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Costituzione, ordinamento giuridico, vaccinazioni: postscriptum

vaccino covid
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Tot capita tot sententiae dicevano con realismo gli antichi Romani come ce lo attestano sia Terenzio sia Cicerone. Non si può negare che molti sono gli aspetti che emergono – ed è bene che emergano – dalla considerazione delle questioni. Tutti meritano attenzione. Non tutte le soluzioni, però, sono da ritenere valide e quindi non tutte le soluzioni vanno accolte. La sentenza latina non deve indurre in errore; essa, cioè, non può essere considerata la premessa per l'accoglimento dello scetticismo radicale. In altre parole l'incertezza e, talora, lo sconcerto generati da pareri opposti non sono (e non devono essere) motivo per rinunciare a cercare «punti fermi» e interpretazioni oggettive. In breve: la babele concettuale che investe tutti i campi, anche quello legale e giuridico, non può essere pretesto per rinunciare all'impegno intellettuale e morale per individuare l'«oggettività delle cose».

Il problema investe attualmente una questione esistenziale e sociale particolarmente delicata: quella della (cosiddetta) vaccinazione obbligatoria, vale a dire imposta (eventualmente) per norma contro il COVID-19. Diremo più avanti le ragioni per le quali parliamo di «cosiddetta» vaccinazione. Gli argomenti, invece, per il legittimo uso dell'avverbio «eventualmente» emergeranno subito: contrariamente, infatti, all'opinione di alcuni autori i quali ritengono che la norma per rendere obbligatoria la vaccinazione anti COVID-19 sia da tempo in vigore, noi siamo di avviso radicalmente diverso.

Osserviamo innanzitutto che l'ampio e continuo dibattito su questa questione evidenzia non solamente la sua attualità ma anche la sua rilevanza per i diritti dell'individuo umano, siano essi naturali, costituzionali o, più in generale, «positivi», cioè rilevabili perché «posti» dall'ordinamento giuridico positivo dello Stato.

Noi ci siamo già soffermati su taluni aspetti della questione. In particolare con la Nota apparsa in questa rubrica lo scorso 17 agosto 2021. Ne abbiamo accennato anche altrove (per esempio nelle Note pubblicate in questa medesima rubrica in data 20 gennaio 2021, 20 luglio 2021, 24 settembre 2021). Riteniamo opportuno, però, ritornarvi soprattutto perché dopo la pubblicazione delle Note citate sono state proposte nuove «letture» del problema con riferimento alla normativa italiana vigente. Ci sembra opportuno considerarne due: una, che definiamo civilistico-giuslavoristica, l'altra che può essere considerata costituzionalistica. Entrambe, a nostro avviso, da «respingere» per le ragioni che appresso diremo.

Innanzitutto consideriamo la «lettura» civilistico-giuslavoristica. È stato sostenuto che per la vaccinazione obbligatoria contro il COVID-19 non servirebbe una norma ad hoc, essendo in vigore l'art. 2087 C.C., che – com'è noto – recita: «L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Sulla base di questa disposizione – si è detto – l’imprenditore avrebbe il potere di imporre nel caso de quo la vaccinazione anti COVID-19 al prestatore di lavoro. Non solamente, quindi, avrebbe la facoltà di chiedere l’esibizione del green pass al lavoratore dipendente. Potrebbe addirittura imporgli di vaccinarsi onde evitare la diffusione del contagio e al fine di tutelare la di lui salute.

La tesi non pare condivisibile per (almeno) i seguenti motivi: a) l’art. 2087 C.C. prescrive all’imprenditore di adottare misure idonee a tutelare la salute e la personalità morale del lavoratore nell’esercizio dell’impresa. Ciò significa che egli è tenuto a mettere in atto tutti quegli accorgimenti che sono necessari al fine di evitare incidenti sul lavoro (cosiddette misure di sicurezza). Per esempio è tenuto a predisporre impalcature idonee a evitare cadute in un cantiere edile, a pretendere la copertura della testa con caschi idonei ad evitare eventuali traumi, a predisporre impianti di aspirazione di gas nocivi alla salute all’interno dell’officina, etc. L’imprenditore sulla base della disposizione dell’art. 2087 C.C. non è tenuto ad adottare misure che servano ad evitare pericoli al di fuori o oltre quelli nei quali può incorrere il lavoratore prestando la sua opera all’interno dell’impresa. Così, per esempio, l’imprenditore non è tenuto a, né potrebbe, disporre circa l’alimentazione del prestatore di lavoro. Non potrebbe disporre divieti circa il fumo se questo fosse irrilevante per il rischio in cui può incorrere il prestatore di lavoro o altri lavoratori: potrebbe per esempio disporre il divieto di fumare all’addetto alla distribuzione della benzina o a chi lavora in una falegnameria, ma non potrebbe disporre lo stesso divieto a chi presta la propria opera come marmista o come muratore. Gli accorgimenti di cui parla l’art. 2087 C.C. riguardano l’organizzazione della sicurezza sul posto di lavoro. Non hanno altre finalità. Tanto meno quella della cura della salute in sé del lavoratore, che è di pertinenza personale. In altre parole l’art. 2087 C.C. non prescrive di adottare provvedimenti oltre l’esercizio dell’impresa e oltre quelle misure strettamente necessarie ad evitare rischi inerenti all’esercizio dell’impresa. L’imprenditore – insistiamo - non può e non deve andare oltre. Così, per esempio, non potrebbe imporre la vaccinazione antiinfluenzale ai propri dipendenti come non potrebbe disporre circa le loro ore si sonno. b) l’art. 2087 C.C. non autorizza l’imprenditore ad (tanto meno, quindi, gli prescrive di) imporre al prestatore di lavoro scelte personalissime, fra le quali rientrano gli interventi attivi sul suo corpo e, più in generale, sulla sua persona. Per questo, per esempio, sarebbe illegittima la pretesa dell’imprenditore di imporre la vaccinazione anti COVID-19 come sarebbe illegittima la richiesta a una prestatrice di lavoro di procedere all’aborto procurato. L’imprenditore al massimo può chiedere al prestatore di lavoro la prova di non essere colpito da malattie contagiose; prova che può essere data in forme diverse (tra l’altro molto più attendibili, come prove) rispetto alla vaccinazione.

Va aggiunta un’altra considerazione. La giurisprudenza non interpreta l’art. 2087 C.C. come fanno alcuni giuslavoristi. L’imprenditore, infatti, predisposte le misure di sicurezza e di vigilanza sull’osservanza delle stesse, non ha altri obblighi. La Corte di Cassazione sul punto è stata chiara. Essa ha stabilito, infatti, che l’obbligo dell’imprenditore «non si estende fino a comprendere quello di impedire comportamenti anomali ed imprevedibili posti in essere in violazione delle norme di sicurezza, limitandosi il suo contenuto alle […] misure […di sicurezza] e di vigilanza sull’osservanza delle stesse» (Sentenza n. 7052, 13 maggio 2001). Tanto meno l’obbligo dell’imprenditore è riferibile a scelte personali del prestatore d’opera riguardanti la di lui salute. Siamo, comunque, per quel che attiene al caso considerato dalla Corte di Cassazione con la citata Sentenza n. 7052/2001, in presenza di obblighi strettamente inerenti all’attività dell’impresa, la quale – attività – delimita il confine oltre il quale l’imprenditore né è tenuto né ha facoltà di andare. Più recentemente, poi, la giurisprudenza ha ritenuto che al datore di lavoro difetti il potere di imporre la vaccinazione anti COVID-19. Il Tribunale di Milano dice «in assenza di obbligo vaccinale generalizzato» (Sentenza n. 2316, 15 settembre 2021), omettendo di considerare con ciò altri aspetti particolarmente rilevanti. Con il che, comunque, - la cosa va sottolineata - si confuta l’interpretazione dell’art. 2087 C.C. a parer nostro erroneamente prospettata da taluni giuslavoristi e, simultaneamente, si sostiene la sua interpretazione consolidata. La disposizione dell’art. 2087 C.C., dunque, non sarebbe norma idonea per imporre la vaccinazione obbligatoria. A noi pare – lo abbiamo sostenuto nella Nota pubblicata in questa rubrica il 17 agosto 2021 – che, dopo la Sentenza della Corte Costituzionale n. 467/1991, nemmeno sulla base di una legge ordinaria si possa imporre la vaccinazione obbligatoria in assenza del consenso informato dell’interessato.

La «lettura» costituzionalistica. È singolare – lo premettiamo – che la Costituzione venga interpretata in maniera ondivaga e che il principio personalistico (per usare il termine caro a Livio Paladin) accolto nella Legge fondamentale della Repubblica italiana, sia usato a giustificazione di decisioni contrarie fra loro. Abbiamo appena richiamata la Sentenza della Corte Costituzionale n. 467/1991, la quale stabilì che, per ragioni di coscienza, il cittadino può legittimamente rivendicare il rispetto di sue decisioni che comportano l’inadempienza di doveri definiti inderogabili dalla Costituzione. In altre parole la Corte Costituzionale ha ritenuto principio, sovraordinato ad ogni altro principio, la coscienza individuale, la quale - si è affermato - è, a sua volta, principio costituzionalizzato. Come abbiamo sostenuto nella citata Nota pubblicata in questa rubrica il 17 agosto 2021, la Corte Costituzionale ha portato alle estreme conseguenze l’applicazione della «dottrina personalistica» contemporanea che - lo abbiamo ripetutamente sostenuto (cfr. D. CASTELLANO, L’ordine politico-giuridico «modulare» del personalismo contemporaneo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007; ID., Introduzione alla Filosofia della politica. Breve manuale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2020, pp. 193-206; ID., Il personalismo giuridico contemporaneo come impossibilità del diritto, in Personalismi o dignità della persona?, a cura di Samuele Cecotti, Verona, Fede e Cultura, 2021, pp. 155-167) - è una radicale affermazione dell’individualismo. D’altra parte, il Consiglio di Stato (che è tenuto ad applicare le Sentenze della Corte Costituzionale) ha recentemente (cfr. Sentenza n. 7045/2021) interpretato il principio personalistico come legittimante l’azione dello Stato a tutela della salute dell’individuo.

È vero che lo ha fatto sulla base di presupposti indiscutibili e applicando disposizioni vigenti (status giuridico dei ricorrenti, interessi legittimi in ballo, normativa ordinaria e speciale vigente, requisiti richiesti per l’espletamento delle mansioni). La citata Sentenza del Consiglio di Stato n. 7045/2021 si appella, comunque, – non potrebbe non farlo – anche a principî generali dell’ordinamento fra i quali quello personalistico. La conclusione, però, sembra essere esattamente contraria a quanto sostenuto, a questo proposito, in sede di Assemblea costituente. Sembra, inoltre, in parte difforme rispetto alla disposizione dell’art. 32 Cost., il quale riserva allo Stato le questioni della sanità. La salute, infatti, è da questo articolo definita diritto fondamentale dell’individuo, non dello Stato. Per quel che riguarda lo Stato, la salute è solamente suo interesse, rectius è interesse della collettività che non necessariamente è da leggersi come Stato.

Lo Stato è tenuto a garantire le cure agli indigenti, affinché questi possano curare le malattie e recuperare la salute. Esso, inoltre, deve farsi carico degli aspetti sanitari, perché gli individui possano mantenere o recuperare la salute. Lo Stato, pertanto, non è tenuto a tutelare la salute dei cittadini, se per tutela si intende l’insieme delle decisioni e delle gestioni in prima persona relative alla salute di ogni individuo. In altre parole lo Stato non ha e, quindi, non è legittimato ad usare poteri paternalistici.

La citata Sentenza del Consiglio di Stato n.7045/2021 non si sofferma su questi aspetti della questione. Cerca di risolvere il caso, oggetto di ricorso, sotto il profilo strettamente «amministrativistico», non andando ultra petitum (cioè non andando oltre quanto prospettato con il ricorso) ed evitando di sollevare la questione di legittimità costituzionale. Innanzitutto non considera, perciò, il problema della vaccinazione in termini generali ovvero di principio. Tanto che parla di «vaccinazione selettiva», conformemente all’art. 4 del D.L. n. 44/2021, vale a dire riservata, richiesta (e, forse, prescritta) al personale medico e paramedico e, comunque, a coloro che prestano la loro opera nelle strutture sanitarie. Considera, poi, il problema non sotto il profilo della legittimità dell’obbligazione della vaccinazione, né per il rilievo che essa assume per la salute dell’individuo, né per il suo rilievo sanitario (anche se questo, cacciato dalla porta rientra, poi, - come si dice – dalla finestra, inerendo alle condizioni di sicurezza dell’ambiente nel quale viene espletata la mansione; in questo caso e solamente sotto questo profilo può essere invocato anche l’art. 2087 C.C.).

Il Consiglio di Stato, infatti, valuta la questione della legittimità della richiesta della vaccinazione anti COVID-19 per quel che attiene ai requisiti necessari al corretto espletamento delle mansioni del personale medico e paramedico o del lavoro degli addetti all’amministrazione. Non debbono, pertanto, essere confuse le due questioni, né si devono sovrapporre le decisioni del Consiglio di Stato ad aspetti giuridici più generali. In altre parole il Consiglio di Stato (pur parlando di «personalismo») non intende «correggere» (cosa che sarebbe del resto illegale) le Sentenze della Corte Costituzionale che hanno efficacia erga omnes, né disapplicarle, né offrire indicazioni ermeneutiche di principio circa le rationes dell’ordinamento giuridico vigente. La Sentenza, infatti, non è impegno né teorico né teoretico: è frutto dell’applicazione delle norme vigenti per la soluzione del caso. Questo si sarebbe certamente potuto risolvere anche in altra maniera: imponendo, per esempio, i tamponi al personale medico, paramedico e a coloro che prestano la loro opera nelle strutture sanitarie; cosa che la Sentenza n. 7045/2021 del Consiglio di Stato nemmeno prende in considerazione, manifestando così un pregiudiziale e discutibile orientamento extra e pre-giuridico.

Il dibattito circa la legittimità dell’imposizione della vaccinazione anti COVID-19 si è recentemente ulteriormente animato. Autorevoli costituzionalisti vanno ripetendo che essa non viola affatto le disposizioni costituzionali; anzi, ne rappresenterebbe la loro applicazione. A tal fine portano generalmente le seguenti tre argomentazioni: a) essa sarebbe condizione per il rispetto degli altrui diritti; b) risponderebbe all’obbligo di solidarietà; c) sarebbe piena applicazione dell’art. 32 Cost.

Esaminiamo, sia pure brevemente, la prima argomentazione. Il rispetto dei diritti degli altri non richiede sacrificio, nemmeno parziale, dei propri diritti. La convivenza sociale, infatti, non richiede e non impone terapie né preventive (come la vaccinazione) né terapeutiche. Nessuno può lamentare violazione dei propri diritti se un suo simile rinuncia alle cure o rifiuta una vaccinazione. Né si può dire che il non vaccinato è di per sé veicolo di contagio. Chi è in salute non contagia nessuno. Limiti, pertanto, - si tratta di limiti, non di interventi! – possono eventualmente essere imposti solamente a chi è contagiato. È quello che avviene nel caso del COVID-19 imponendogli quarantene e isolamenti. Senza considerare che anche coloro che sono stati vaccinati possono trasmettere (e contrarre nuovamente) il COVID-19.

Taluni sostengono che ciò può avvenire addirittura con maggiore facilità rispetto ai non vaccinati. Il rispetto, comunque, impone – soprattutto se si accoglie la dottrina liberale (di cui il costituzionalismo è figlio), in particolare quella di Kant – di non oltrepassare la linea di confine della sfera privata. Il rispetto, quindi, non impone obblighi di fare, Impone solamente astensioni. Che senso ha, perciò, l’affermazione riportata secondo la quale la vaccinazione anti COVID-19 è condizione per il rispetto dei diritti altrui? Nessuno, si deve rispondere. A meno che non si intenda dire che essa offre garanzie per l’eliminazione totale della pandemia. Cosa impossibile come ha dimostrato e dimostra l’esperienza e soprattutto la scienza. Quindi pare priva di senso la prima argomentazione portata.

Veniamo alla seconda argomentazione. Se si usano le parole secondo il loro significato etimologico, va preso atto che «rispetto» e «solidarietà» sono cose diverse. «Rispetto», infatti, significa astensione da atti offensivi o lesivi nei confronti di altri. La «solidarietà», invece, è un atteggiamento generalmente spontaneo rispondente a una sostanziale convergenza di interessi, a condivisione di idee e di sentimenti. Giuridicamente, poi, la «solidarietà» è data dall’assunzione di obbligazioni a nome e per conto di altri obbligati, rectius coobbligati, nei confronti del creditore. In questo caso il rispetto dell’obbligazione è adempimento di un dovere. Non è, pertanto, non-interferenza nella sfera soggettiva di altri. Rilevano queste osservazioni per la questione che attiene alla vaccinazione anti COVID-19? Nulla, sotto un certo profilo, - ci sembra - poiché si tratta di cose radicalmente diverse che qualsiasi giurista dovrebbe conoscere adeguatamente. Rilevano, invece, sotto il profilo della convergenza e della condivisione le quali, però, non possono essere elementi fondativi del (presunto) diritto dello Stato a imporre la vaccinazione: l’interesse è protetto dal diritto ma non è suo elemento costitutivo. La condivisione, d’altra parte, non legittima di per sé le scelte. Se così fosse anche i crimini in taluni casi troverebbero giustificazione. Basterà richiamare la condivisione da parte del popolo e dei Parlamenti delle scelte di alcuni regimi politici. Per esempio del nazismo o dello stalinismo, ma anche quelle di talune contemporanee democrazie occidentali che hanno legalizzato l’aborto procurato.

È vero che la «solidarietà» può essere intesa ed usata come strumento dell’eguaglianza illuministica, la quale è la negazione dell’eguaglianza proporzionale e può essere via all’ingiustizia. Per facilitare il conseguimento di parte di queste finalità l’art. 2 Cost. afferma che la Repubblica (italiana) «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». È improprio, però, invocare l’art. 2 Cost. per la legittimazione della vaccinazione obbligatoria contro il COVID-19. Sia perché nulla hanno a che fare con la vaccinazione gli aspetti politici, economici e sociali della solidarietà, sia perché la solidarietà non può essere considerata principio e canone della convivenza sociale. La convivenza sociale postula piuttosto il rispetto della giustizia che è condizione del bene comune. Usarla come elemento per assicurare la tranquillità sociale (eliminando paure e difficoltà e imponendo il rispetto dell’ordine pubblico) porta (almeno virtualmente) a due errori: il primo è rappresentato dalla concezione secondo la quale lo Stato esisterebbe per evitare la guerra fratricida; il secondo dall’assunzione del bene comune come imposizione dell’ordine pubblico, di qualsiasi ordine reso effettivo dal potere sovrano.

Per quel che attiene alla terza argomentazione, osserviamo che l’imposizione della vaccinazione obbligatoria contro il COVID-19 può essere considerata applicazione della disposizione dell’art. 32 Cost. solamente se la vaccinazione medesima fosse garanzia di assenza di effetti collaterali importanti e di irrilevanti reazioni avverse. A questo proposito la giurisprudenza della Corte costituzionale è chiara e costante. La Corte costituzionale, infatti, si è ripetutamente pronunciata sulla questione «vaccinazioni obbligatorie». Essa ha osservato innanzitutto che la norma che imponesse l’obbligo della vaccinazione deve indicare «con la maggiore previsione possibile le complicanze derivabili dalla vaccinazione» medesima (Sentenza n. 258/1994). Inoltre, la Corte costituzionale con la successiva Sentenza n. 5/2018 ha stabilito che, in caso di vaccinazione obbligatoria, essa non deve incidere «negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo – dice la Sentenza citata - […] quelle conseguenze [che] appaiono normali e, pertanto, tollerabili». In caso contrario (cioè ove la vaccinazione comportasse reazioni avverse importanti) essa sarebbe una palese violazione dello stesso art. 32 Cost., essendo causa (possibile) di attentato alla salute dell’individuo umano. Nel caso, invece, fosse garanzia assoluta di soli effetti benefici, l’imposizione della vaccinazione potrebbe essere considerata operazione utile alla sanità, la quale è compito della Repubblica. Ci siamo già soffermasti sulla questione. Non richiamiamo gli argomenti addotti nelle precedenti Note. Quello che va aggiunto, concludendo, è il fatto (che la Corte costituzionale considera previsione imprescindibile) che la norma che imponesse l’obbligo della vaccinazione deve «prevedere la corresponsione di una equa indennità a favore del danneggiato» eventuale (Corte costituzionale, Sentenza n. 5/2018, la quale richiama analoghe disposizioni di precedenti Sentenze della medesima Corte). Trattasi di responsabilità aquiliana, rilevante, a nostro avviso, anche per quelle conseguenze definite normali e, perciò, tollerabili.

La questione, quindi, è più complicata di quanto diversi costituzionalisti ritengono, i cui pareri, comunque, sono irrilevanti per quel che attiene all’interpretazione della Costituzione in presenza di pronunciamenti ermeneutici della Corte costituzionale, la quale è la sola chiamata a custodire e interpretare la Costituzione.