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Reclutamento e favoreggiamento della prostituzione volontariamente esercitata: per la Consulta il reato è immune da censura

Prostituzione
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Indice:

1. La questione  sottoposta dalla Corte d’Appello sulla prostituzione volontaria

2. L’evoluzione della disciplina, la regolamentazione della prostituzione

3. Le valutazioni sulla prostituzione del giudice rimettente

4. La soluzione della Corte Costituzionale

 

Abstract

La Corte Costituzionale ha ritenuto non incostituzionale il reato di favoreggiamento e reclutamento della prostituzione anche se volontariamente posta in essere. Ciò violerebbe il principio della dignità della persona che, seppur esercitante il meretricio liberamente, subirebbe un pregiudizio in contrasto con i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione.

Altresì, sempre secondo la Corte, non si potrebbe neppure parlare di libera iniziativa economica, non trovando sempre per le medesime ragioni, la tutela di cui all’articolo 41 Costituzione.

 

1. La questione  sottoposta dalla Corte d’Appello sulla prostituzione volontaria

La Corte d’Appello di Bari sollevava dubbio di legittimità costituzionale dell’articolo 3 della Legge n.75/1958 nella parte in cui si prevede quale illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata, in violazione degli articoli 2, 3, 13, 25 comma 2°, 27, 41 della Costituzione.

 

2. L’evoluzione della disciplina, la regolamentazione della prostituzione

La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi, ripercorre l’evoluzione storico-legislativa (ed anche sociale) del fenomeno del meretricio in Italia.

Prima del 1958, nel nostro Paese la prostituzione, seppur considerata un fenomeno contrario al buon costume, veniva regolamentata dal Regio decreto n.773/1931, sulla scia del pensiero francese (che coniò il termine “case di tolleranza”), ritenendo che governare questo fenomeno sarebbe stato il “male necessario”.

Era quindi presente un regolamento finalizzato alla concessione del permesso, che doveva avvenire in appositi luoghi “ghettizzati” di meretricio, con controlli anche di natura sanitaria.

In questo contesto, il Codice Rocco prevedeva fattispecie delittuose in ordine al meretricio solamente in determinate ipotesi. Era questo il caso di istigazione e favoreggiamento ai danni di soggetti passivi minorenni o affetti da deficienza psichica, oltre ovviamente ai casi di costrizione.

Curiosamente, era punito dall’articolo 534 Codice Penale “chiunque si fa mantenere, anche in parte, da una donna, sfruttando i guadagni che essa ricava dalla sua prostituzione, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione da due a sei anni e con la multa da lire mille a diecimila”. Ciò significa che, nonostante la prostituzione fosse attività lecita e regolamentata alla stregua di altre, essa non poteva costituire il mezzo di sostentamento per terzi.

Come noto, tutto ciò cambiò con la legge n. 75/1958 (c.d. legge Merlin), portatrice del principio che gli storici chiamano “abolizionismo”. Secondo la scelta del legislatore, il meretricio sarebbe lesiva della dignità delle persone che la esercitano, anche se liberamente. Pertanto lo Stato deve combattere il meretricio estinguendolo. Ma in che modalità?

Nella ricostruzione della Corte, che come detto ripercorre lo sviluppo legislativo anche con alla mano i lavori preparatori della legge del 1958, si legge che “A questo risultato non si dovrebbe giungere, però, punendo la persona dedita alla prostituzione, perché in tal modo si finirebbe per colpire due volte quelle che sono in realtà vittime del sistema sociale; e neppure punendo il cliente, perché così si scaricherebbe sul semplice fruitore della prestazione una responsabilità della quale dovrebbe farsi carico lo Stato. L’obiettivo dovrebbe essere conseguito invece, da un lato, rimovendo le cause sociali della prostituzione; dall’altro, reprimendo severamente le attività ad essa collegate – quali l’induzione, il lenocinio, lo sfruttamento o anche il semplice favoreggiamento (le “condotte parallele”) – così da non consentire alla prostituzione di svilupparsi e di proliferare”.

La prostituta quindi è persona offesa di un sistema in cui l’aggressore è il sistema medesimo.

E quindi la legge del 1958 nasce proprio per combattere il fenomeno. Anzi, analizzando con attenzione le parole usate dal legislatore, già dal titolo possiamo trarre delle considerazioni: “Abolizione della regolamentazione della prostituzione”.

In altri termini, lo Stato cessa di tollerare (e regolamentare) la presenza del meretricio.

Scrive la Corte nella sua ricostruzione che “Nella medesima relazione, la nuova normativa viene presentata come un provvedimento che mira «non a sopprimere la prostituzione ma soltanto a sopprimere la regolamentazione della prostituzione», impedendo «che nello Stato possa esistere una prostituzione autorizzata e regolamentata» e che «ci siano degli esseri umani che vivano sfruttando legalmente il vizio e la miseria»”.

Quindi, in applicazione a quanto scritto dal legislatore del 1958, sarà punito non il fruitore della prestazione (e men che meno chi concede la prestazione) quanto invece le c.d. condotte parallele, con la speranza di fare “terra bruciata” attorno all’attività.

Sarà pertanto illecito penale lo sfruttamento, il reclutamento, ed il favoreggiamento della prostituzione, anche se libera e volontaria.

 

3. Le valutazioni sulla prostituzione del giudice rimettente

Secondo la Corte d’Appello di Bari, gli sviluppi soprattutto in ambito comunitario (anche se si registrano astratte aperture nella nostra giurisprudenza), devono muovere riflessioni sulla permanenza nel nostro ordinamento delle fattispecie criminose di cui sopra.

Viene riportato il Policing and Crime Act del 2009, che punisce solamente il fruitore di servizi sessuali da persona vittima di prostituzione forzata, ed anche la direttiva europea n. 2011/36/UE, che invita gli Stati a sanzionare l’utilizzatore dei servizi in caso di tratta di esseri umani.

In simile contesto, la Corte d’Appello, anche ritenendo che l’evoluzione sociale, politica, ed etica sia notevolmente cambiata, ed anche nella consapevolezza che l’abolizionismo sia stato un fenomeno storico del tutto fallimentare, spiega che “la scelta di prostituirsi, ove libera e volontaria, rappresenterebbe, in effetti, una modalità di espressione della «libertà di autodeterminazione sessuale», qualificabile come diritto inviolabile della persona umana garantito dall’articolo 2 Costituzione.

Da ciò l’asserita necessità costituzionale di rimuovere ogni ostacolo alla piena realizzazione della scelta stessa: ostacolo che verrebbe, per converso, frapposto da disposizioni quali quelle censurate, che reprimono condotte di terzi intese a promuovere e ad agevolare l’attività della prostituta, in accordo con i suoi stessi desiderata”.

 

4. La soluzione della Corte Costituzionale

Diametralmente opposta è la conclusione a cui giunge la Consulta con la Sentenza n. 141, 06.03.2019 - 07.06.2019, che dichiara infondata la questione.

In primis, è vero che tra i diritti inviolabili della persona di cui all’articolo 2 della Costituzione vi è anche la libertà sessuale, tuttavia secondo la Corte “l’offerta di prestazioni sessuali verso corrispettivo non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma costituisce – molto più semplicemente – una particolare forma di attività economica”.

E allora, il meretricio è libertà economica tutelata dall’articolo 41 della Costituzione?

Va subito detto che dalla lettura dei lavori preparatori, il legislatore (e ciò viene ricordato nella sentenza in commento) non escludeva il meretricio dall’ambito della libera iniziativa economica. Molto più semplicemente, si decise di mettere fine al coinvolgimento dello Stato nell’industria della prostituzione.

Ma ancora non si capisce come possano essere illecite le c.d. condotte parallele che abbiamo visto prima. La Corte offre questa soluzione:

“In base all’articolo 41, secondo comma, Costituzione la libertà di iniziativa economica è tutelata a condizione che non comprometta altri valori che la Costituzione considera preminenti: essa non può, infatti, svolgersi «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»”.

Quindi il meretricio è sì una attività economica, ma non meritevole di tutela per le ragioni che abbiamo visto.

E ancora: la Consulta evidenzia che il mercato del meretricio non può trovare ragioni di tutela nell’articolo 41 della Costituzione perché privo della dignità indicata al secondo comma. Viene spiegato che “il concetto di «dignità» vada inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della “dignità soggettiva”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore. È, dunque, il legislatore che – facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente”.

Vi è un altro aspetto che la Corte affronta, e cioè il confine tra prostituzione “volontaria e libera” e coatta,  distinguibile, secondo i Giudici Costituzionali, solo nella teoria. È invece labile nella pratica, poiché spesso spinta da situazioni di disagio economiche e sociali.

Infine, la sentenza in commento evidenzia ciò che va inteso come bene giuridico protetto dalla Legge Merlin.

All’epoca della sua entrata in vigore, si riteneva che la riforma fosse a difesa del buon costume e della morale pubblica.

Ciò non ha subìto negli anni a venire differenti reinterpretazioni, sino al 2004. Come la Corte evidenzia, la Cassazione operò una “revisione” sull’indirizzo assunto, ritenendo che il bene giuridico della legge del 1958 fosse la salvaguardia della dignità e della libertà di determinazione della persona che si prostituisce.

Successivamente, si registra un ulteriore e diverso orientamento, che vede come bene giuridico protetto la dignità della persona “esplicata attraverso lo svolgimento dell’attività sessuale, che non potrebbe costituire materia di contrattazioni”.