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Costituzione, ordinamento giuridico, vaccinazioni

Natura, 23 maggio 2021
Ph. Francesca Russo / Natura, 23 maggio 2021

Reiteratamente ci siamo soffermati sulla «questione vaccinazioni»[1] sia pure considerando aspetti che sono premesse fondamentali delle norme positive che regolamentano la materia. Ora è opportuno prendere in considerazione alcuni profili esclusivamente di diritto positivo. È opportuno farlo sia perché viene vieppiù invocata l'applicazione di norme «lette» quanto meno in modo superficiale, spesso strumentale, sia perché si propone di considerare reato il rifiuto della vaccinazione, sia perché si sostiene che chi non si vaccina contro il coronavirus praticherebbe – se colpito – un suicidio e potrebbe essere causa di morte per altri esseri umani. Sono emerse anche tesi molto singolari, da Stato totalitario: il rifiuto di praticare la vaccinazione sarebbe da considerare resistenza a pubblico ufficiale (chi ha sostenuto questa tesi ha, tra l'altro, confuso l'incaricato di un pubblico servizio con il pubblico ufficiale). Come si vede, gli interventi sono spesso svolti a proposito e a sproposito: tutti parlano senza le necessarie conoscenze e senza considerare la natura delle questioni.

Andiamo, comunque, per gradi. Iniziamo dalla Costituzione. In particolare da quanto prescrive il suo articolo 32. Questo recita, com'è noto, quanto segue: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».

Dunque la Repubblica tutela la salute in quanto diritto fondamentale dell'individuo. Tutelare significa difendere, salvaguardare, adottare precauzioni per mantenere un bene. La Repubblica, perciò, è tenuta a considerare la salute un bene, il quale costituisce un diritto fondamentale dell'individuo, in quanto bene proprio della sua essenza; un diritto che è, allo stesso tempo, un dovere (i diritti, infatti, se si esce dalla stretta della Weltanschauung assolutamente giuspositivistica, altro non sono che esercizio di doveri) dell'individuo. La tutela cui la Repubblica è tenuta non significa garantire assolutamente la salute: sarebbe un'utopia ritenere che essa debba debellare definitivamente le malattie. Significa, piuttosto, che per quel che attiene al diritto alla salute, essa deve garantire le condizioni e le circostanze in virtù delle quali esso è possibile venga conservato. In altre parole, essa deve fare tutto il possibile per assicurare ambienti salubri di vita. Ciò investe molte questioni, in primis quelle relative all'inquinamento, alla salubrità dei prodotti, all'igiene, alle condizioni di sicurezza nei posti di lavoro e via dicendo. La Repubblica, quindi, è tenuta ad operare a tal fine per la tutela di un diritto individuale fondamentale che rappresenta un interesse della collettività. L'interesse, però, non è sovraordinato al diritto. È una sua conseguenza.

Pertanto la collettività non può rivendicare primati sul diritto fondamentale alla salute dell'individuo.

Le cure garantite agli indigenti sono un dovere sussidiario della comunità nei confronti di chi, senza colpa, versi in condizioni di impossibilità a praticare le cure a lui necessarie per il recupero della salute. Sono un dovere sussidiario perché tutti hanno il dovere di conservare (o di tentare di recuperare) la salute. Il che solleva domande circa la coerenza dell’ordinamento costituzionale (soprattutto con riferimento agli artt. 2, 3, 13 Cost.). Solleva, però, interrogativi ancora maggiori sulla coerenza dell’ordinamento giuridico repubblicano sempre più caratterizzato dalla separazione dei diritti dai doveri, i quali in ultima analisi vengono contrapposti: i diritti trasformati in pretese, infatti, segnano il disconoscimento di ogni dovere, di ogni obbligazione (anche di quelle naturali come, per esempio, pretende di fare il riconoscimento del «diritto» di partorire in incognito stabilito dal D.P.R. n. 396/2000). Si pensi – su ciò torneremo a breve – alla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana e a diverse leggi ordinarie (a titolo di esempio, si consideri la Legge n. 219/2017, quella che volgarmente viene indicata come Testamento biologico).

La tutela della salute avviene anche attraverso la cura della sanità che è dovere proprio della Repubblica. La sanità, perciò, è strumento della salute. In altre parole, essa è servente nei suoi confronti.

La tutela della salute avviene – come si è detto – sia in maniera preventiva (creando le condizioni e le circostanze cui si è esemplificativamente accennato) sia in maniera repressiva (curando le malattie). La prevenzione riguarda anche le vaccinazioni, cioè può essere con esse praticata. La vaccinazione – qualsiasi vaccinazione – deve rappresentare una via sicura per la tutela della sanità e della salute. Deve essere, inoltre, effettivamente efficace per la prevenzione della malattia/pandemia. Deve essere stata, poi, scientificamente sperimentata (se praticata in via sperimentale significa che la sperimentazione scientifica non è stata fatta, o, almeno, la sperimentazione non è stata completata). Non deve essere causa di reazioni avverse gravi: se lo fosse rappresenterebbe non una via per la tutela della salute ma un attentato alla salute medesima[2]. Né si può invocare, a questo proposito, il bilanciamento dei costi/benefici: non è lecito, infatti, mettere in pericolo un diritto individuale, definito dalla Costituzione come fondamentale (quello alla salute), per essere di giovamento all’Umanità o alle generazioni future.  La liceità della vaccinazione, inoltre, non è consentita, stando alla disposizione dell’articolo 32 Cost., se essa è solamente una probabile prevenzione (la cosiddetta copertura percentuale) o se non esclude nuovi contagi a danno dello stesso individuo che l’ha praticata: i provvedimenti sanitari, poi, - è opportuno sottolinearlo - non sono legittimati da necessità o carenze organizzative di un Sistema sanitario (nel caso de quo dai posti letto disponibili e/o occupati nelle terapie intensive). Essi, al contrario, stando alle disposizioni costituzionali, devono trovare giustificazione nella difesa o nel recupero della salute dell’individuo. Se la vaccinazione anti-Covid-19 (comprese le sue varianti) fosse causa di reazioni avverse, soprattutto gravi, essa sarebbe un attentato alla salute, non rappresenterebbe un mezzo di tutela della stessa. In questo caso la vaccinazione non potrebbe essere né imposta né consigliata e tanto meno considerata un «dovere morale»: la Repubblica verrebbe meno al suo dovere ex articolo 32 Cost.. Chi propone di rendere obbligatoria la vaccinazione contro il coronavirus dovrebbe interrogarsi su queste questioni e dare loro una risposta scientifica. Glielo impone – come si è detto – l’articolo 32 Cost..

Il II comma dell’articolo 32 Cost. stabilisce, poi, che nessuno è obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Basta una norma, una qualsiasi norma, a legittimare l’imposizione (contro, quindi, la volontà dell’individuo) della vaccinazione?

Innanzitutto va ricordato che la disposizione costituzionale è stata dettata dall’esigenza morale fortemente emersa al termine della seconda guerra mondiale in seguito alla politica praticata dal Nazismo contro i soggetti «deboli» e i malati; politica, accentuata negli anni del conflitto con la sperimentazione «imposta» - si disse – dalle necessità della guerra.

Anche Hitler aveva operato attraverso la legge. Basterebbe ricordare che il Parlamento tedesco nel 1933 approvò la «Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie» (approvata il 14 luglio e promulgata il 25 luglio 1933), con la quale ci si proponeva l’eugenetica della razza. Il problema, quindi, non è di sola procedura; non è formale ma sostanziale. Anche la legge positiva umana può essere ingiusta, razionalmente e moralmente inaccettabile. La Costituzione italiana dimostrò eccessiva fiducia nei confronti dei Parlamenti, i quali, anche in passato, avevano approvato leggi con le quali si «legittimavano» autentiche iniquità, che vennero approvate anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Basterebbe pensare alle norme approvate in spregio all’ordine naturale delle «cose» (divorzio, aborto procurato, «matrimonio» fra omosessuali e via dicendo). L’Assemblea costituente della Repubblica italiana approvò, comunque, una disposizione che va «letta» considerando il suo obiettivo: la tutela della salute e della libertà rispettivamente strumentalizzata e conculcata anche dai regimi liberal-democratici. La (eventuale) legge che imponesse la vaccinazione anti-COVID-19 deve trovare un fondamento di legittimità diverso dal potere e una motivazione non esclusivamente «pratica». Essa deve avere per finalità la tutela della salute dell’individuo che è un diritto fondamentale di questi come stabilisce il I comma dello stesso articolo 32 Cost. In altre parole la sua ratio, la sua ratio legittimante, sta nella sola tutela di un diritto fondamentale dell’individuo, non – per esempio – nella ricerca di evitare difficoltà organizzative al Sistema sanitario o nella ricerca di condizioni che consentano una ripresa – pur necessaria – dell’economia.

C’è un terzo aspetto di rilievo costituzionale (generalmente ignorato), il quale emerge  soprattutto in seguito a una Sentenza della Corte costituzionale del 1991. La Corte costituzionale, infatti, emise la Sentenza n. 467/1991 in continuità con la precedente giurisprudenza della medesima Corte ma, nello stesso tempo, innovando rispetto alle precedenti Sentenze della medesima. La Corte costituzionale nel 1991 riconobbe, infatti, all’individuo la legittimità della sua decisione di sottrarsi all’adempimento di obblighi che la Costituzione medesima definisce inderogabili. Gli riconobbe, quindi, il diritto costituzionalmente garantito di sottrarsi a una disposizione di legge, persino a una disposizione di legge costituzionale. Si trattava della questione dell’obiezione di coscienza. La Corte riconobbe all’individuo questo diritto sulla base della di lui rivendicazione alla propria coerenza per ragioni di coscienza[3]. La questione rileva anche per quel che attiene alle vaccinazioni. Chiunque, sulla base della Sentenza n. 467/1991 della Corte costituzionale può (o potrebbe) opporre il rifiuto alla vaccinazione, anche se imposta per legge. Va osservato, poi, che le Sentenze della Corte costituzionale hanno efficacia – com’è noto – erga omnes. Vincolano, pertanto, anche il Parlamento, il quale quindi, se approvasse una legge che imponesse la vaccinazione anche a chi la rifiuta (per le più disparate ragioni, ma soprattutto per ragioni etiche e religiose) violerebbe la Costituzione. Il rifiuto – ripetiamo – potrebbe essere opposto per le più disparate ragioni, ma soprattutto per questioni etiche e religiose. I (cosiddetti) vaccini, infatti, sono prodotti con cellule embrionali prelevate da feti abortiti. Ciò ha sollevato un ampio dibattito etico; ha imposto alla Congregazione per la Dottrina della Fede della Chiesa cattolica l’emanazione di una Nota (21 dicembre 2020); ha portato talune Conferenze Episcopali (per esempio, quella statunitense) a suggerire ai cattolici a questo proposito scelte conformi alla loro Fede. Il problema non è da poco, poiché la Sentenza della Corte costituzionale ha introdotto esplicitamente un principio individualistico che fa dipendere il vigore delle disposizioni costituzionali ed ordinarie dalle scelte dell’individuo. Per quel che attiene alla vaccinazione esso rappresenta un ostacolo insormontabile a qualsiasi disposizione di legge in mancanza del consenso informato.

L’autodeterminazione assoluta della persona come uno dei due cardini dell’ordinamento costituzionale italiano era già stata proclamata da una Sentenza della Corte costituzionale nel 1989 (cfr. Sentenza n. 203/1989) e solennemente ribadita successivamente (cfr., per esempio, Sentenza n. 334/1996). La giurisprudenza della Corte costituzionale, pur avendone quindi poste le premesse, non era arrivata, però, a stabilire esplicitamente che essa – l’autodeterminazione – consentiva all’individuo di derogare a obblighi definiti dalla Costituzione come inderogabili. La citata Sentenza n. 467/1991 stabilisce il virtuale dissolvimento dell’ordinamento giuridico (anche di quello costituzionale) interpretando e applicando la Costituzione. Ciò, da una parte, non consentirebbe di «leggere» l’articolo 32 Cost. come noi l’abbiamo «letto», fatta eccezione per quel che attiene ai doveri della Repubblica. Dall’altra, impone di considerare illegittima ogni imposizione (nel caso de quo vaccinale) a chi la rifiuta. Sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale, pertanto, non è sufficiente una disposizione di legge per i trattamenti sanitari obbligatori: questi sarebbero consentiti unicamente dal consenso informato dell’individuo.

Ciò è vieppiù confermato dalla legislazione ordinaria della Repubblica. Si pensi, per esempio, alla già citata Legge n. 219/2017. L’ordinamento giuridico della Repubblica italiana, pur fra contraddizioni, con il trascorrere del tempo si rivela sempre più ispirato da un «principio» che contrasta con le rationes che sorreggono la legislazione anteriore alla Costituzione, principalmente con le rationes che sorreggono il Codice penale del 1930 e il Codice civile del 1942.

Va osservato, poi, che questa evoluzione dell’ordinamento giuridico della Repubblica italiana trova giustificazione e sostegno in diverse Dichiarazioni (a cominciare da quella dell’O.N.U. del 1948) e in ordinamenti sovraordinati a quello della Repubblica italiana. In particolare nell’ordinamento dell’Unione Europea, il quale garantisce e tutela – teoricamente – l’autodeterminazione assoluta della persona nei termini sia pure brevemente tratteggiati[4]. Anche l’ordinamento europeo e quello internazionale, quindi, rappresentano un ostacolo all’imposizione della vaccinazione e all’approvazione di norme lesive della libertà assoluta della persona, vale a dire all’assoluta autodeterminazione della sua volontà.

Anche chi (come chi scrive) dissente da questi orientamenti non può non prendere atto della normativa vigente, la quale sotto diversi profili e a diversi livelli pone una questione di grande attualità e di estremo interesse. Questa questione non può essere risolta se non riconsiderando in ultima analisi le premesse liberal-democratiche e la loro evoluzione conforme all’ideologia radicale degli ordinamenti giuridici occidentali vigenti, in particolare di quello italiano.

 

[1] Cfr. Note pubblicate nella presente Rubrica il 20 gennaio e il 20 luglio 2021.

[2] In parte «raccomanda» di considerare questi aspetti anche la recentissima Risoluzione del Consiglio d’Europa n. 2361 del 27 gennaio 2021.

[3] Sembra che la Corte costituzionale non si sia posta il problema della complessa ed articolata questione della coscienza e, perciò, non abbia distinto tra obiezione di coscienza e obiezione della coscienza (cfr., a questo proposito, D. CASTELLANO, La razionalità della politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993, pp. 25-44). In altre parole la Sentenza n. 467/1991 sorvola su questa distinzione: la prima, infatti, porta a considerare diritto del soggetto la sola coerenza (talvolta contingente) con se stesso; la seconda impone fedeltà a una legge non scritta ma inscritta nella coscienza e, pertanto, immutabile. L’obiezione di coscienza rivendica (coerentemente) il primato assoluto della coscienza soggettiva, anche se essa non è retta, talvolta non richiede nemmeno che sia certa. L’obiezione della coscienza, la quale si oppone a una prescrizione umana positiva, è, al contrario, testimonianza di obbedienza a un imperativo non soggettivo. Comunque, anche se la Corte costituzionale si fosse posta la questione, a nostro avviso essa avrebbe dovuto accogliere alla luce dell’ordinamento costituzionale vigente la definizione di coscienza soggettivistica. Per la qualcosa il soggetto avrebbe sempre diritto di far valere e di praticare (salvo alcuni limiti dovuti alla convivenza) la propria opzione e persino opzioni fra loro nel tempo opposte come è stato riconosciuto, per esempio, diversi anni fa dal T. A. R. Marche. Il T. A. R. Marche, infatti, ha riconosciuto a un obiettore di coscienza al servizio militare (ex Legge n. 230/1998, profondamente innovativa della Legge n. 772/1972) il «diritto» di rinunciare a un «diritto». Pertanto, l’obiettore di coscienza al servizio militare (come tutti gli obiettori di coscienza nei confronti di qualsiasi imperativo legale) avrebbe il diritto di cambiare opinione: l’ammissione al servizio civile, nel caso preso ad esempio, «non appare idonea – afferma la Sentenza n. 842/2006 del T. A. R. Marche - […] a modificare o ad estinguere la titolarità del diritto» di opzione.

[4] Per un’introduzione al problema si rinvia a R. DI MARCO, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, particolarmente pp. 269 ss.