avesse offeso i credenti.

Su questo aspetto la Corte ha accolto gli argomenti dell’azienda: se è vero che, da un lato, la pubblicità non appariva prima facie offensiva, dall’altro però - chiarisce - le Corti Nazionali avrebbero dovuto specificare con rilevanti e sufficienti ragioni” perché questa fosse comunque contraria alla pubblica morale.

Vi è poi un ulteriore punto presentato dall’azienda su cui la Corte si dichiara favorevole: l’identificazione dei soggetti offesi. Infatti, mentre le precedenti decisioni hanno sempre fatto riferimento all’offesa a ≪persone religiose≫, la Quarta Sezione ha rilevato che in realtà un solo gruppo è stato consultato (i Cristiano-Cattolici).

La Costituzione Lituana, tuttavia, esclude espressamente l’esistenza di una religione statale e, di conseguenza, il gruppo considerato non può essere visto come l’unico rappresentante della fede in Lituania. Di conseguenza, la pubblica morale non coincide unicamente con i canoni del Cattolicesimo. Inoltre, cento lamentele non possono essere considerate sufficienti per assumere che ogni fedele sia stato offeso dalla pubblicità.

Pertanto, la Corte Europea è giunta a stabilire che le autorità nazionali hanno commesso con la loro decisione una violazione dell’articolo 10, CEDU nei confronti del ricorrente nella misura in cui non hanno operato un corretto bilanciamento tra la protezione della pubblica morale e i diritti delle persone religiose, da un lato, ed il diritto alla libertà d’espressione dall’altro.

(Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - Quarta Sezione, Giudizio 30 Gennaio 2018, n 69317/14)