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La clausola risolutiva espressa nei contratti di leasing: necessaria una revisione critica dell’orientamento giurisprudenziale tradizionale?

La recente pronuncia della Suprema Corte n. 888/2014 ha riportato l’attenzione di molti giuristi sulla problematica inerente le clausole risolutive tipicamente contenute nei contratti di leasing, ed in particolare sul possibile contrasto con l’articolo 1526 Codice Civile.

Diversi operatori del settore hanno semplicisticamente considerato questa sentenza come pietra tombale e definitiva su tale questione, a conferma dell’applicabilità in via analogica dell’articolo 1526 Codice Civile ai leasing traslativi (si vedano ad esempio IlCaso.it http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/civ.php?id_cont=9944.php; SOS Banche http://sosbanche.wordpress.com/2014/03/11/sentenza-di-cassazione-n-888-del-17-gennaio-2014). A ben vedere invece la Cassazione dice molto più, poiché prende in considerazione una clausola risolutiva differente rispetto a quelle affrontate in passato, e oggi molto diffusa nelle prassi delle finanziarie: la Corte afferma la necessità di una revisione critica dell’orientamento giurisprudenziale formatosi negli anni, e riconosce che l’applicazione dell’articolo 1526 Codice Civile va operata “con gli adeguamenti e i temperamenti del caso”.

Per comprendere meglio i termini della questione, si rendono anzitutto necessarie alcune premesse di carattere normativo.

Come noto, non è presente nel nostro ordinamento una regolamentazione organica del contratto di leasing, anche se esso è espressamente contemplato da diverse leggi speciali (tra le più importanti il Testo Unico in materia Bancaria e Creditizia e la Legge Fallimentare). Cronologicamente la prima definizione di tale istituto, ribattezzato locazione finanziaria, è stata fornita dalla Legge n. 183/76 sugli interventi straordinari nel Mezzogiorno, nella quale si legge all’articolo 17 che “per operazioni di locazione finanziaria si intendono le operazioni di locazione di beni mobili e immobili, acquistati o fatti costruire dal locatore, su scelta e indicazione del conduttore, che ne assume tutti  i rischi, e con facoltà per quest'ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine  della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito”.

Si tratta dunque di un contratto atipico, assimilabile in parte alla locazione ordinaria, in parte alla vendita con riserva di proprietà, e per altri versi ancora al mutuo. La causa di finanziamento di tale contratto è oggi largamente riconosciuta, essendo esso diretto a far conseguire ad una parte (utilizzatore) la disponibilità di un bene mediante il prestito di un capitale effettuato dall’altra parte (concedente), dietro pagamento periodico di un canone: questo canone serve a restituire il capitale anticipato dal concedente, non è il versamento periodico del prezzo d’acquisto come nella vendita con riserva di proprietà, anche perché l’acquisto finale è soltanto eventuale e vincolato all’esercizio del diritto di opzione (cfr. Cassazione Civile n. 574/2005).

Come per tutti i contratti non espressamente disciplinati dal Codice, è necessario domandarsi alla disciplina di quale contratto nominato fare riferimento per colmare eventuali lacune nella regolamentazione negoziale.

A tal proposito va ricordato come secondo Dottrina e Giurisprudenza siano due le principali tipologie di leasing: una è il leasing c.d. di godimento, che ha ad oggetto beni destinati a divenire tecnologicamente obsoleti o a perdere valore economico in breve tempo; in tali casi la durata del contratto corrisponde tendenzialmente alla durata di vita del bene, pertanto l’acquisto di quest’ultimo alla scadenza del contratto da parte dell’utilizzatore è puramente eventuale.

Diverso è il caso del leasing c.d. traslativo, il cui oggetto è un bene destinato a conservare un notevole valore alla scadenza del contratto: in tale ipotesi l’interesse dell’utilizzatore è presumibilmente quello di acquistare la proprietà del bene esercitando l’opzione d’acquisto dopo aver pagato tutti i canoni pattuiti.

Tale distinzione è stata ribadita più volte dalla Suprema Corte, la quale ha avuto modo di confermare che “ricorre la figura del leasing di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e a fronte di canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell'uso dei beni stessi; è invece configurabile il leasing traslativo allorché la pattuizione si riferisce a beni atti a conservare, a quella scadenza, un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione ed i canoni hanno la funzione di scontare anche una quota del prezzo di previsione del successivo acquisto” (Cassazione Civile n. 18195/2007).

Orbene, tale distinzione è importante perché vi sono state alcune pronunce giurisprudenziali in tema di risoluzione che hanno ritenuto applicabile al solo leasing traslativo, e non a quello di godimento, il disposto dell’articolo 1526 Codice Civile: esso prevede che, nel caso in cui la risoluzione avvenga per l'inadempimento del compratore (nel leasing, utilizzatore), il venditore (nel leasing, concedente) sia tenuto a restituire le rate riscosse, ma abbia diritto a vedersi riconosciuto un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno. La spiegazione della diversa applicabilità della norma suddetta alle due fattispecie di locazione finanziaria va ricercata nel fatto che solo nel leasing traslativo l’interesse dell’utilizzatore è quello di divenire proprietario del bene alla scadenza del contratto, e i canoni quindi hanno la funzione di anticipazione rateizzata del prezzo d’acquisto (cfr. Cassazione Civile nn. 19287/2010, 73/2010, 19697/2008).

Il problema che si è posto nella pratica è che non solo si è ritenuto applicabile analogicamente l’articolo 1526 Codice Civile per colmare lacune nel regolamento negoziale, ma la Giurisprudenza ha anche affermato la natura inderogabile della disciplina di cui a detto articolo (cfr. ad es. Cassazione Civile n. 19732/2011): ciò quindi ha spesso comportato la dichiarazione di illegittimità, per contrasto con l’articolo 1526 Codice Civile, delle clausole risolutive espresse contenute nei contratti di leasing che potevano essere sbilanciate da un punto di vista economico a favore del concedente.

In particolare, quasi tutte le società esercenti il leasing in Italia adottavano nei primi tempi una clausola risolutiva chiamata, nel gergo delle finanziarie, “scaduto + scadere + bene”: essa prevedeva che in caso di risoluzione per l’inadempimento dell’utilizzatore, quest’ultimo fosse tenuto a pagare tutte le somme dovute per canoni scaduti e non soddisfatti, a versare a titolo di penale i canoni non ancora scaduti e il prezzo del riscatto, nonché a restituire il bene. Tale clausola, evidentemente, determinava un ingiustificato arricchimento del concedente, in quanto in molti casi quest’ultimo conseguiva più di quanto avrebbe avuto diritto di ottenere nell’ipotesi di regolare adempimento dell’utilizzatore. Questo meccanismo contrastava inoltre col divieto di cui all’articolo 1383 Codice Civile (“il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo”), norma che si basa sullo stesso principio su cui è fondato l’articolo 1526.

A seguito dei primi arresti giurisprudenziali quindi molte finanziarie esercenti il leasing hanno cominciato ad adottare clausole risolutive più trasparenti, denominate in gergo “scaduto + scadere – bene”: esse prevedono, in caso di risoluzione, il pagamento di tutti i canoni maturati nonché di quelli maturandi sino al naturale termine del rapporto, riscatto compreso, ma anche il diritto dell’utilizzatore inadempiente a ottenere quanto la concedente percepirà dalla rivendita o reimpiego in leasing del bene. In tal caso non vi è alcun ingiusto arricchimento per la concedente, perché una volta detratto il valore dell’immobile, l’acquisizione di tutte le rate del leasing, scadute e a scadere, di fatto configura solamente la restituzione del capitale oggetto di finanziamento, degli interessi convenuti, delle spese e degli utili dell’operazione finanziaria, secondo lo schema tipico del contratto di leasing. La concedente in altre parole non consegue in tal modo più di quanto avrebbe avuto diritto di ottenere in caso di regolare adempimento dell’utilizzatore.

Tale meccanismo è d’altronde conforme con quanto previsto all’articolo 13 della Convenzione Unidroit di Ottawa del 26/5/1988 sul leasing finanziario internazionale, secondo il quale la penale prevista in caso di inadempimento dell’utilizzatore deve essere tale “da porre il concedente nella stessa situazione nella quale egli si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto al contratto di leasing”.

Orbene, come detto in apertura, la recente sentenza della Suprema Corte n. 888/2014 ha preso nuovamente in considerazione la problematica in esame offrendo però uno spunto innovativo, in quanto oggetto della sua valutazione era una clausola del tipo “scaduto + scadere – bene”.

Sebbene nel caso concreto la Cassazione abbia stigmatizzato i termini della clausola, ponendo a carico del giudice del rinvio l’onere di valutare se la penale fosse manifestamente eccessiva, il motivo di ciò va ricercato nell’ “estrema genericità” della clausola stessa, “la cui attuazione” era “rimessa alla piena discrezionalità della concedente quanto ai tempi, modalità e condizioni di vendita e quanto ai tempi e modalità con cui il corrispettivo dovrebbe essere riversato in favore dell’utilizzatore”.

Invero, i Giudici non si sono spinti sino a sostenere l’automatica nullità di questo meccanismo, ma hanno anzi aperto uno spiraglio rispetto al loro solito orientamento, sancendo la necessità che “sia specificamente attribuito all’utilizzatore il diritto di recuperare proprietà e disponibilità del bene oggetto del leasing, in termini prestabiliti e precisi, oppure il diritto di imputare il valore dell’immobile alla somma dovuta in restituzione delle rate a scadere, ove le parti così preferiscano”.

In altre parole, con questa sentenza la Suprema Corte ha stabilito l’esigenza di rivedere l’orientamento che prevedeva la semplicistica applicabilità tout court dell’articolo 1526 Codice Civile, affermando in astratto la legittimità delle più recenti clausole “scaduto + scadere – bene”, purché esse non prevedano ampia discrezionalità e obblighi soltanto generici a carico della concedente.

La recente pronuncia della Suprema Corte n. 888/2014 ha riportato l’attenzione di molti giuristi sulla problematica inerente le clausole risolutive tipicamente contenute nei contratti di leasing, ed in particolare sul possibile contrasto con l’articolo 1526 Codice Civile.

Diversi operatori del settore hanno semplicisticamente considerato questa sentenza come pietra tombale e definitiva su tale questione, a conferma dell’applicabilità in via analogica dell’articolo 1526 Codice Civile ai leasing traslativi (si vedano ad esempio IlCaso.it http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/civ.php?id_cont=9944.php; SOS Banche http://sosbanche.wordpress.com/2014/03/11/sentenza-di-cassazione-n-888-del-17-gennaio-2014). A ben vedere invece la Cassazione dice molto più, poiché prende in considerazione una clausola risolutiva differente rispetto a quelle affrontate in passato, e oggi molto diffusa nelle prassi delle finanziarie: la Corte afferma la necessità di una revisione critica dell’orientamento giurisprudenziale formatosi negli anni, e riconosce che l’applicazione dell’articolo 1526 Codice Civile va operata “con gli adeguamenti e i temperamenti del caso”.

Per comprendere meglio i termini della questione, si rendono anzitutto necessarie alcune premesse di carattere normativo.

Come noto, non è presente nel nostro ordinamento una regolamentazione organica del contratto di leasing, anche se esso è espressamente contemplato da diverse leggi speciali (tra le più importanti il Testo Unico in materia Bancaria e Creditizia e la Legge Fallimentare). Cronologicamente la prima definizione di tale istituto, ribattezzato locazione finanziaria, è stata fornita dalla Legge n. 183/76 sugli interventi straordinari nel Mezzogiorno, nella quale si legge all’articolo 17 che “per operazioni di locazione finanziaria si intendono le operazioni di locazione di beni mobili e immobili, acquistati o fatti costruire dal locatore, su scelta e indicazione del conduttore, che ne assume tutti  i rischi, e con facoltà per quest'ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine  della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito”.

Si tratta dunque di un contratto atipico, assimilabile in parte alla locazione ordinaria, in parte alla vendita con riserva di proprietà, e per altri versi ancora al mutuo. La causa di finanziamento di tale contratto è oggi largamente riconosciuta, essendo esso diretto a far conseguire ad una parte (utilizzatore) la disponibilità di un bene mediante il prestito di un capitale effettuato dall’altra parte (concedente), dietro pagamento periodico di un canone: questo canone serve a restituire il capitale anticipato dal concedente, non è il versamento periodico del prezzo d’acquisto come nella vendita con riserva di proprietà, anche perché l’acquisto finale è soltanto eventuale e vincolato all’esercizio del diritto di opzione (cfr. Cassazione Civile n. 574/2005).

Come per tutti i contratti non espressamente disciplinati dal Codice, è necessario domandarsi alla disciplina di quale contratto nominato fare riferimento per colmare eventuali lacune nella regolamentazione negoziale.

A tal proposito va ricordato come secondo Dottrina e Giurisprudenza siano due le principali tipologie di leasing: una è il leasing c.d. di godimento, che ha ad oggetto beni destinati a divenire tecnologicamente obsoleti o a perdere valore economico in breve tempo; in tali casi la durata del contratto corrisponde tendenzialmente alla durata di vita del bene, pertanto l’acquisto di quest’ultimo alla scadenza del contratto da parte dell’utilizzatore è puramente eventuale.

Diverso è il caso del leasing c.d. traslativo, il cui oggetto è un bene destinato a conservare un notevole valore alla scadenza del contratto: in tale ipotesi l’interesse dell’utilizzatore è presumibilmente quello di acquistare la proprietà del bene esercitando l’opzione d’acquisto dopo aver pagato tutti i canoni pattuiti.

Tale distinzione è stata ribadita più volte dalla Suprema Corte, la quale ha avuto modo di confermare che “ricorre la figura del leasing di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e a fronte di canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell'uso dei beni stessi; è invece configurabile il leasing traslativo allorché la pattuizione si riferisce a beni atti a conservare, a quella scadenza, un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione ed i canoni hanno la funzione di scontare anche una quota del prezzo di previsione del successivo acquisto” (Cassazione Civile n. 18195/2007).

Orbene, tale distinzione è importante perché vi sono state alcune pronunce giurisprudenziali in tema di risoluzione che hanno ritenuto applicabile al solo leasing traslativo, e non a quello di godimento, il disposto dell’articolo 1526 Codice Civile: esso prevede che, nel caso in cui la risoluzione avvenga per l'inadempimento del compratore (nel leasing, utilizzatore), il venditore (nel leasing, concedente) sia tenuto a restituire le rate riscosse, ma abbia diritto a vedersi riconosciuto un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno. La spiegazione della diversa applicabilità della norma suddetta alle due fattispecie di locazione finanziaria va ricercata nel fatto che solo nel leasing traslativo l’interesse dell’utilizzatore è quello di divenire proprietario del bene alla scadenza del contratto, e i canoni quindi hanno la funzione di anticipazione rateizzata del prezzo d’acquisto (cfr. Cassazione Civile nn. 19287/2010, 73/2010, 19697/2008).

Il problema che si è posto nella pratica è che non solo si è ritenuto applicabile analogicamente l’articolo 1526 Codice Civile per colmare lacune nel regolamento negoziale, ma la Giurisprudenza ha anche affermato la natura inderogabile della disciplina di cui a detto articolo (cfr. ad es. Cassazione Civile n. 19732/2011): ciò quindi ha spesso comportato la dichiarazione di illegittimità, per contrasto con l’articolo 1526 Codice Civile, delle clausole risolutive espresse contenute nei contratti di leasing che potevano essere sbilanciate da un punto di vista economico a favore del concedente.

In particolare, quasi tutte le società esercenti il leasing in Italia adottavano nei primi tempi una clausola risolutiva chiamata, nel gergo delle finanziarie, “scaduto + scadere + bene”: essa prevedeva che in caso di risoluzione per l’inadempimento dell’utilizzatore, quest’ultimo fosse tenuto a pagare tutte le somme dovute per canoni scaduti e non soddisfatti, a versare a titolo di penale i canoni non ancora scaduti e il prezzo del riscatto, nonché a restituire il bene. Tale clausola, evidentemente, determinava un ingiustificato arricchimento del concedente, in quanto in molti casi quest’ultimo conseguiva più di quanto avrebbe avuto diritto di ottenere nell’ipotesi di regolare adempimento dell’utilizzatore. Questo meccanismo contrastava inoltre col divieto di cui all’articolo 1383 Codice Civile (“il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo”), norma che si basa sullo stesso principio su cui è fondato l’articolo 1526.

A seguito dei primi arresti giurisprudenziali quindi molte finanziarie esercenti il leasing hanno cominciato ad adottare clausole risolutive più trasparenti, denominate in gergo “scaduto + scadere – bene”: esse prevedono, in caso di risoluzione, il pagamento di tutti i canoni maturati nonché di quelli maturandi sino al naturale termine del rapporto, riscatto compreso, ma anche il diritto dell’utilizzatore inadempiente a ottenere quanto la concedente percepirà dalla rivendita o reimpiego in leasing del bene. In tal caso non vi è alcun ingiusto arricchimento per la concedente, perché una volta detratto il valore dell’immobile, l’acquisizione di tutte le rate del leasing, scadute e a scadere, di fatto configura solamente la restituzione del capitale oggetto di finanziamento, degli interessi convenuti, delle spese e degli utili dell’operazione finanziaria, secondo lo schema tipico del contratto di leasing. La concedente in altre parole non consegue in tal modo più di quanto avrebbe avuto diritto di ottenere in caso di regolare adempimento dell’utilizzatore.

Tale meccanismo è d’altronde conforme con quanto previsto all’articolo 13 della Convenzione Unidroit di Ottawa del 26/5/1988 sul leasing finanziario internazionale, secondo il quale la penale prevista in caso di inadempimento dell’utilizzatore deve essere tale “da porre il concedente nella stessa situazione nella quale egli si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto al contratto di leasing”.

Orbene, come detto in apertura, la recente sentenza della Suprema Corte n. 888/2014 ha preso nuovamente in considerazione la problematica in esame offrendo però uno spunto innovativo, in quanto oggetto della sua valutazione era una clausola del tipo “scaduto + scadere – bene”.

Sebbene nel caso concreto la Cassazione abbia stigmatizzato i termini della clausola, ponendo a carico del giudice del rinvio l’onere di valutare se la penale fosse manifestamente eccessiva, il motivo di ciò va ricercato nell’ “estrema genericità” della clausola stessa, “la cui attuazione” era “rimessa alla piena discrezionalità della concedente quanto ai tempi, modalità e condizioni di vendita e quanto ai tempi e modalità con cui il corrispettivo dovrebbe essere riversato in favore dell’utilizzatore”.

Invero, i Giudici non si sono spinti sino a sostenere l’automatica nullità di questo meccanismo, ma hanno anzi aperto uno spiraglio rispetto al loro solito orientamento, sancendo la necessità che “sia specificamente attribuito all’utilizzatore il diritto di recuperare proprietà e disponibilità del bene oggetto del leasing, in termini prestabiliti e precisi, oppure il diritto di imputare il valore dell’immobile alla somma dovuta in restituzione delle rate a scadere, ove le parti così preferiscano”.

In altre parole, con questa sentenza la Suprema Corte ha stabilito l’esigenza di rivedere l’orientamento che prevedeva la semplicistica applicabilità tout court dell’articolo 1526 Codice Civile, affermando in astratto la legittimità delle più recenti clausole “scaduto + scadere – bene”, purché esse non prevedano ampia discrezionalità e obblighi soltanto generici a carico della concedente.