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Le novità del d.lgs. 53/2010 in tema di accordo bonario e di arbitrato: prime riflessioni

[Il presente lavoro è il frutto di un’elaborazione dell’intervento tenuto il 7 maggio 2010, unitamente al Prof. Avv. Luciano Maria Delfino, nel Corso di perfezionamento organizzato dall’Università degli studi di Bari, dalla Facoltà di giurisprudenza sede di Taranto, dalla Sezione Puglia de la Cour Européene d’Arbitrage de Strasbourg, dal CEDICLO, dalla Scuola Forense dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, dalla Provincia di Taranto e dal Comune di Taranto sul macrotema Dignità dell’uomo: migrazione, mediazione, arbitrati]

1. Premessa.

In esecuzione dell’art. 44 della l. 88/2009, recante la delega per l’attuazione della direttiva 2007/66/CE finalizzata al miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, il Governo ha emanato il d.lgs. 53/2010.

Fra i tanti istituti della contrattualistica pubblica fortemente incisi dal legislatore delegato, particolare rilievo assumono le novità in tema di accordo bonario e di arbitrato. Ciò vale in special modo per l’arbitrato che, quasi in osmosi con il periodo pasquale in cui è stato emanato il d.lgs. 53/2010, è definitivamente “risorto” dalle ceneri del relativo divieto introdotto, senza mai entrare in vigore, dall’art. 3, comma 13, della l. 244/2007 (legge finanziaria per il 2008)[1].

Qui di seguito si procederà ad una breve analisi delle novità in tema di accordo bonario e arbitrato recate dagli articoli 4 e 5 della l d.lgs. 53/10[2], analisi che prenderà le mosse dai principi e criteri specifici indicati nella legge delega (art. 44, comma 3, lett. m, della l. 88/2009), che, qui di seguito, si riportano:

«… I decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati nel rispetto dei principi e criteri direttivi generali di cui all’articolo 2, nonché dei seguenti principi e criteri direttivi specifici:

m) dettare disposizioni razionalizzatrici dell’arbitrato, secondo i seguenti criteri:

1) incentivare l’accordo bonario;

2) prevedere l’arbitrato come ordinario rimedio alternativo al giudizio civile;

3) prevedere che le stazioni appaltanti indichino fin dal bando o avviso di indizione della gara se il contratto conterrà o meno la clausola arbitrale, proibendo contestualmente il ricorso al negozio compromissorio successivamente alla stipula del contratto;

4) contenere i costi del giudizio arbitrale;

5) prevedere misure acceleratorie del giudizio di impugnazione del lodo arbitrale.».

2. Le novità in tema di accordo bonario.

In tema di accordo bonario, disciplinato dall’art. 240 del d.lgs. 163/2006, il legislatore delegante aveva affidato al Governo il compito di dettare disposizioni finalizzate ad incentivare il ricorso a tale procedura precontenziosa di risoluzione delle liti di natura economica sorte durante l’esecuzione di un appalto di lavori pubblici[3].

Non sembra che l’obiettivo sia stato sortito.

Le novità in tema di accordo bonario sono soltanto quattro.

In primo luogo, si prevede un diverso dies a quo del termine di novanta giorni per la formulazione, da parte della Commissione, della proposta motivata di accordo bonario: mentre nella versione precedente il termine decorreva dalla «apposizione dell’ultima delle riserve», la vigente versione àncora la decorrenza del termine in questione alla «costituzione della commissione» (art. 240, c. 5, d.lgs. 163/06).

Si tratta di modifica certamente opportuna, atteso che la previgente formulazione legislativa ancorava la decorrenza del termine ad un fatto (apposizione dell’ultima delle riserve) precedente alla stessa costituzione della Commissione che, pertanto, avviava i propri lavori già “in ritardo”, dato che il termine assegnatole per la formulazione della proposta di accordo bonario era in pieno decorso al momento della sua stessa costituzione.

In secondo luogo, nell’art. 240 del c.d. Codice De Lise, viene aggiunto il comma 9-bis attraverso cui il legislatore delegato individua le categorie tra cui, inderogabilmente, deve essere individuato il terzo componente con funzioni di presidente della commissione.

Alla luce dell’intervento novellatore, quest’ultimo - tanto nel caso in cui sia nominato di comune accordo, quanto nell’ipotesi in cui sia nomina del presidente del tribunale competente -, deve appartenere ad una delle seguenti categorie:

- magistrati amministrativi o contabili;

- avvocati dello Stato;

- componenti del Consiglio superiore dei lavori pubblici;

- dirigenti di prima fascia delle pubbliche amministrazioni, che abbiano svolto le funzioni dirigenziali per almeno cinque anni;

- avvocati e tecnici in possesso del diploma di laurea in ingegneria ed architettura, iscritti ai rispettivi ordini professionali in possesso dei requisiti richiesti dall’art. 241, comma 5, per la nomina a presidente del collegio arbitrale.

Come attentamente osservato[4], la norma suscita non poche perplessità con riferimento ai seguenti aspetti:

- natura di alcune categorie: è irragionevole ammettere che facciano parte della Commissione magistrati amministrativi e contabili, attesa la natura e la funzione della Commissione;

- disomogeneità delle categorie: genericità del riferimento al titolo di laurea in architettura ed ingegneria, senza tener conto della durata e del contenuto qualitativo del corso di studi; mancanza della previsione di un termine minimo di iscrizione ai rispettivi albi professionali.

Relativamente a quest’ultimo profilo, il legislatore pare operare una sorta di “compensazione” esigendo solo per gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti- e non anche per altre categorie -, che gli stessi siano muniti di precipui requisiti di indipendenza e, comunque, non abbiano esercitato, nell’ultimo triennio, funzioni di arbitro di parte o, limitatamente agli avvocati, di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dall’art. 241 del d.lgs. 163/2006, così come previsto dal comma 5 dello stesso art. 241.

In ogni caso, l’indulgenza legislativa in ordine alla mancata previsione di un termine minimo di iscrizione ai rispettivi albi professionali sembra pienamente giustificabile alla luce della drastica riduzione dei compensi spettanti ai membri della commissione che, come si vedrà in seguito, viene operata dal nuovo comma 10 dell’art. 240 del d.lgs. 163/2006.

E’ evidente, infatti, che ove la scarsa appetibilità economica della nomina a membro di commissione fosse stata accompagnata da una eccessiva rigidità nei requisiti di anzianità di iscrizione ai rispettivi albi professionali, si sarebbe corso il rischio di circoscrivere, eccessivamente, la pletora dei soggetti da cui individuare il terzo componente della commissione, finendo, così, per compromettere la stessa operatività dell’istituto dell’accordo bonario.

Il comma 9-bis dell’art. 240 del c.d. Codice degli appalti pubblici, nella parte in cui esige che gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti siano in possesso dei requisiti richiesti dall’art. 241, comma 5, per la nomina a presidente del collegio arbitrale, dà vita a quest’ulteriore incongruenza.

In ragione della tecnica legislativa del richiamo normativo utilizzata nella stesura della disposizione sottoposta a scrutinio, la norma che da essa se ne trae è, come visto, quella in virtù della quale gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti per poter essere nominati presidente di commissione, oltre al possesso di precipui requisiti di indipendenza, non devono aver esercitato, nell’ultimo triennio, funzioni di arbitro di parte.

La previsione, dunque, introduce un’incompatibilità fra funzione di arbitrato, nell’ultimo triennio, e funzione di terzo componente della commissione per la formulazione della proposta di accordo bonario.

Tuttavia, sarebbe stato più coerente, al pari di quello che accade in tema di arbitrato alla luce del novellato comma 5 dell’art. 241 d.lgs. 163/06, prevedere un’incompatibilità nell’ambito della medesima funzione di terzo componente di commissione ex art. 240, essendo evidente che la previsione, così come scritta, consente ad un professionista appartenente ad una delle categorie in questione di svolgere continuativamente la funzione di presidente di commissione, senza alcun limite al numero di nomine di tal sorta ricevibili.

Si rischia, pertanto, di creare avvocati, ingegneri ed architetti che “professionalmente” svolgono il ruolo di terzo componente della commissione ex art. 240 d.lgs. 163/06, e ciò in spregio a quei requisiti di terzietà ed indipendenza che, comunque, dovrebbero caratterizzare lo svolgimento di una procedura che, sebbene non giurisdizionale, è, comunque, precontenziosa.

Senza considerare, infine, che l’incompatibilità fra funzione di arbitro, nell’ultimo triennio, e funzione di terzo componente della commissione riguarda, solo ed esclusivamente, gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti, non estendendosi alle altre categorie contemplate dal comma 9-bis per le quali il paventato rischio di “professionalizzazione” nel ruolo di terzo componente della commissione appare, pertanto, ancora più grave ed attuale.

Passando, ora, alla terza novità introdotta dal d.lgs. 53/2010 in tema di accordo bonario, occorre richiamare il nuovo comma 10 dell’art. 240 del d.lgs. 163/06 che, come anticipato, introduce una forte riduzione dei compensi spettanti a ciascun membro delle commissioni, prevedendo che gli stessi non possano superare la misura massima di un terzo dei corrispettivi minimi previsti dalla tariffa allegata al D.M. 398/2000, oltre al rimborso delle spese documentate.

La limitazione al quantum dei compensi spettanti è, davvero, incisiva ove solo si consideri che già la precedente versione del comma 10 prevedeva, comunque, il limite massimo della metà dei medesimi corrispettivi minimi contemplati dal D.M. 398/2000.

Come innanzi detto, è evidente come una riduzione così eccessiva dei compensi per i componenti della commissione ex art. 240 d.lgs. 163/2006 possa determinare se non proprio una “fuga” dalle relative nomine, quanto meno un ridotto “fascino” delle stesse.

Non va sottaciuto, infine, che tale ulteriore limitazione dei compensi in questione non trova “copertura” nella legge delega che dettava il criterio del contenimento dei costi solo ed esclusivamente con riguardo al giudizio arbitrale, e non anche per l’accordo bonario.

Viene riscritto, infine, l’intero comma 16 dell’art. 240 del d.lgs. 163/2006.

Si completano le ipotesi in cui, nonostante l’avvio della procedura precontenziosa di accordo bonario, è possibile esercitare il diritto di azione.

La previgente formulazione si limitava a contemplare i casi di inutile decorso dei termini di cui ai commi 12 e 13, ammettendo, in tali ipotesi, il solo arbitrato.

La nuova versione del comma 16, accanto ai casi suddetti, indica anche l’ipotesi del fallimento del tentativo di accordo bonario.

Si specifica che, oltre all’arbitrato, è possibile adire il giudice ordinario. In assenza di tale espressa previsione, invero, si sarebbe potuto sostenere che l’appaltatore, per poter adire il giudice ordinario, avrebbe dovuto attendere la conclusione del collaudo, fra le cui finalità, come noto, vi è anche quella della liquidazione del corrispettivo all’appaltatore: è proprio in tale sede che si deve procedere all’esame delle riserve dell’appaltatore sulle quali non sia già intervenuta una risoluzione definitiva in via amministrativa[5].

Tuttavia, in considerazione della dubbia costituzionalità di tale opzione esegetica, già durante la vigenza dell’originario comma 16 dell’art. 240, non si dubitava del fatto che, una volta spirati i termini per la formulazione della proposta di accordo bonario, l’appaltatore ben avrebbe potuto adire, oltre al collegio arbitrale, anche il giudice ordinario[6].

2.1. Conclusioni.

Come già detto, ad avviso di chi scrive non sembra che il legislatore delegato abbia dato attuazione alla delega che gli imponeva, in tema di accordo bonario, un unico, chiaro obiettivo: incentivare il ricorso a tale procedura di definizione precontenziosa delle controversie in materia di diritti soggettivi sorte in sede di esecuzione di un appalto di lavori.

Al più solo la modifica con cui si è razionalizzata la decorrenza del termine assegnato alla commissione per la formulazione della proposta di accordo bonario mira a sortire lo scopo individuato nella delega, scopo che, al contrario, risulta “tradito” dalle altre modifiche introdotte dall’intervento novellatore.

Peraltro, l’incentivazione dell’accordo bonario può essere realizzata solo attraverso una generalizzazione dell’obbligo di costituzione di un’apposita commissione per la formulazione di una proposta di accordo bonario, costituzione che, anche oggi, rimane obbligatoria solo per gli appalti di valore superiore ai dieci milioni di euro, e facoltativa per quelli di valore inferiore.

Infatti, se è pur vero che per questi ultimi appalti, qualora non venga esercitata la facoltà di nomina della commissione, la proposta di accordo bonario è, comunque, formulata dal responsabile del procedimento (comma 15), è altrettanto vero che tale proposta, già da un punta di vista “genetico” – in quanto formulata dalla stessa stazione appaltante e, dunque, dalla stessa “controparte” -, risulta meno persuasiva di quella promanante da una apposita commissione che, pur non rivestendo natura giurisdizionale, è, comunque, dotata di un grado di indipendenza e di imparzialità certamente maggiore rispetto a quello del responsabile del procedimento[7].

3. Le novità in tema di arbitrato.

Il fallimento della procedura di accordo bonario consente il deferimento ad arbitri della relativa lite, rientrando quest’ultima, espressamente, fra le controversie su diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione di contratti pubblici che, ai sensi dell’art. 241, comma 1, del d.lgs. 163/2006, possono essere deferite in arbitrato.

In tema di arbitrato, il principale criterio dettato dalla legge delega è costituito dalla necessità di prevedere l’arbitrato come ordinario rimedio alternativo al giudizio civile (art. 44, c. 3, lett. m, n. 2, l. 88/2009).

Pertanto, ed è questa la novità più importante, viene superato il divieto di arbitrato per le pubbliche amministrazioni, introdotto con l’art. 3, comma 13, della legge finanziaria 2008, divieto, tuttavia, mai entrato in vigore.

La “risurrezione” dell’arbitrato negli appalti pubblici avviene attraverso l’introduzione, nell’art. 241 del d.lgs. 163/06, del comma 1-bis.

3.1. Clausola compromissoria e contratto d’appalto.

In virtù del citato comma 1-bis, fermo restando il divieto di compromesso, spetta alla stazione appaltante indicare nell’atto indittivo della gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà, o meno, la clausola compromissoria, salva la facoltà per l’aggiudicatario - da esercitare nel termine di venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione -, di ricusare la stessa clausola compromissoria, con conseguente suo mancato inserimento nel contratto.

In ordine ai “meccanismi” di introduzione della clausola compromissoria nel contratto di appalto, il legislatore delegato non prevede un divieto assoluto di compromesso, limitandosi a proibire che il ricorso al negozio compromissorio possa intervenire successivamente alla stipula del contratto (art. 44, c. 3, lett. m, n. 3, l. 88/2009).

Non solo. La legge delega non fa alcun cenno alla facoltà di ricusazione della clausola compromissoria da parte dell’aggiudicatario, esigendo, esclusivamente, che il bando o l’avviso di indizione della gara indichino, da subito, se il contratto conterrà o meno la clausola arbitrale.

Al contrario, secondo la disciplina dettata dal novellato art. 241 del d.lgs. 163/2006, la possibilità che una controversia su diritti soggettivi, derivante dall’esecuzione dei contratti pubblici, possa essere deferita ad arbitri soggiace alla ricorrenza di una duplice condizione: da un lato, è indispensabile che la stazione appaltante indichi nell’atto che dà avvio al confronto concorrenziale se il contratto recherà, o meno, la clausola compromissoria; dall’altro, è necessario che l’aggiudicatario non ricusi la clausola stessa.

A ciò si aggiunga che, stante il chiaro tenore letterale della previsione, l’esercizio delle facoltà di cui godono la stazione appaltante e l’aggiudicatario viene rimesso alla loro esclusiva volontà di scelta, con la conseguenza che lo stesso non appare in alcun modo sindacabile.

La disposizione in rassegna è, poi, foriera di diverse questioni ermeneutiche.

In primo luogo, il legislatore della novella si limita a richiamare la nozione di aggiudicatario senza specificare se abbia inteso riferirsi all’aggiudicatario provvisorio ovvero a quello definitivo.

Ad avviso di chi scrive, è preferibile ritenere che l’aggiudicatario indicato dal comma 1-bis dell’art. 241 del c.d. codice De Lise, sia quello definitivo[8].

In tal senso militano le seguenti ragioni.

La ricusazione della clausola compromissoria fa sì che questa non sia inserita nel contratto e non già che la stessa venga espunta dagli atti con cui la stazione appaltante avvia il confronto concorrenziale.

Dunque, l’esercizio della facoltà di ricusazione produce i suoi effetti esclusivamente nella fase immediatamente precedente alla stipulazione del contratto che, ai sensi dell’art. 11, comma 9, del d.lgs. 163/06, può aver luogo soltanto una volta divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva e, dunque, soltanto una volta individuato l’aggiudicatario definitivo.

Inoltre, a favore della soluzione esegetica qui accolta, si pone la stessa ratio garantista della par condicio dei concorrenti che sembra essere a fondamento della scelta legislativa di “ritardare” il più possibile l’esercizio della facoltà di ricusazione. Ed invero, se quest’ultimo fosse stato anticipato al momento della presentazione dell’offerta ovvero a fasi precedenti l’aggiudicazione definitiva, il concorrente, a causa di un uso distorto del potere di valutazione della propria offerta, proprio in tale occasione, avrebbe potuto subire le conseguenze negative di tale scelta contraria alla volontà della stazione appaltante.

Ebbene, anche l’aggiudicatario provvisorio si trova in una situazione di “precarietà” atteso che l’aggiudicazione provvisoria è soggetta ad approvazione ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.lgs. 163/2006, fase, questa, in cui, sia pur attraverso un improprio esercizio del potere di approvazione, avrebbe potuto patire delle conseguenze negative discendenti dalla ricusazione della clausola compromissoria.

V’è da dire, in ogni caso, che la procedura di ricusazione tracciata dalla disposizione in esame, se effettivamente volta ad assicurare la non condizionabilità della scelta di ricusare la clausola compromissoria, non appare pienamente garantista nemmeno nei riguardi dell’aggiudicatario definitivo.

Il comma 1-bis dell’art. 241 del d.lgs. 163/06 fa decorrere il termine entro il quale l’aggiudicatario (definitivo) deve ricusare la clausola compromissoria dalla conoscenza dell’aggiudicazione.

Sennonché, ai sensi del comma 8 dell’art. 11 del c.d. Codice dei contratti pubblici, l’aggiudicazione definitiva diventa efficace soltanto dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti, fase questa in cui ben potrebbe verificarsi quella sorta di “risentimento” della stazione appaltante per aver l’aggiudicatario definitivo “contestato” la propria scelta di deferire ad arbitri le liti derivanti dall’esecuzione dello stipulando contratto d’appalto.

Dunque, se il legislatore avesse inteso garantire, “fino in fondo”, la piena libertà di esercizio del potere di ricusazione della clausola compromissoria, avrebbe dovuto ancorare la decorrenza del relativo termine non già alla conoscenza dell’aggiudicazione, bensì alla sua intervenuta efficacia, conseguente alla positiva verifica del possesso dei prescritti requisiti.

V’è da chiedersi, poi, cosa accada qualora il provvedimento di aggiudicazione definitiva sia annullato (giurisdizionalmente o in autotutela) una volta che l’originario aggiudicatario (definitivo) abbia già ricusato la clausola compromissoria.

Il nuovo aggiudicatario definitivo potrà avvalersi della procedura arbitrale?

La risposta positiva al quesito appare obbligata ove solo si ponga mente a quanto innanzi detto in ordine agli effetti della ricusazione della clausola compromissoria che, come visto, si limitano ad impedire che la stessa (clausola) sia inserita nel contratto, senza determinarne l’espunzione dagli atti della procedura di individuazione del contraente[9].

Peraltro, che ogni aggiudicatario/contraente debba poter esercitare l’opzione arbitrale risulta conforme ad una lettura costituzionalmente orientata della norma sottoposta a scrutinio dato che, in caso contrario, patente ne apparirebbe l’irragionevolezza.

Le conclusioni a cui si è appena pervenuti valgono, ovviamente, anche nell’ipotesi contraria, e cioè nel caso in cui l’originario aggiudicatario non abbia ricusato la clausola: al “nuovo” aggiudicatario va consentita la possibilità di ricusazione.

La disposizione introdotta con il comma 1-bis dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006 pone, poi, i seguenti ulteriori dubbi esegetici.

L’indicazione della clausola compromissoria va fatta nel bando o nell’avviso di indizione della gara, ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito.

La disposizione - nella parte in cui esige che anche l’invito, e non solo il bando o l’avviso di indizione della gara, debba indicare se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria -, appare sfornita di “copertura” legislativa atteso che la legge delega si limita a richiamare il bando o l’avviso con cui la stazione appaltante indice la gara, senza far alcun riferimento all’invito.

La previsione, inoltre, è dimentica del fatto che il comma 6 dell’art. 57, in tema di procedura negoziata senza bando, dispone, soltanto, un tendenziale confronto concorrenziale ai fini dell’aggiudicazione dell’appalto (“ove possibile”), con ciò ammettendo che ci possa essere una legittima ipotesi di procedura negoziata anche senza invito. Ciò vale, in particolare, nel caso di procedura negoziata senza bando nei casi di urgenza qualificata (art. 57, comma 2, lett. c, d.lgs. 163/06).

La norma, poi, omette di considerare le ipotesi di affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento consentito per i lavori di importo inferiore ai quarantamila euro e per i servizi e le forniture inferiori a ventimila euro (art. 125, commi 8 e 11, d.lgs. 163/06).

Invero, anche in tali casi il contraente viene individuato in assenza di invito.

Ebbene, in tutte queste ipotesi, le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei relativi contratti d’appalto, possono essere deferite ad arbitri?

A favore di una risposta positiva al quesito depone, in primo luogo, il tenore letterale del primo comma dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006 che ammette la possibilità dell’arbitrato per tutte le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, senza introdurre alcuna distinzione o limitazione discendente dalla procedura seguita per l’individuazione del contraente.

Inoltre, ove alla domanda si rispondesse negativamente, nelle specifiche ipotesi sopra menzionate si determinerebbe la riviviscenza del divieto di arbitrato che la normativa in rassegna ha inteso superare.

A ciò si aggiunga che la legge delega si limita ad imporre il “preavviso” di clausola arbitrale soltanto nelle procedure di individuazione del contraente che muovono dalla pubblicazione di un bando o di un avviso di indizione della gara, senza circoscrivere soltanto a tali ipotesi la possibilità di deferire ad arbitri le controversie su diritti soggettivi nascenti dall’esecuzione di un pubblico appalto, possibilità che, secondo il primo criterio dettato dalla legge delega in tema di arbitrato, deve rappresentare l’ordinario rimedio alternativo al giudizio civile.

Dunque, l’arbitrato va ammesso anche nei casi innanzi ripercorsi, pur nella consapevolezza che non potrà trovare applicazione la disciplina procedimentale tracciata dal comma 1-bis dell’art. 241 d.lgs. 163/06, se non a seguito di improbabili radicali adattamenti della scansione procedimentale ivi tracciata.

Non sembra, in ogni caso, che tali adattamenti possano portare a superare il divieto di compromesso introdotto dall’ultimo periodo dello stesso comma 1-bis. Invero, tale divieto - al di là di quanto, qui di seguito, si dirà in ordine alla dubbia conformità della previsione in esame ai criteri della legge delega - pare espressione di un principio generale valevole in tutte le ipotesi di arbitrato, così come inequivocabilmente dimostrato dall’uso della locuzione «in ogni caso».

Peraltro, sul punto si è già osservato come la legge delega non vieti, ex se, il negozio compromissorio, limitandosi a proibirne la formazione successivamente alla stipula del contratto. Il legislatore delegato, dunque, ben avrebbe potuto consentire la stipulazione del compromesso purché in un fase antecedente alla stipulazione del contratto d’appalto.

Giova osservare, inoltre, come il meccanismo di ricusazione tracciato dalla previsione in rassegna mal si attagli e, comunque, necessiti di adattamenti alle peculiari procedure dell’accordo quadro, del dialogo competitivo e dei sistemi dinamici di acquisizione, procedure, queste, non perfettamente riconducibili allo schema bando/avviso o invito, da un lato, ed offerta, dall’altro.

A solo titolo esemplificativo, si pensi all’ipotesi di accordo quadro concluso con più operatori economici, nel caso in cui lo stesso non fissi tutte le condizioni per l’aggiudicazione degli appalti basati sull’accordo quadro medesimo. In tal caso, l’art. 59, comma 8, del d.lgs. 163/2006, impone il rilancio del confronto competitivo fra le parti, secondo la puntuale procedura tracciata dalle lettere a), b), c) e d) della stessa previsione, che ha avvio da una fase di consultazione per iscritto degli operatori economici per concludersi con l’aggiudicazione dell’appalto al miglior offerente.

Ebbene, nella fattispecie presa in considerazione, occorre domandarsi se, al fine di rispettare il comma 1-bis dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006, la stazione appaltante debba indicare la presenza nel contratto d’appalto della clausola compromissoria sin dal bando prodromico alla conclusione dell’accordo quadro, ovvero se tale indicazione possa essere posticipata, quanto meno, all’avvio del rilancio del confronto competitivo, secondo quanto indicato nel citato comma 8 dell’art. 59 del c.d. Codice De Lise.

3.2. Gli arbitri.

Passando, ora, all’esame delle novità in tema di arbitri, l’intervento novellatore è, senza dubbio, ispirato ad una maggiore severità in ordine ai requisiti di indipendenza dei componenti del collegio arbitrale.

Con particolare riferimento alla figura del presidente, il nuovo comma 5 dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006 - in aggiunta al già previsto obbligo di sua individuazione fra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce -, esige che lo stesso sia munito di precipui requisiti di indipendenza e che, comunque, nell’ultimo triennio non abbia esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore – con la sola eccezione dei difensori dipendenti pubblici - in giudizi arbitrali disciplinati dallo stesso art. 241.

Tale incompatibilità, tuttavia, è limitata ai soli casi di previo esercizio delle funzioni di arbitro di parte o di difensore e, pertanto, non si estende anche alle ipotesi di svolgimento, nel triennio precedente, della funzione di presidente.

La violazione dell’obbligo imposto dal citato comma 5 viene pesantemente sanzionato attraverso l’introduzione di un’ipotesi di nullità del lodo, ai sensi dell’art. 829, primo comma, n. 3, c.p.c..

Pertanto, il lodo pronunciato da un collegio arbitrale il cui presidente risulti sprovvisto dei requisiti imposti dall’art. 241 è nullo al pari del lodo emesso da chi non poteva essere arbitro in quanto privo, in tutto o in parte, della capacità legale di agire.

Si arricchiscono, poi, i casi di ricusazione aggiuntivi di cui al comma 6 dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006, stabilendosi che non può essere nominato arbitro chi, in qualsiasi modo, abbia espresso un giudizio o un parere sull’oggetto della controversia, anche ai sensi dell’art. 240 in tema di accordo bonario.

3.3. La procedura arbitrale.

Quanto, poi, alle novità più propriamente procedurali, la novella procede all’integrale riscrittura dei commi 9 e 10 ed all’abrogazione del comma 11 dell’art. 241 del c.d. Codice degli appalti pubblici.

In primo luogo, con modifica da salutare con assoluto favore, si prevede che il lodo si ha per pronunciato con l’ultima sottoscrizione, anziché con il deposito presso la camera arbitrale per i contratti pubblici, alla cui effettuazione viene subordinata, in ogni caso, l’efficacia del lodo[10].

La previsione di cui al comma 11, oggi abrogato, viene, poi, trasfusa nello stesso comma 9 attraverso alcune puntualizzazioni dell’originaria formulazione.

Si specifica, infatti, che il versamento di una somma pari all’uno per mille del valore della controversia – da effettuarsi non più all’atto del deposito del lodo, bensì entro quindi giorni dalla sua pronuncia -, sebbene debba essere curato dagli arbitri, è, in ogni caso, a carico delle parti. L’abrogato comma 11 si limitava a stabilire che il versamento della somma in questione dovesse avvenire «a cura degli arbitri», formula, questa, in virtù della quale si sarebbe potuto sostenere che l’uno per mille del valore della controversia andasse sottratto al compenso degli arbitrati.

Particolarmente innovativa è, poi, la disciplina che il nuovo comma 10 dell’art. 241 detta in tema di deposito del lodo presso la camera arbitrale.

Tale adempimento non viene più sottoposto al rispetto di alcun termine, essendosi eliminato quello di dieci giorni, decorrente dalla data dell’ultima sottoscrizione, contemplato dall’originaria versione del comma 10.

Tuttavia, il deposito del lodo presso la camera arbitrale diviene condizione imprescindibile per il deposito dello stesso ai sensi dell’art. 825 c.p.c.: pertanto, la parte che intende fare eseguire il lodo, per proporre la relativa istanza, dovrà averlo, preventivamente, depositato presso la camera arbitrale per i contratti pubblici.

Si specifica, infine, che la necessità di dar seguito agli adempimenti di cui al citato art. 825 c.p.c. abilita la parte ad ottenere, dalla camera arbitrale, la restituzione del rispettivo originale, con attestazione dell’avvenuto deposito presso la stessa.

3.4. Il compenso degli arbitri.

Di non poco conto, soprattutto in ordine alla concreta “appetibilità” della funzione di arbitrato, risultano le novità riguardanti il compenso del collegio arbitrale.

Preliminarmente, si puntualizza che la determinazione del valore della controversia ed il compenso degli arbitri siano determinati nel lodo ovvero con separata ordinanza: la versione precedente del comma 12 dell’art. 241 nulla diceva al riguardo.

Viene stabilito, inoltre, che il compenso per il collegio arbitrale, comprensivo dell’eventuale compenso per il segretario, non può comunque superare l’importo di centomila euro.

E’ questa una previsione conforme alla legge delega che, come visto, fra i criteri specifici dettati prevede proprio quello del contenimento dei costi del giudizio arbitrale (art. 44, comma 3, lett. m, n. 4, l. 88/2009).

Tuttavia, la soluzione di individuare un tetto massimo del compenso del collegio arbitrale mai superabile appare, ex se, irragionevole in quanto prescinde del tutto sia dal valore della relativa controversia, sia, soprattutto, dalla complessità delle questioni trattate, delle specifiche competenze utilizzate nonché dell’effettivo lavoro svolto dagli arbitri, aspetti, questi, che già secondo quanto previsto dal terzo periodo del comma 12 dell’art. 241, impediscono incrementi dei compensi massimi.

Inoltre, la denunciata irragionevolezza appare ancora più marcata qualora si ponga mente al fatto che la fissazione di un limite massimo valevole per tutti gli arbitrati rischia di andare a scapito degli arbitrati su controversie dal rilevante valore economico. Ed invero, stante l’assenza di prescrizioni circa i criteri che gli arbitri devono seguire per la determinazione del loro compenso, atteso che il legislatore si limita a prevedere esclusivamente un suo limite massimo, è facile immaginare che gli arbitri delle procedure arbitrali dal valore economico più modesto ben potranno liquidare i propri compensi nei valori massimi stabiliti dal D.M. 398/2000, così riducendo, se non proprio azzerando, gli effetti virtuosi dell’introduzione del tetto di centomila euro[11].

Preferibile sarebbe stato, pertanto, imporre la determinazione del compenso del collegio arbitrale attraverso l’utilizzo dei soli compensi minimi ovvero, a tutto concedere, di tali compensi minimi abbattuti di una data percentuale.

L’introduzione di un tetto massimo per il compenso degli arbitri riguarda anche i giudizi arbitrali in cui il presidente sia stato nominato dalla camera arbitrale, ai quali, ai sensi del novellato comma 5 dell’art. 243 del d.lgs. 163/2006, si applicano le disposizioni di cui all’art. 241, comma 12, secondo, terzo, quarto e quinto periodo.

Al fine di razionalizzare, più che di contenere, le spese del giudizio arbitrale imputabili all’eventuale consulente tecnico o ad altro ausiliario, il nuovo comma 13 dell’art. 241 prevede che il relativo compenso sia liquidato, dal collegio arbitrale, ai sensi degli articoli 49 e 50 del d.p.r. 115/2002, nella misura derivante dall’applicazione delle tabelle ivi previste (comma 13).

La previsione si applica anche agli arbitrati in cui il presidente sia nominato dalla camera arbitrale (art. 243, comma 9. d.lgs. 163/06).

In tale tipologia di giudizio arbitrale, con l’evidente obiettivo di contenimento dei relativi costi, la nomina del segretario del collegio arbitrale, prima obbligatoria, viene circoscritta ai soli casi di necessità (art. 243, comma 7, d.lgs. 163/06).

Con previsione che nulla ha a che vedere con l’obiettivo del contenimento dei costi del giudizio arbitrale, il legislatore delegato priva l’ordinanza di liquidazione del compenso e delle spese arbitrali, nonché del compenso e delle spese per la consulenza tecnica, della natura di titolo esecutivo, assegnandole la ben più modesta veste di titolo per l’ingiunzione di cui all’art. 633 c.p.c..

La novità, proprio in quanto incapace di determinare alcuna riduzione dei costi delle procedure arbitrali, appare ispirata ad una incomprensibile volontà “punitiva” degli arbitri, quasi che su gli stessi, nonostante le numerose e rigide cause di incompatibilità, gravi una sorta di “peccato originale” che rende la decisione sui loro compensi non meritevole di acquisire valore di titolo esecutivo.

La soluzione accolta dall’intervento novellatore, in ogni caso, determina una irragionevole asimmetria, di difficile giustificazione, rispetto all’arbitrato “ordinario”, atteso che, ai sensi dell’art. 814, comma 3, c.p.c., l’ordinanza con cui gli arbitri provvedono alla liquidazione delle spese e dell’onorario è titolo esecutivo.

Per concludere la rassegna delle novità riguardanti le spese del giudizio arbitrale ex art. 241 del d.lgs. 163/2006, occorre segnalare l’introduzione, nello stesso art. 241, del comma 12-bis in applicazione del quale, fatta salva la facoltà di compensazione delle spese di lite secondo i presupposti dettati dall’art. 92, comma 2, c.p.c., il collegio arbitrale, se accoglie solo in parte la domanda, ha l’obbligo di compensare le spese del giudizio in proporzione al rapporto tra il valore della domanda e quello dell’accoglimento.

3.5. L’impugnazione del lodo.

In tema di impugnazione del lodo arbitrale, la legge 88/2009 delegava il Governo a prevedere misure acceleratorie del relativo giudizio (art. 44, comma 3, lett. m, n. 5, l. 88/2009).

La legge delega, in realtà, va ben oltre l’obiettivo fissato dal legislatore delegante, dettando, attraverso l’introduzione dei commi 15-bis e 15-ter dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006, una vera e propria disciplina - speciale rispetto a quella del codice di rito -, del giudizio di impugnazione di un lodo reso a conclusione di un giudizio arbitrale disciplinato dallo stesso art. 241.

Senza che alcun criterio in tal senso sia rintracciabile nell’art. 44 della l. 88/2009, l’intervento novellatore procede, in primo luogo, ad ampliare i motivi di impugnazione del lodo.

Ai sensi del comma 15-bis dell’art. 241, il lodo, oltre che per motivi di nullità, può essere impugnato anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia.

Giova, al riguardo, ricordare che i motivi di nullità richiamati dal comma 15-bis non si esauriscono in quelli indicati nell’art. 829 c.p.c., atteso che, come visto, la nuova versione del comma 5 dell’art. 241 sanziona con la nullità del lodo la violazione dei criteri dettati per la scelta del presidente del collegio arbitrale.

La possibilità di impugnare il lodo anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia rappresenta una novità da salutare con assoluto favore atteso che amplia le possibilità di tutela della parte soccombente.

La previsione è in linea con la disciplina generale di cui all’art. 829 c.p.c. che, al secondo comma, ammette l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia soltanto se espressamente disposta dalle parti o dalla legge.

In piena adesione al criterio acceleratorio dettato dalla delega, si stabilisce una drastica riduzione del c.d. termine lungo di impugnazione del lodo: in luogo di quello generale di un anno dalla data dell’ultima sottoscrizione (art. 828, c. 2, c.p.c.), si prevede il termine di centottanta giorni dal deposito del lodo presso la camera arbitrale (art. 241, comma 15-bis, d.lgs. 163/06).

La disposizione, tuttavia, non è di facile applicazione.

Si è già detto che il nuovo comma 10 dell’art. 241 non prevede più alcun termine per il deposito del lodo, deposito che, ai sensi del precedente comma 9, si atteggia, oggi, quale mera condizione di efficacia del lodo medesimo.

Ne discende, pertanto, che la parte soccombente, in mancanza di comunicazione del deposito da parte della camera arbitrale – comunicazione non contemplata da alcuna disposizione -, non è in grado di conoscere la decorrenza del termine c.d. lungo di impugnazione, se non a costo di un defatigante controllo quotidiano presso la camera stessa da avviare il giorno seguente alla scadenza del termine per la pronuncia del lodo medesimo.

Pertanto, il meccanismo tracciato per l’impugnazione del lodo in assenza di sua notifica appare lesivo del diritto di difesa, lesività che, al contrario, non si sarebbe verificata qualora la decorrenza del c.d. termine lungo fosse stata ancorata non già al deposito del lodo, bensì alla sua comunicazione alle parti a cura della camera arbitrale[12].

La novella, inoltre, detta una disciplina speciale in ordine al potere della corte d’appello di sospendere l’efficacia del lodo.

In primo luogo, affinché il giudice dell’impugnazione possa accogliere la domanda di sospensione dell’esecutività del lodo si richiede la sussistenza di gravi e fondati motivi.

Ciò a differenza di quanto previsto, in generale, dall’art. 830, comma 4, c.p.c. che, quanto meno nel suo tenore letterale, esige la ricorrenza, soltanto, di gravi motivi.

Il richiamo espresso al presupposto del fumus boni iuris è, in ogni caso, conforme alla disciplina dettata dall’art. 283 c.p.c. sul potere del giudice d’appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata.

Quanto ai profili procedurali, si opera un rinvio “secco” all’art. 351 c.p.c..

Pertanto, si potrà invocare una sospensione collegiale dell’efficacia del lodo, ovvero, se ricorrono giusti motivi di urgenza, monocratica, sottoposta a successivo vaglio del collegio.

Con novità di assoluto rilievo, si prevede che il collegio, quando accoglie la domanda di sospensione dell’efficacia esecutiva del lodo, ovvero conferma il provvedimento di sospensione presidenziale, deve verificare se il giudizio è in condizione di essere definito.

Se tale verifica dà esito positivo, il collegio, fatte precisare le conclusioni, ordina la discussione orale nella stessa udienza o camera di consiglio, ovvero in una udienza da tenersi entro novanta giorni dall’ordinanza di sospensione in cui pronunzierà sentenza ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c..

Al contrario, qualora il giudizio non sia in condizione di essere definito essendo all’uopo necessari indispensabili incombenti istruttori, il collegio provvede su di essi con la stessa ordinanza di sospensione, orinandone l’assunzione in un’udienza successiva di non oltre novanta giorni.

Esaurita l’istruttoria, il collegio provvede con le “accelerate” modalità di decisione di cui innanzi.

E’ di palmare evidenza che, con il rito appena ripercorso, il legislatore della novella si sia ispirato agli istituti del processo amministrativo della decisione immediata e del rito accelerato ex art. 23-bis l. Tar.

In primo luogo, al pari di quanto disposto dall’art. 21, comma 10, della l. Tar, si prevede che il collegio, chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare, possa decidere anche il merito della controversia.

Tuttavia, la decisione immediata contemplata dal comma 15-ter dell’art. 241 del d.lgs. 163/06 presuppone l’accoglimento della domanda di sospensione, e non soltanto la circostanza che il collegio sia investito della decisione della domanda cautelare, così come previsto dall’art. 21, comma 10, della l. Tar.

Pertanto, mentre il giudice amministrativo potrà decidere il merito a prescindere da qualsivoglia delibazione sulla domanda cautelare, la corte d’appello, adita per l’impugnazione di un lodo emesso a conclusione di un arbitrato disciplinato dall’art. 241 d.lgs. 163/2010, potrà definire immediatamente il relativo giudizio solo in caso di accoglimento della domanda di sospensione della sua esecutività.

In secondo luogo, al pari di quanto disposto dall’art. 23-bis, comma 3, l. Tar, si stabilisce che l’accoglimento della domanda di sospensione, ove avvenga a seguito dello scioglimento di una riserva, comporta una fissazione ravvicinata dell’udienza in cui la controversia passerà in decisione.

3.6. Conclusioni.

A conclusione di queste prime riflessioni sulle novità in tema di arbitrato ex art. 241 d.lgs. 163/2006, occorre domandarsi se la disciplina brevemente ripercorsa dia o meno attuazione alla legge delega?

La risposta positiva si impone per i criteri sub nn. 3, 4, e 5), del comma 3, dell’art. 44, l. 88/2009, che, come visto, impongono l’indicazione della eventuale clausola compromissoria sin dall’atto indittivo della gara, il contenimento dei costi del giudizio arbitrale e l’accelerazione del processo di impugnazione del lodo.

Al contrario, completamente disatteso risulta il criterio di cui al punto 2) della disposizione appena citata, criterio finalizzato a prevedere l’arbitrato come ordinario rimedio alternativo al giudizio civile.

Ed invero, non sembra che la novella rechi un solo intervento capace di generalizzare la deferibilità ad arbitri delle controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, così venendosi a tradire quello che, ad avviso di chi scrive, rappresentava l’obiettivo principale posto al governo dalla legge delega.



[1] Per una puntuale ed attenta ricostruzione dell’istituto dell’arbitrato in tema di lavori pubblici si veda, per tutti, L.M. Delfino, La tela di Penelope dell’arbitrato delle opere pubbliche. Il decreto Legislativo 20 marzo 2010 n. 53: Ulisse non è ancora giunto ad Itaca!, in “Filodiritto” (https://www.filodiritto.com).

[2] Ai sensi dell’art. 15, comma 6, del d.lgs. 53/2010, «la disciplina introdotta dagli articoli 4 e 5 si applica ai bandi, avvisi di gara e inviti pubblicati successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, nonché ai contratti aggiudicati sulla base di essi e ai relativi giudizi arbitrali».

[3] Cfr. R. De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentato, Milano, 2008, 1468, che ricostruisce l’istituto dell’accordo bonario come «procedura di definizione precontenziosa, in forma sostanzialmente transattiva riguarda[nte] solo le controversie di natura economica che insorgano in sede di esecuzione dell’appalto e, e dunque solo controversie in materia di diritti soggettivi».

[4] O. Forlenza, L’arbitrato conquista procedure semplificate, in Guida al Diritto, 2010, n. 18, 80-81.

[5] Cfr. G. De Marzo, Collaudo dei lavori, in L. Carbone – F. Caringella – G. De Marzo (a cura di), L’attuazione della legge quadro sui lavori pubblici, Milano, 2000, 758.

[6] R. De Nictolis, op. cit., 1480.

[7] Come osservato da O. Forlenza, op. cit., 80, «la natura giuridica della commissione è dubbia. Per un verso, non sembrerebbe possibile attribuirle la natura di organo straordinario dell’amministrazione, attesa la sua composizione e il procedimento per addivenirvi; per altro verso, essa, non costituendo collegio arbitrale, sembrerebbe comunque inserirsi in una più ampia procedura amministrativa contenziosa. Ad ogni buon conto, essa, in considerazione della natura dei suoi componenti, della modalità della loro designazione, dei poteri dei quali è o può essere investita, è sicuramente molto vicina alla figura del collegio arbitrale, pur non potendosi definire tale».

[8] Nello stesso senso L.M. Delfino, op. cit., 15-16.

[9] In senso conforme L.M. Delfino, op. cit., 15.

[10] Si veda, al riguardo, L.M. Delfino, op. cit., 15, che ha attentamente rilevato come la previsione in questione presenti, in ogni caso, «… un sostanziale spaccato di differenziazione rispetto alla disciplina dell’arbitrato prevista dal codice di rito, che, invece, contempla che il lodo consegua efficacia di sentenza a far tempo dall’ultima sua sottoscrizione».

[11] Nello stesso senso L.M. Delfino, op. cit., 16, il quale parla di vera e propria elusione degli intenti e delle finalità moralizzatrici che hanno ispirato la scelta della individuazione del tetto massimo in centomila euro.

[12] Nello stesso senso L.M. Delfino, op. cit., 16, che auspica un intervento correttivo del legislatore «… che definitivamente provveda ad agganciare il ricordato termine lungo, piuttosto che al criterio della conoscenza tout court, al più ragionevole criterio della comunicazione della decisione arbitrale alle parti da effettuarsi sempre a cura della Camera arbitrale per i contratti pubblici».

[Il presente lavoro è il frutto di un’elaborazione dell’intervento tenuto il 7 maggio 2010, unitamente al Prof. Avv. Luciano Maria Delfino, nel Corso di perfezionamento organizzato dall’Università degli studi di Bari, dalla Facoltà di giurisprudenza sede di Taranto, dalla Sezione Puglia de la Cour Européene d’Arbitrage de Strasbourg, dal CEDICLO, dalla Scuola Forense dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, dalla Provincia di Taranto e dal Comune di Taranto sul macrotema Dignità dell’uomo: migrazione, mediazione, arbitrati]

1. Premessa.

In esecuzione dell’art. 44 della l. 88/2009, recante la delega per l’attuazione della direttiva 2007/66/CE finalizzata al miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, il Governo ha emanato il d.lgs. 53/2010.

Fra i tanti istituti della contrattualistica pubblica fortemente incisi dal legislatore delegato, particolare rilievo assumono le novità in tema di accordo bonario e di arbitrato. Ciò vale in special modo per l’arbitrato che, quasi in osmosi con il periodo pasquale in cui è stato emanato il d.lgs. 53/2010, è definitivamente “risorto” dalle ceneri del relativo divieto introdotto, senza mai entrare in vigore, dall’art. 3, comma 13, della l. 244/2007 (legge finanziaria per il 2008)[1].

Qui di seguito si procederà ad una breve analisi delle novità in tema di accordo bonario e arbitrato recate dagli articoli 4 e 5 della l d.lgs. 53/10[2], analisi che prenderà le mosse dai principi e criteri specifici indicati nella legge delega (art. 44, comma 3, lett. m, della l. 88/2009), che, qui di seguito, si riportano:

«… I decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati nel rispetto dei principi e criteri direttivi generali di cui all’articolo 2, nonché dei seguenti principi e criteri direttivi specifici:

m) dettare disposizioni razionalizzatrici dell’arbitrato, secondo i seguenti criteri:

1) incentivare l’accordo bonario;

2) prevedere l’arbitrato come ordinario rimedio alternativo al giudizio civile;

3) prevedere che le stazioni appaltanti indichino fin dal bando o avviso di indizione della gara se il contratto conterrà o meno la clausola arbitrale, proibendo contestualmente il ricorso al negozio compromissorio successivamente alla stipula del contratto;

4) contenere i costi del giudizio arbitrale;

5) prevedere misure acceleratorie del giudizio di impugnazione del lodo arbitrale.».

2. Le novità in tema di accordo bonario.

In tema di accordo bonario, disciplinato dall’art. 240 del d.lgs. 163/2006, il legislatore delegante aveva affidato al Governo il compito di dettare disposizioni finalizzate ad incentivare il ricorso a tale procedura precontenziosa di risoluzione delle liti di natura economica sorte durante l’esecuzione di un appalto di lavori pubblici[3].

Non sembra che l’obiettivo sia stato sortito.

Le novità in tema di accordo bonario sono soltanto quattro.

In primo luogo, si prevede un diverso dies a quo del termine di novanta giorni per la formulazione, da parte della Commissione, della proposta motivata di accordo bonario: mentre nella versione precedente il termine decorreva dalla «apposizione dell’ultima delle riserve», la vigente versione àncora la decorrenza del termine in questione alla «costituzione della commissione» (art. 240, c. 5, d.lgs. 163/06).

Si tratta di modifica certamente opportuna, atteso che la previgente formulazione legislativa ancorava la decorrenza del termine ad un fatto (apposizione dell’ultima delle riserve) precedente alla stessa costituzione della Commissione che, pertanto, avviava i propri lavori già “in ritardo”, dato che il termine assegnatole per la formulazione della proposta di accordo bonario era in pieno decorso al momento della sua stessa costituzione.

In secondo luogo, nell’art. 240 del c.d. Codice De Lise, viene aggiunto il comma 9-bis attraverso cui il legislatore delegato individua le categorie tra cui, inderogabilmente, deve essere individuato il terzo componente con funzioni di presidente della commissione.

Alla luce dell’intervento novellatore, quest’ultimo - tanto nel caso in cui sia nominato di comune accordo, quanto nell’ipotesi in cui sia nomina del presidente del tribunale competente -, deve appartenere ad una delle seguenti categorie:

- magistrati amministrativi o contabili;

- avvocati dello Stato;

- componenti del Consiglio superiore dei lavori pubblici;

- dirigenti di prima fascia delle pubbliche amministrazioni, che abbiano svolto le funzioni dirigenziali per almeno cinque anni;

- avvocati e tecnici in possesso del diploma di laurea in ingegneria ed architettura, iscritti ai rispettivi ordini professionali in possesso dei requisiti richiesti dall’art. 241, comma 5, per la nomina a presidente del collegio arbitrale.

Come attentamente osservato[4], la norma suscita non poche perplessità con riferimento ai seguenti aspetti:

- natura di alcune categorie: è irragionevole ammettere che facciano parte della Commissione magistrati amministrativi e contabili, attesa la natura e la funzione della Commissione;

- disomogeneità delle categorie: genericità del riferimento al titolo di laurea in architettura ed ingegneria, senza tener conto della durata e del contenuto qualitativo del corso di studi; mancanza della previsione di un termine minimo di iscrizione ai rispettivi albi professionali.

Relativamente a quest’ultimo profilo, il legislatore pare operare una sorta di “compensazione” esigendo solo per gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti- e non anche per altre categorie -, che gli stessi siano muniti di precipui requisiti di indipendenza e, comunque, non abbiano esercitato, nell’ultimo triennio, funzioni di arbitro di parte o, limitatamente agli avvocati, di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dall’art. 241 del d.lgs. 163/2006, così come previsto dal comma 5 dello stesso art. 241.

In ogni caso, l’indulgenza legislativa in ordine alla mancata previsione di un termine minimo di iscrizione ai rispettivi albi professionali sembra pienamente giustificabile alla luce della drastica riduzione dei compensi spettanti ai membri della commissione che, come si vedrà in seguito, viene operata dal nuovo comma 10 dell’art. 240 del d.lgs. 163/2006.

E’ evidente, infatti, che ove la scarsa appetibilità economica della nomina a membro di commissione fosse stata accompagnata da una eccessiva rigidità nei requisiti di anzianità di iscrizione ai rispettivi albi professionali, si sarebbe corso il rischio di circoscrivere, eccessivamente, la pletora dei soggetti da cui individuare il terzo componente della commissione, finendo, così, per compromettere la stessa operatività dell’istituto dell’accordo bonario.

Il comma 9-bis dell’art. 240 del c.d. Codice degli appalti pubblici, nella parte in cui esige che gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti siano in possesso dei requisiti richiesti dall’art. 241, comma 5, per la nomina a presidente del collegio arbitrale, dà vita a quest’ulteriore incongruenza.

In ragione della tecnica legislativa del richiamo normativo utilizzata nella stesura della disposizione sottoposta a scrutinio, la norma che da essa se ne trae è, come visto, quella in virtù della quale gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti per poter essere nominati presidente di commissione, oltre al possesso di precipui requisiti di indipendenza, non devono aver esercitato, nell’ultimo triennio, funzioni di arbitro di parte.

La previsione, dunque, introduce un’incompatibilità fra funzione di arbitrato, nell’ultimo triennio, e funzione di terzo componente della commissione per la formulazione della proposta di accordo bonario.

Tuttavia, sarebbe stato più coerente, al pari di quello che accade in tema di arbitrato alla luce del novellato comma 5 dell’art. 241 d.lgs. 163/06, prevedere un’incompatibilità nell’ambito della medesima funzione di terzo componente di commissione ex art. 240, essendo evidente che la previsione, così come scritta, consente ad un professionista appartenente ad una delle categorie in questione di svolgere continuativamente la funzione di presidente di commissione, senza alcun limite al numero di nomine di tal sorta ricevibili.

Si rischia, pertanto, di creare avvocati, ingegneri ed architetti che “professionalmente” svolgono il ruolo di terzo componente della commissione ex art. 240 d.lgs. 163/06, e ciò in spregio a quei requisiti di terzietà ed indipendenza che, comunque, dovrebbero caratterizzare lo svolgimento di una procedura che, sebbene non giurisdizionale, è, comunque, precontenziosa.

Senza considerare, infine, che l’incompatibilità fra funzione di arbitro, nell’ultimo triennio, e funzione di terzo componente della commissione riguarda, solo ed esclusivamente, gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti, non estendendosi alle altre categorie contemplate dal comma 9-bis per le quali il paventato rischio di “professionalizzazione” nel ruolo di terzo componente della commissione appare, pertanto, ancora più grave ed attuale.

Passando, ora, alla terza novità introdotta dal d.lgs. 53/2010 in tema di accordo bonario, occorre richiamare il nuovo comma 10 dell’art. 240 del d.lgs. 163/06 che, come anticipato, introduce una forte riduzione dei compensi spettanti a ciascun membro delle commissioni, prevedendo che gli stessi non possano superare la misura massima di un terzo dei corrispettivi minimi previsti dalla tariffa allegata al D.M. 398/2000, oltre al rimborso delle spese documentate.

La limitazione al quantum dei compensi spettanti è, davvero, incisiva ove solo si consideri che già la precedente versione del comma 10 prevedeva, comunque, il limite massimo della metà dei medesimi corrispettivi minimi contemplati dal D.M. 398/2000.

Come innanzi detto, è evidente come una riduzione così eccessiva dei compensi per i componenti della commissione ex art. 240 d.lgs. 163/2006 possa determinare se non proprio una “fuga” dalle relative nomine, quanto meno un ridotto “fascino” delle stesse.

Non va sottaciuto, infine, che tale ulteriore limitazione dei compensi in questione non trova “copertura” nella legge delega che dettava il criterio del contenimento dei costi solo ed esclusivamente con riguardo al giudizio arbitrale, e non anche per l’accordo bonario.

Viene riscritto, infine, l’intero comma 16 dell’art. 240 del d.lgs. 163/2006.

Si completano le ipotesi in cui, nonostante l’avvio della procedura precontenziosa di accordo bonario, è possibile esercitare il diritto di azione.

La previgente formulazione si limitava a contemplare i casi di inutile decorso dei termini di cui ai commi 12 e 13, ammettendo, in tali ipotesi, il solo arbitrato.

La nuova versione del comma 16, accanto ai casi suddetti, indica anche l’ipotesi del fallimento del tentativo di accordo bonario.

Si specifica che, oltre all’arbitrato, è possibile adire il giudice ordinario. In assenza di tale espressa previsione, invero, si sarebbe potuto sostenere che l’appaltatore, per poter adire il giudice ordinario, avrebbe dovuto attendere la conclusione del collaudo, fra le cui finalità, come noto, vi è anche quella della liquidazione del corrispettivo all’appaltatore: è proprio in tale sede che si deve procedere all’esame delle riserve dell’appaltatore sulle quali non sia già intervenuta una risoluzione definitiva in via amministrativa[5].

Tuttavia, in considerazione della dubbia costituzionalità di tale opzione esegetica, già durante la vigenza dell’originario comma 16 dell’art. 240, non si dubitava del fatto che, una volta spirati i termini per la formulazione della proposta di accordo bonario, l’appaltatore ben avrebbe potuto adire, oltre al collegio arbitrale, anche il giudice ordinario[6].

2.1. Conclusioni.

Come già detto, ad avviso di chi scrive non sembra che il legislatore delegato abbia dato attuazione alla delega che gli imponeva, in tema di accordo bonario, un unico, chiaro obiettivo: incentivare il ricorso a tale procedura di definizione precontenziosa delle controversie in materia di diritti soggettivi sorte in sede di esecuzione di un appalto di lavori.

Al più solo la modifica con cui si è razionalizzata la decorrenza del termine assegnato alla commissione per la formulazione della proposta di accordo bonario mira a sortire lo scopo individuato nella delega, scopo che, al contrario, risulta “tradito” dalle altre modifiche introdotte dall’intervento novellatore.

Peraltro, l’incentivazione dell’accordo bonario può essere realizzata solo attraverso una generalizzazione dell’obbligo di costituzione di un’apposita commissione per la formulazione di una proposta di accordo bonario, costituzione che, anche oggi, rimane obbligatoria solo per gli appalti di valore superiore ai dieci milioni di euro, e facoltativa per quelli di valore inferiore.

Infatti, se è pur vero che per questi ultimi appalti, qualora non venga esercitata la facoltà di nomina della commissione, la proposta di accordo bonario è, comunque, formulata dal responsabile del procedimento (comma 15), è altrettanto vero che tale proposta, già da un punta di vista “genetico” – in quanto formulata dalla stessa stazione appaltante e, dunque, dalla stessa “controparte” -, risulta meno persuasiva di quella promanante da una apposita commissione che, pur non rivestendo natura giurisdizionale, è, comunque, dotata di un grado di indipendenza e di imparzialità certamente maggiore rispetto a quello del responsabile del procedimento[7].

3. Le novità in tema di arbitrato.

Il fallimento della procedura di accordo bonario consente il deferimento ad arbitri della relativa lite, rientrando quest’ultima, espressamente, fra le controversie su diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione di contratti pubblici che, ai sensi dell’art. 241, comma 1, del d.lgs. 163/2006, possono essere deferite in arbitrato.

In tema di arbitrato, il principale criterio dettato dalla legge delega è costituito dalla necessità di prevedere l’arbitrato come ordinario rimedio alternativo al giudizio civile (art. 44, c. 3, lett. m, n. 2, l. 88/2009).

Pertanto, ed è questa la novità più importante, viene superato il divieto di arbitrato per le pubbliche amministrazioni, introdotto con l’art. 3, comma 13, della legge finanziaria 2008, divieto, tuttavia, mai entrato in vigore.

La “risurrezione” dell’arbitrato negli appalti pubblici avviene attraverso l’introduzione, nell’art. 241 del d.lgs. 163/06, del comma 1-bis.

3.1. Clausola compromissoria e contratto d’appalto.

In virtù del citato comma 1-bis, fermo restando il divieto di compromesso, spetta alla stazione appaltante indicare nell’atto indittivo della gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà, o meno, la clausola compromissoria, salva la facoltà per l’aggiudicatario - da esercitare nel termine di venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione -, di ricusare la stessa clausola compromissoria, con conseguente suo mancato inserimento nel contratto.

In ordine ai “meccanismi” di introduzione della clausola compromissoria nel contratto di appalto, il legislatore delegato non prevede un divieto assoluto di compromesso, limitandosi a proibire che il ricorso al negozio compromissorio possa intervenire successivamente alla stipula del contratto (art. 44, c. 3, lett. m, n. 3, l. 88/2009).

Non solo. La legge delega non fa alcun cenno alla facoltà di ricusazione della clausola compromissoria da parte dell’aggiudicatario, esigendo, esclusivamente, che il bando o l’avviso di indizione della gara indichino, da subito, se il contratto conterrà o meno la clausola arbitrale.

Al contrario, secondo la disciplina dettata dal novellato art. 241 del d.lgs. 163/2006, la possibilità che una controversia su diritti soggettivi, derivante dall’esecuzione dei contratti pubblici, possa essere deferita ad arbitri soggiace alla ricorrenza di una duplice condizione: da un lato, è indispensabile che la stazione appaltante indichi nell’atto che dà avvio al confronto concorrenziale se il contratto recherà, o meno, la clausola compromissoria; dall’altro, è necessario che l’aggiudicatario non ricusi la clausola stessa.

A ciò si aggiunga che, stante il chiaro tenore letterale della previsione, l’esercizio delle facoltà di cui godono la stazione appaltante e l’aggiudicatario viene rimesso alla loro esclusiva volontà di scelta, con la conseguenza che lo stesso non appare in alcun modo sindacabile.

La disposizione in rassegna è, poi, foriera di diverse questioni ermeneutiche.

In primo luogo, il legislatore della novella si limita a richiamare la nozione di aggiudicatario senza specificare se abbia inteso riferirsi all’aggiudicatario provvisorio ovvero a quello definitivo.

Ad avviso di chi scrive, è preferibile ritenere che l’aggiudicatario indicato dal comma 1-bis dell’art. 241 del c.d. codice De Lise, sia quello definitivo[8].

In tal senso militano le seguenti ragioni.

La ricusazione della clausola compromissoria fa sì che questa non sia inserita nel contratto e non già che la stessa venga espunta dagli atti con cui la stazione appaltante avvia il confronto concorrenziale.

Dunque, l’esercizio della facoltà di ricusazione produce i suoi effetti esclusivamente nella fase immediatamente precedente alla stipulazione del contratto che, ai sensi dell’art. 11, comma 9, del d.lgs. 163/06, può aver luogo soltanto una volta divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva e, dunque, soltanto una volta individuato l’aggiudicatario definitivo.

Inoltre, a favore della soluzione esegetica qui accolta, si pone la stessa ratio garantista della par condicio dei concorrenti che sembra essere a fondamento della scelta legislativa di “ritardare” il più possibile l’esercizio della facoltà di ricusazione. Ed invero, se quest’ultimo fosse stato anticipato al momento della presentazione dell’offerta ovvero a fasi precedenti l’aggiudicazione definitiva, il concorrente, a causa di un uso distorto del potere di valutazione della propria offerta, proprio in tale occasione, avrebbe potuto subire le conseguenze negative di tale scelta contraria alla volontà della stazione appaltante.

Ebbene, anche l’aggiudicatario provvisorio si trova in una situazione di “precarietà” atteso che l’aggiudicazione provvisoria è soggetta ad approvazione ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.lgs. 163/2006, fase, questa, in cui, sia pur attraverso un improprio esercizio del potere di approvazione, avrebbe potuto patire delle conseguenze negative discendenti dalla ricusazione della clausola compromissoria.

V’è da dire, in ogni caso, che la procedura di ricusazione tracciata dalla disposizione in esame, se effettivamente volta ad assicurare la non condizionabilità della scelta di ricusare la clausola compromissoria, non appare pienamente garantista nemmeno nei riguardi dell’aggiudicatario definitivo.

Il comma 1-bis dell’art. 241 del d.lgs. 163/06 fa decorrere il termine entro il quale l’aggiudicatario (definitivo) deve ricusare la clausola compromissoria dalla conoscenza dell’aggiudicazione.

Sennonché, ai sensi del comma 8 dell’art. 11 del c.d. Codice dei contratti pubblici, l’aggiudicazione definitiva diventa efficace soltanto dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti, fase questa in cui ben potrebbe verificarsi quella sorta di “risentimento” della stazione appaltante per aver l’aggiudicatario definitivo “contestato” la propria scelta di deferire ad arbitri le liti derivanti dall’esecuzione dello stipulando contratto d’appalto.

Dunque, se il legislatore avesse inteso garantire, “fino in fondo”, la piena libertà di esercizio del potere di ricusazione della clausola compromissoria, avrebbe dovuto ancorare la decorrenza del relativo termine non già alla conoscenza dell’aggiudicazione, bensì alla sua intervenuta efficacia, conseguente alla positiva verifica del possesso dei prescritti requisiti.

V’è da chiedersi, poi, cosa accada qualora il provvedimento di aggiudicazione definitiva sia annullato (giurisdizionalmente o in autotutela) una volta che l’originario aggiudicatario (definitivo) abbia già ricusato la clausola compromissoria.

Il nuovo aggiudicatario definitivo potrà avvalersi della procedura arbitrale?

La risposta positiva al quesito appare obbligata ove solo si ponga mente a quanto innanzi detto in ordine agli effetti della ricusazione della clausola compromissoria che, come visto, si limitano ad impedire che la stessa (clausola) sia inserita nel contratto, senza determinarne l’espunzione dagli atti della procedura di individuazione del contraente[9].

Peraltro, che ogni aggiudicatario/contraente debba poter esercitare l’opzione arbitrale risulta conforme ad una lettura costituzionalmente orientata della norma sottoposta a scrutinio dato che, in caso contrario, patente ne apparirebbe l’irragionevolezza.

Le conclusioni a cui si è appena pervenuti valgono, ovviamente, anche nell’ipotesi contraria, e cioè nel caso in cui l’originario aggiudicatario non abbia ricusato la clausola: al “nuovo” aggiudicatario va consentita la possibilità di ricusazione.

La disposizione introdotta con il comma 1-bis dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006 pone, poi, i seguenti ulteriori dubbi esegetici.

L’indicazione della clausola compromissoria va fatta nel bando o nell’avviso di indizione della gara, ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito.

La disposizione - nella parte in cui esige che anche l’invito, e non solo il bando o l’avviso di indizione della gara, debba indicare se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria -, appare sfornita di “copertura” legislativa atteso che la legge delega si limita a richiamare il bando o l’avviso con cui la stazione appaltante indice la gara, senza far alcun riferimento all’invito.

La previsione, inoltre, è dimentica del fatto che il comma 6 dell’art. 57, in tema di procedura negoziata senza bando, dispone, soltanto, un tendenziale confronto concorrenziale ai fini dell’aggiudicazione dell’appalto (“ove possibile”), con ciò ammettendo che ci possa essere una legittima ipotesi di procedura negoziata anche senza invito. Ciò vale, in particolare, nel caso di procedura negoziata senza bando nei casi di urgenza qualificata (art. 57, comma 2, lett. c, d.lgs. 163/06).

La norma, poi, omette di considerare le ipotesi di affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento consentito per i lavori di importo inferiore ai quarantamila euro e per i servizi e le forniture inferiori a ventimila euro (art. 125, commi 8 e 11, d.lgs. 163/06).

Invero, anche in tali casi il contraente viene individuato in assenza di invito.

Ebbene, in tutte queste ipotesi, le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei relativi contratti d’appalto, possono essere deferite ad arbitri?

A favore di una risposta positiva al quesito depone, in primo luogo, il tenore letterale del primo comma dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006 che ammette la possibilità dell’arbitrato per tutte le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, senza introdurre alcuna distinzione o limitazione discendente dalla procedura seguita per l’individuazione del contraente.

Inoltre, ove alla domanda si rispondesse negativamente, nelle specifiche ipotesi sopra menzionate si determinerebbe la riviviscenza del divieto di arbitrato che la normativa in rassegna ha inteso superare.

A ciò si aggiunga che la legge delega si limita ad imporre il “preavviso” di clausola arbitrale soltanto nelle procedure di individuazione del contraente che muovono dalla pubblicazione di un bando o di un avviso di indizione della gara, senza circoscrivere soltanto a tali ipotesi la possibilità di deferire ad arbitri le controversie su diritti soggettivi nascenti dall’esecuzione di un pubblico appalto, possibilità che, secondo il primo criterio dettato dalla legge delega in tema di arbitrato, deve rappresentare l’ordinario rimedio alternativo al giudizio civile.

Dunque, l’arbitrato va ammesso anche nei casi innanzi ripercorsi, pur nella consapevolezza che non potrà trovare applicazione la disciplina procedimentale tracciata dal comma 1-bis dell’art. 241 d.lgs. 163/06, se non a seguito di improbabili radicali adattamenti della scansione procedimentale ivi tracciata.

Non sembra, in ogni caso, che tali adattamenti possano portare a superare il divieto di compromesso introdotto dall’ultimo periodo dello stesso comma 1-bis. Invero, tale divieto - al di là di quanto, qui di seguito, si dirà in ordine alla dubbia conformità della previsione in esame ai criteri della legge delega - pare espressione di un principio generale valevole in tutte le ipotesi di arbitrato, così come inequivocabilmente dimostrato dall’uso della locuzione «in ogni caso».

Peraltro, sul punto si è già osservato come la legge delega non vieti, ex se, il negozio compromissorio, limitandosi a proibirne la formazione successivamente alla stipula del contratto. Il legislatore delegato, dunque, ben avrebbe potuto consentire la stipulazione del compromesso purché in un fase antecedente alla stipulazione del contratto d’appalto.

Giova osservare, inoltre, come il meccanismo di ricusazione tracciato dalla previsione in rassegna mal si attagli e, comunque, necessiti di adattamenti alle peculiari procedure dell’accordo quadro, del dialogo competitivo e dei sistemi dinamici di acquisizione, procedure, queste, non perfettamente riconducibili allo schema bando/avviso o invito, da un lato, ed offerta, dall’altro.

A solo titolo esemplificativo, si pensi all’ipotesi di accordo quadro concluso con più operatori economici, nel caso in cui lo stesso non fissi tutte le condizioni per l’aggiudicazione degli appalti basati sull’accordo quadro medesimo. In tal caso, l’art. 59, comma 8, del d.lgs. 163/2006, impone il rilancio del confronto competitivo fra le parti, secondo la puntuale procedura tracciata dalle lettere a), b), c) e d) della stessa previsione, che ha avvio da una fase di consultazione per iscritto degli operatori economici per concludersi con l’aggiudicazione dell’appalto al miglior offerente.

Ebbene, nella fattispecie presa in considerazione, occorre domandarsi se, al fine di rispettare il comma 1-bis dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006, la stazione appaltante debba indicare la presenza nel contratto d’appalto della clausola compromissoria sin dal bando prodromico alla conclusione dell’accordo quadro, ovvero se tale indicazione possa essere posticipata, quanto meno, all’avvio del rilancio del confronto competitivo, secondo quanto indicato nel citato comma 8 dell’art. 59 del c.d. Codice De Lise.

3.2. Gli arbitri.

Passando, ora, all’esame delle novità in tema di arbitri, l’intervento novellatore è, senza dubbio, ispirato ad una maggiore severità in ordine ai requisiti di indipendenza dei componenti del collegio arbitrale.

Con particolare riferimento alla figura del presidente, il nuovo comma 5 dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006 - in aggiunta al già previsto obbligo di sua individuazione fra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce -, esige che lo stesso sia munito di precipui requisiti di indipendenza e che, comunque, nell’ultimo triennio non abbia esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore – con la sola eccezione dei difensori dipendenti pubblici - in giudizi arbitrali disciplinati dallo stesso art. 241.

Tale incompatibilità, tuttavia, è limitata ai soli casi di previo esercizio delle funzioni di arbitro di parte o di difensore e, pertanto, non si estende anche alle ipotesi di svolgimento, nel triennio precedente, della funzione di presidente.

La violazione dell’obbligo imposto dal citato comma 5 viene pesantemente sanzionato attraverso l’introduzione di un’ipotesi di nullità del lodo, ai sensi dell’art. 829, primo comma, n. 3, c.p.c..

Pertanto, il lodo pronunciato da un collegio arbitrale il cui presidente risulti sprovvisto dei requisiti imposti dall’art. 241 è nullo al pari del lodo emesso da chi non poteva essere arbitro in quanto privo, in tutto o in parte, della capacità legale di agire.

Si arricchiscono, poi, i casi di ricusazione aggiuntivi di cui al comma 6 dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006, stabilendosi che non può essere nominato arbitro chi, in qualsiasi modo, abbia espresso un giudizio o un parere sull’oggetto della controversia, anche ai sensi dell’art. 240 in tema di accordo bonario.

3.3. La procedura arbitrale.

Quanto, poi, alle novità più propriamente procedurali, la novella procede all’integrale riscrittura dei commi 9 e 10 ed all’abrogazione del comma 11 dell’art. 241 del c.d. Codice degli appalti pubblici.

In primo luogo, con modifica da salutare con assoluto favore, si prevede che il lodo si ha per pronunciato con l’ultima sottoscrizione, anziché con il deposito presso la camera arbitrale per i contratti pubblici, alla cui effettuazione viene subordinata, in ogni caso, l’efficacia del lodo[10].

La previsione di cui al comma 11, oggi abrogato, viene, poi, trasfusa nello stesso comma 9 attraverso alcune puntualizzazioni dell’originaria formulazione.

Si specifica, infatti, che il versamento di una somma pari all’uno per mille del valore della controversia – da effettuarsi non più all’atto del deposito del lodo, bensì entro quindi giorni dalla sua pronuncia -, sebbene debba essere curato dagli arbitri, è, in ogni caso, a carico delle parti. L’abrogato comma 11 si limitava a stabilire che il versamento della somma in questione dovesse avvenire «a cura degli arbitri», formula, questa, in virtù della quale si sarebbe potuto sostenere che l’uno per mille del valore della controversia andasse sottratto al compenso degli arbitrati.

Particolarmente innovativa è, poi, la disciplina che il nuovo comma 10 dell’art. 241 detta in tema di deposito del lodo presso la camera arbitrale.

Tale adempimento non viene più sottoposto al rispetto di alcun termine, essendosi eliminato quello di dieci giorni, decorrente dalla data dell’ultima sottoscrizione, contemplato dall’originaria versione del comma 10.

Tuttavia, il deposito del lodo presso la camera arbitrale diviene condizione imprescindibile per il deposito dello stesso ai sensi dell’art. 825 c.p.c.: pertanto, la parte che intende fare eseguire il lodo, per proporre la relativa istanza, dovrà averlo, preventivamente, depositato presso la camera arbitrale per i contratti pubblici.

Si specifica, infine, che la necessità di dar seguito agli adempimenti di cui al citato art. 825 c.p.c. abilita la parte ad ottenere, dalla camera arbitrale, la restituzione del rispettivo originale, con attestazione dell’avvenuto deposito presso la stessa.

3.4. Il compenso degli arbitri.

Di non poco conto, soprattutto in ordine alla concreta “appetibilità” della funzione di arbitrato, risultano le novità riguardanti il compenso del collegio arbitrale.

Preliminarmente, si puntualizza che la determinazione del valore della controversia ed il compenso degli arbitri siano determinati nel lodo ovvero con separata ordinanza: la versione precedente del comma 12 dell’art. 241 nulla diceva al riguardo.

Viene stabilito, inoltre, che il compenso per il collegio arbitrale, comprensivo dell’eventuale compenso per il segretario, non può comunque superare l’importo di centomila euro.

E’ questa una previsione conforme alla legge delega che, come visto, fra i criteri specifici dettati prevede proprio quello del contenimento dei costi del giudizio arbitrale (art. 44, comma 3, lett. m, n. 4, l. 88/2009).

Tuttavia, la soluzione di individuare un tetto massimo del compenso del collegio arbitrale mai superabile appare, ex se, irragionevole in quanto prescinde del tutto sia dal valore della relativa controversia, sia, soprattutto, dalla complessità delle questioni trattate, delle specifiche competenze utilizzate nonché dell’effettivo lavoro svolto dagli arbitri, aspetti, questi, che già secondo quanto previsto dal terzo periodo del comma 12 dell’art. 241, impediscono incrementi dei compensi massimi.

Inoltre, la denunciata irragionevolezza appare ancora più marcata qualora si ponga mente al fatto che la fissazione di un limite massimo valevole per tutti gli arbitrati rischia di andare a scapito degli arbitrati su controversie dal rilevante valore economico. Ed invero, stante l’assenza di prescrizioni circa i criteri che gli arbitri devono seguire per la determinazione del loro compenso, atteso che il legislatore si limita a prevedere esclusivamente un suo limite massimo, è facile immaginare che gli arbitri delle procedure arbitrali dal valore economico più modesto ben potranno liquidare i propri compensi nei valori massimi stabiliti dal D.M. 398/2000, così riducendo, se non proprio azzerando, gli effetti virtuosi dell’introduzione del tetto di centomila euro[11].

Preferibile sarebbe stato, pertanto, imporre la determinazione del compenso del collegio arbitrale attraverso l’utilizzo dei soli compensi minimi ovvero, a tutto concedere, di tali compensi minimi abbattuti di una data percentuale.

L’introduzione di un tetto massimo per il compenso degli arbitri riguarda anche i giudizi arbitrali in cui il presidente sia stato nominato dalla camera arbitrale, ai quali, ai sensi del novellato comma 5 dell’art. 243 del d.lgs. 163/2006, si applicano le disposizioni di cui all’art. 241, comma 12, secondo, terzo, quarto e quinto periodo.

Al fine di razionalizzare, più che di contenere, le spese del giudizio arbitrale imputabili all’eventuale consulente tecnico o ad altro ausiliario, il nuovo comma 13 dell’art. 241 prevede che il relativo compenso sia liquidato, dal collegio arbitrale, ai sensi degli articoli 49 e 50 del d.p.r. 115/2002, nella misura derivante dall’applicazione delle tabelle ivi previste (comma 13).

La previsione si applica anche agli arbitrati in cui il presidente sia nominato dalla camera arbitrale (art. 243, comma 9. d.lgs. 163/06).

In tale tipologia di giudizio arbitrale, con l’evidente obiettivo di contenimento dei relativi costi, la nomina del segretario del collegio arbitrale, prima obbligatoria, viene circoscritta ai soli casi di necessità (art. 243, comma 7, d.lgs. 163/06).

Con previsione che nulla ha a che vedere con l’obiettivo del contenimento dei costi del giudizio arbitrale, il legislatore delegato priva l’ordinanza di liquidazione del compenso e delle spese arbitrali, nonché del compenso e delle spese per la consulenza tecnica, della natura di titolo esecutivo, assegnandole la ben più modesta veste di titolo per l’ingiunzione di cui all’art. 633 c.p.c..

La novità, proprio in quanto incapace di determinare alcuna riduzione dei costi delle procedure arbitrali, appare ispirata ad una incomprensibile volontà “punitiva” degli arbitri, quasi che su gli stessi, nonostante le numerose e rigide cause di incompatibilità, gravi una sorta di “peccato originale” che rende la decisione sui loro compensi non meritevole di acquisire valore di titolo esecutivo.

La soluzione accolta dall’intervento novellatore, in ogni caso, determina una irragionevole asimmetria, di difficile giustificazione, rispetto all’arbitrato “ordinario”, atteso che, ai sensi dell’art. 814, comma 3, c.p.c., l’ordinanza con cui gli arbitri provvedono alla liquidazione delle spese e dell’onorario è titolo esecutivo.

Per concludere la rassegna delle novità riguardanti le spese del giudizio arbitrale ex art. 241 del d.lgs. 163/2006, occorre segnalare l’introduzione, nello stesso art. 241, del comma 12-bis in applicazione del quale, fatta salva la facoltà di compensazione delle spese di lite secondo i presupposti dettati dall’art. 92, comma 2, c.p.c., il collegio arbitrale, se accoglie solo in parte la domanda, ha l’obbligo di compensare le spese del giudizio in proporzione al rapporto tra il valore della domanda e quello dell’accoglimento.

3.5. L’impugnazione del lodo.

In tema di impugnazione del lodo arbitrale, la legge 88/2009 delegava il Governo a prevedere misure acceleratorie del relativo giudizio (art. 44, comma 3, lett. m, n. 5, l. 88/2009).

La legge delega, in realtà, va ben oltre l’obiettivo fissato dal legislatore delegante, dettando, attraverso l’introduzione dei commi 15-bis e 15-ter dell’art. 241 del d.lgs. 163/2006, una vera e propria disciplina - speciale rispetto a quella del codice di rito -, del giudizio di impugnazione di un lodo reso a conclusione di un giudizio arbitrale disciplinato dallo stesso art. 241.

Senza che alcun criterio in tal senso sia rintracciabile nell’art. 44 della l. 88/2009, l’intervento novellatore procede, in primo luogo, ad ampliare i motivi di impugnazione del lodo.

Ai sensi del comma 15-bis dell’art. 241, il lodo, oltre che per motivi di nullità, può essere impugnato anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia.

Giova, al riguardo, ricordare che i motivi di nullità richiamati dal comma 15-bis non si esauriscono in quelli indicati nell’art. 829 c.p.c., atteso che, come visto, la nuova versione del comma 5 dell’art. 241 sanziona con la nullità del lodo la violazione dei criteri dettati per la scelta del presidente del collegio arbitrale.

La possibilità di impugnare il lodo anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia rappresenta una novità da salutare con assoluto favore atteso che amplia le possibilità di tutela della parte soccombente.

La previsione è in linea con la disciplina generale di cui all’art. 829 c.p.c. che, al secondo comma, ammette l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia soltanto se espressamente disposta dalle parti o dalla legge.

In piena adesione al criterio acceleratorio dettato dalla delega, si stabilisce una drastica riduzione del c.d. termine lungo di impugnazione del lodo: in luogo di quello generale di un anno dalla data dell’ultima sottoscrizione (art. 828, c. 2, c.p.c.), si prevede il termine di centottanta giorni dal deposito del lodo presso la camera arbitrale (art. 241, comma 15-bis, d.lgs. 163/06).

La disposizione, tuttavia, non è di facile applicazione.

Si è già detto che il nuovo comma 10 dell’art. 241 non prevede più alcun termine per il deposito del lodo, deposito che, ai sensi del precedente comma 9, si atteggia, oggi, quale mera condizione di efficacia del lodo medesimo.

Ne discende, pertanto, che la parte soccombente, in mancanza di comunicazione del deposito da parte della camera arbitrale – comunicazione non contemplata da alcuna disposizione -, non è in grado di conoscere la decorrenza del termine c.d. lungo di impugnazione, se non a costo di un defatigante controllo quotidiano presso la camera stessa da avviare il giorno seguente alla scadenza del termine per la pronuncia del lodo medesimo.

Pertanto, il meccanismo tracciato per l’impugnazione del lodo in assenza di sua notifica appare lesivo del diritto di difesa, lesività che, al contrario, non si sarebbe verificata qualora la decorrenza del c.d. termine lungo fosse stata ancorata non già al deposito del lodo, bensì alla sua comunicazione alle parti a cura della camera arbitrale[12].

La novella, inoltre, detta una disciplina speciale in ordine al potere della corte d’appello di sospendere l’efficacia del lodo.

In primo luogo, affinché il giudice dell’impugnazione possa accogliere la domanda di sospensione dell’esecutività del lodo si richiede la sussistenza di gravi e fondati motivi.

Ciò a differenza di quanto previsto, in generale, dall’art. 830, comma 4, c.p.c. che, quanto meno nel suo tenore letterale, esige la ricorrenza, soltanto, di gravi motivi.

Il richiamo espresso al presupposto del fumus boni iuris è, in ogni caso, conforme alla disciplina dettata dall’art. 283 c.p.c. sul potere del giudice d’appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata.

Quanto ai profili procedurali, si opera un rinvio “secco” all’art. 351 c.p.c..

Pertanto, si potrà invocare una sospensione collegiale dell’efficacia del lodo, ovvero, se ricorrono giusti motivi di urgenza, monocratica, sottoposta a successivo vaglio del collegio.

Con novità di assoluto rilievo, si prevede che il collegio, quando accoglie la domanda di sospensione dell’efficacia esecutiva del lodo, ovvero conferma il provvedimento di sospensione presidenziale, deve verificare se il giudizio è in condizione di essere definito.

Se tale verifica dà esito positivo, il collegio, fatte precisare le conclusioni, ordina la discussione orale nella stessa udienza o camera di consiglio, ovvero in una udienza da tenersi entro novanta giorni dall’ordinanza di sospensione in cui pronunzierà sentenza ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c..

Al contrario, qualora il giudizio non sia in condizione di essere definito essendo all’uopo necessari indispensabili incombenti istruttori, il collegio provvede su di essi con la stessa ordinanza di sospensione, orinandone l’assunzione in un’udienza successiva di non oltre novanta giorni.

Esaurita l’istruttoria, il collegio provvede con le “accelerate” modalità di decisione di cui innanzi.

E’ di palmare evidenza che, con il rito appena ripercorso, il legislatore della novella si sia ispirato agli istituti del processo amministrativo della decisione immediata e del rito accelerato ex art. 23-bis l. Tar.

In primo luogo, al pari di quanto disposto dall’art. 21, comma 10, della l. Tar, si prevede che il collegio, chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare, possa decidere anche il merito della controversia.

Tuttavia, la decisione immediata contemplata dal comma 15-ter dell’art. 241 del d.lgs. 163/06 presuppone l’accoglimento della domanda di sospensione, e non soltanto la circostanza che il collegio sia investito della decisione della domanda cautelare, così come previsto dall’art. 21, comma 10, della l. Tar.

Pertanto, mentre il giudice amministrativo potrà decidere il merito a prescindere da qualsivoglia delibazione sulla domanda cautelare, la corte d’appello, adita per l’impugnazione di un lodo emesso a conclusione di un arbitrato disciplinato dall’art. 241 d.lgs. 163/2010, potrà definire immediatamente il relativo giudizio solo in caso di accoglimento della domanda di sospensione della sua esecutività.

In secondo luogo, al pari di quanto disposto dall’art. 23-bis, comma 3, l. Tar, si stabilisce che l’accoglimento della domanda di sospensione, ove avvenga a seguito dello scioglimento di una riserva, comporta una fissazione ravvicinata dell’udienza in cui la controversia passerà in decisione.

3.6. Conclusioni.

A conclusione di queste prime riflessioni sulle novità in tema di arbitrato ex art. 241 d.lgs. 163/2006, occorre domandarsi se la disciplina brevemente ripercorsa dia o meno attuazione alla legge delega?

La risposta positiva si impone per i criteri sub nn. 3, 4, e 5), del comma 3, dell’art. 44, l. 88/2009, che, come visto, impongono l’indicazione della eventuale clausola compromissoria sin dall’atto indittivo della gara, il contenimento dei costi del giudizio arbitrale e l’accelerazione del processo di impugnazione del lodo.

Al contrario, completamente disatteso risulta il criterio di cui al punto 2) della disposizione appena citata, criterio finalizzato a prevedere l’arbitrato come ordinario rimedio alternativo al giudizio civile.

Ed invero, non sembra che la novella rechi un solo intervento capace di generalizzare la deferibilità ad arbitri delle controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, così venendosi a tradire quello che, ad avviso di chi scrive, rappresentava l’obiettivo principale posto al governo dalla legge delega.



[1] Per una puntuale ed attenta ricostruzione dell’istituto dell’arbitrato in tema di lavori pubblici si veda, per tutti, L.M. Delfino, La tela di Penelope dell’arbitrato delle opere pubbliche. Il decreto Legislativo 20 marzo 2010 n. 53: Ulisse non è ancora giunto ad Itaca!, in “Filodiritto” (https://www.filodiritto.com).

[2] Ai sensi dell’art. 15, comma 6, del d.lgs. 53/2010, «la disciplina introdotta dagli articoli 4 e 5 si applica ai bandi, avvisi di gara e inviti pubblicati successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, nonché ai contratti aggiudicati sulla base di essi e ai relativi giudizi arbitrali».

[3] Cfr. R. De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentato, Milano, 2008, 1468, che ricostruisce l’istituto dell’accordo bonario come «procedura di definizione precontenziosa, in forma sostanzialmente transattiva riguarda[nte] solo le controversie di natura economica che insorgano in sede di esecuzione dell’appalto e, e dunque solo controversie in materia di diritti soggettivi».

[4] O. Forlenza, L’arbitrato conquista procedure semplificate, in Guida al Diritto, 2010, n. 18, 80-81.

[5] Cfr. G. De Marzo, Collaudo dei lavori, in L. Carbone – F. Caringella – G. De Marzo (a cura di), L’attuazione della legge quadro sui lavori pubblici, Milano, 2000, 758.

[6] R. De Nictolis, op. cit., 1480.

[7] Come osservato da O. Forlenza, op. cit., 80, «la natura giuridica della commissione è dubbia. Per un verso, non sembrerebbe possibile attribuirle la natura di organo straordinario dell’amministrazione, attesa la sua composizione e il procedimento per addivenirvi; per altro verso, essa, non costituendo collegio arbitrale, sembrerebbe comunque inserirsi in una più ampia procedura amministrativa contenziosa. Ad ogni buon conto, essa, in considerazione della natura dei suoi componenti, della modalità della loro designazione, dei poteri dei quali è o può essere investita, è sicuramente molto vicina alla figura del collegio arbitrale, pur non potendosi definire tale».

[8] Nello stesso senso L.M. Delfino, op. cit., 15-16.

[9] In senso conforme L.M. Delfino, op. cit., 15.

[10] Si veda, al riguardo, L.M. Delfino, op. cit., 15, che ha attentamente rilevato come la previsione in questione presenti, in ogni caso, «… un sostanziale spaccato di differenziazione rispetto alla disciplina dell’arbitrato prevista dal codice di rito, che, invece, contempla che il lodo consegua efficacia di sentenza a far tempo dall’ultima sua sottoscrizione».

[11] Nello stesso senso L.M. Delfino, op. cit., 16, il quale parla di vera e propria elusione degli intenti e delle finalità moralizzatrici che hanno ispirato la scelta della individuazione del tetto massimo in centomila euro.

[12] Nello stesso senso L.M. Delfino, op. cit., 16, che auspica un intervento correttivo del legislatore «… che definitivamente provveda ad agganciare il ricordato termine lungo, piuttosto che al criterio della conoscenza tout court, al più ragionevole criterio della comunicazione della decisione arbitrale alle parti da effettuarsi sempre a cura della Camera arbitrale per i contratti pubblici».