Una sentenza che espande ulteriormente gli effetti del personalismo contemporaneo

Una sentenza che espande ulteriormente gli effetti del personalismo contemporaneo
Premessa
Quella esaminata dalla Corte costituzionale nel luglio 2024 e, relativamente al caso considerato, risolta è una vexata quaestio. Essa si è imposta gradualmente ed esplicitamente (benché la Corte costituzionale non l'abbia sempre risolta in maniera assolutamente coerente: basterebbe considerare, per esempio, la Sentenza n. 307/1980 e la Sentenza n. 14/2023) soprattutto a partire dalla fine degli anni '80 del secolo scorso e via via ha visto allargati i suoi orizzonti (per gli albori si cfr., per esempio, la Sentenza n. 203/1989).
L'indirizzo ermeneutico della Costituzione nel senso del riconoscimento del «diritto» all’autodeterminazione assoluta della volontà del soggetto ha trovato, infatti, sviluppi nella giurisprudenza della Corte costituzionale successivamente (cfr., per esempio, Sentenza n. 461/1991 e Sentenza n. 334/1996). La Corte costituzionale – è vero – ha adottato talvolta criteri contraddittori: per esempio quello secondo il quale l'interesse collettivo può rappresentare una giustificazione che legittima la limitazione e, addirittura, la violazione dei diritti fondamentali (o, almeno, definiti tali). La Corte, comunque, si è trovata talvolta in difficoltà ad accogliere le istanze di legittimità (o di non legittimità) costituzionale delle pretese dei cittadini e a riconoscerle come diritti costituzionali della persona quando queste rasentano l'assurdità. Gli antichi Romani insegnarono che bisogna cavere a consequentiaris, poiché le conseguenze estreme ricavate da una premessa (soprattutto se sbagliata) possono portare ad affermazioni e a riconoscimenti inaccettabili.
Il thema decidendum
La Corte costituzionale nel caso de quo era stata investita dal Tribunale di Bolzano della questione del «terzo genere». Il caso riguardava una persona di sesso anagrafico[1] femminile, la quale, però, non si riconosce[2] né nel genere femminile né in quello maschile. Pertanto si rivolge e chiede al Tribunale di Bolzano la rettificazione del proprio sesso da femminile ad «altro». Il Tribunale di Bolzano solleva due questioni di legittimità costituzionale: censura l'art. 1 della Legge n. 164/1982 in quanto non prevede che quello assegnato con la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso possa essere un «altro sesso», né maschile né femminile. Censura, inoltre, in parte l'art. 31 c. 4 del Decreto legislativo n. 150/2011, nella parte «in cui prevede che “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato…”». L'art 31 del Decreto legislativo n. 151/2011 violerebbe, dice il Tribunale di Bolzano, gli artt. 2, 3 e 32 Cost..
La Corte costituzionale, com'è noto, per quel che riguarda la prima questione l'ha dichiarata inammissibile in quanto essa eccederebbe «... il perimetro del sindacato [della …] Corte». Aggiunge, poi, che la percezione dell'individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l'esigenza di essere riconosciuto in un'identità «altra» - genera una situazione di disagio significativo rispetto al principio personalista cui l'ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)[3].
Per quel che riguarda la seconda questione la Corte la riconosce fondata. A sostegno dell'accoglimento della tesi dell'illegittimità costituzionale dell'art. 31 del Decreto legislativo n. 150/2011, argomenta che esso si rivela irragionevole ai sensi dell'art. 3 Cost. nella parte in cui prescrive l'autorizzazione del Tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso Tribunale sufficienti per l'accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
Si deve registrare, dunque, che la Corte respinge la prima istanza in quanto essa eccederebbe i «suoi» parametri. Per quel che riguarda la seconda questione la riconosce fondata sulla base delle prescrizioni costituzionali che impongono il rispetto del «diritto» all'autodeterminazione assoluta della volontà del soggetto. L'ordinamento giuridico, in particolare quello costituzionale, riconoscerebbe, così, l'anarchia con alcuni limiti: essa non può fare iniuria a terzi (va, però, osservato che l'esercizio di taluni «diritti» consente persino la soppressione della vita dell'innocente come avviene nel caso di aborto procurato. E la Corte costituzionale ha ritenuto legittima la Legge n. 194/1978).
Due osservazioni
La prima osservazione che la Sentenza n. 143/2024 impone, riguarda le rationes operandi della Corte costituzionale. Non ci riferiamo alle rastiones nascoste, non conosciute e talvolta non confessabili. Ci riferiamo a quelle apertamente dichiarate dalla medesima Corte. Questa, infatti, dice che operando secondo i «suoi» parametri la questione oggetto della decisione li eccederebbe, almeno in parte. Non si tratta né di parametri occasionali né, tanto meno, di parametri personali. Essi nono indubbiamente «scientifici» ovvero «oggettivi». La scientificità, però, è la scientificità dell'ordinamento e l'oggettività è quella propria della dottrina assolutamente positivistica del diritto. L'ordinamento sarebbe caratterizzato dalla coerenza ma il suo fondamento starebbe nell'opzione di colui che l'ha posto. Per la qualcosa scientificità diventa sinonimo di mera non contraddizione interna al sistema, non di conoscenza del giusto e dell'ingiusto in sé. L'oggettività imporrebbe di non porsi problemi anche se per risolvere le questioni è sempre necessario trascendere il sistema positivo. Non è, questa, né un’esigenza nuova né un’affermazione opinabile per quel che riguarda il diritto. L’ordinamento giuridico positivo italiano, per esempio, già la contempla. Esso, infatti, impone in alcuni casi di considerare la «natura» delle «cose» quale criterio da applicare per disporre delle stesse. Basteranno due esempi. La natura di un bene rende indivisibile talvolta il bene stesso. Nel caso di divisione successoria non sono divisibili, per esempio, un quadro, un animale, un’automobile, una trattrice e via dicendo. La natura della donazione rimuneratoria, poi, - è il secondo esempio – impedisce la sua revoca per successiva ingratitudine o per sopravvenienza dei figli. Se non si considerassero gli elementi prepositivi del diritto diventerebbe diritto esclusivamente l'insieme coerente (ma arbitrario) delle norme vigenti. È una questione molto dibattuta. Non solamente oggi. Nelle aule di giustizia, però, salvo eccezioni, viene generalmente ignorata. Taluni giuristi anche di livello, come per esempio Paladin, ritengono di non dovere andare «oltre» la presa d'atto dell'opzione. Altri, per esempio Kelsen, ritengono inutile, anzi dannoso alla purezza del diritto, ogni tentativo di risalire alla validità del diritto, bastando a loro giudizio per questa la vigenza delle norme che impongono di fare o di non fare. Altri ancora (per esempio Schmitt) ritengono che l'oggettività del diritto sia innanzitutto una questione sociologica, non giuridica nel senso classico del termine. Per la qualcosa l'ordinamento sarebbe regolato dalla società, non regola per la società.
Si tratta di tre atteggiamenti in ultima analisi relativistici anche se il primo rappresenta il tentativo di ovviare al problema non ponendoselo. Il secondo è il tentativo di rendere assoluto e certo il relativismo. Il terzo è la proposta di non ignorare né il costume né la storia (soprattutto quella giuridico-istituzionale e in particolare quella costituzionale) al fine di dare risposte alla società la quale – secondo questa dottrina – se le sarebbe già date da sola.
Alla luce di questa osservazione diventa difficile dire che molti diritti posti nella Costituzione e approfonditi e sviluppati nel loro contenuto dalla giurisprudenza delle Corti costituzionali sono diritti veri e propri cioè intesi come determinazione e statuizione di ciò che è giusto. Il diritto, anche quello costituzionale, sarebbe puramente «convenzionale» nel senso che starebbe pro iure ciò che sarebbe frutto di un qualsiasi patto sociale, contingente, momentaneo e insindacabile. Sarebbe diritto, in altre parole, ciò che è posto e sarebbe posto non secondo i dettami della giustizia ma secondo l'arbitrarietà del legislatore[4].
La seconda osservazione riguarda la centralità del «principio personalistico» posto e, quindi, «riconosciuto» dalla Costituzione repubblicana. L'affermazione della Corte costituzionale è fondata. La Corte, però, assume e condivide un «principio»[5], che non è riconoscimento, tutela e garanzia della persona classicamente intesa. Per fare un solo nome secondo la (per ora insuperata e probabilmente insuperabile) definizione data da Severino Boezio. La Corte non problematizza l'opzione «personalistica» e, perciò, accoglie dogmaticamente una definizione di persona che è lontana dal concetto di persona[6]. Lo fece – credo di aver iniziato a dimostrarlo con un saggio dell'ormai lontano 1988[7] - anche l'Assemblea costituente della Repubblica italiana, ipotecata da una cultura sociologica di impronta in ultima analisi idealistica benché declinata talvolta in versioni esistenzialistiche. Politicamente parlando, ispirata al liberalismo lato sensu inteso, condiviso in parte e in parti fondamentali anche dai marxisti[8].
Ciò dimostra che la Costituzione ha basi «ideologiche» (che sono la premessa per la negazione del fondamento filosofico, ovvero ontologico del diritto[9]) e «ideologicamente» viene applicata. Per la qualcosa l’autodeterminazione assoluta della volontà del soggetto diventa il diritto dei diritti[10]. L’ordinamento sarebbe nei limiti imposti dalla convivenza tutela e garanzia dell’anarchia. Una contraddizione, questa, sempre più evidente anche se talune Sentenze della Corte costituzionale, arrampicandosi sugli specchi senza l’aiuto di ventose, cercano invano di negare. (cfr. Sentenza n. 14/2023). Nel caso de quo la Sentenza n. 143/2024 porta al riconoscimento del diritto al nulla.
Breve considerazione conclusiva
Anche la Sentenza n. 143/2024 della Corte costituzionale rappresenta, dunque, una conferma e simultaneamente una smentita: una conferma dell’ermeneutica egemone della Costituzione in vigore da parte della Corte costituzionale; una smentita delle «letture» giusnaturtalistiche classiche della Legge fondamentale della Repubblica italiana. Soprattutto l’art. 2 Cost. fu per anni interpretato da alcuni come riconoscimento dell’esistenza del diritto anteriore al diritto posto, vale a dire come apertura dell’ordinamento costituzionale alla giustizia. Taluni giuristi e diversi politici si illusero a lungo di trovare nella Costituzione il realismo giuridico classico, smentito apertamente dall’art. 1 Cost, aperto incondizionatamente all’effettività del potere espressione della sovranità. Questa illusione li portò a parlare di «Costituzione tradita» per via ermeneutica. Taluni ancora si ostinano a ritenerla la migliore del mondo oppure a sostenere, erroneamente, che essa avrebbe radici romanistiche.
La Costituzione italiana, come le sue consorelle fatte in serie (da ultimo quella spagnola del 1978) è non solo, come si è detto, strumento di virtuale anarchia (sia pure limitata dalle esigenze della convivenza), ma causa e simultaneamente alimento di conflitti. Un esempio basterà a illustrare l’affermazione. La Corte costituzionale italiana con Sentenza n, 508/2000 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 C.P., il quale puniva il vilipendio pubblico della religione dello Stato, introdotto nell’ordinamento giuridico italiano nel 1889 (Codice Zanardelli) in sostituzione del precedente reato di blasfemia. Il reato previsto dall’art. 402 C.P. venne sostituito, applicando il «principio personalistico» accolto dalla e nella Costituzione, con il reato contro il sentimento religioso della persona. Sono sorti subito, però, diversi problemi legati, in parte, alla illuministica libertà di pensiero, in parte, all’applicazione delle dottrine laiciste, in parte alla problematica definizione di sentimento religioso. In Spagna nel corrente mese di settembre 2024, poi, è stato (coerentemente rispetto alle dottrine liberali e alla Costituzione in quel Paese vigente) abrogato il reato di offesa al sentimento religioso: «Il sentimento religioso – ha preso atto, protestando, il Presidente della Conferenza Episcopale Spagnola – non è più un bene giuridico protetto» dalla Costituzione, ma un ostacolo alla libertà della persona. L’unico bene giuridico protetto, infatti, è la «libertà negativa», intesa come sola e assoluta autodeterminazione del volere, come la definì magistralmente Hegel[11]. Il che dimostra la validità dell’affermazione sopra fatta, secondo la quale il «principio personalistico» porta alla radicale affermazione del liberalismo e alla dissoluzione della persona[12].
La Sentenza della Corte costituzionale italiana n. 143/2024 allarga la via per questa dissoluzione, riconoscendo, in applicazione del dettato costituzionale, diritti che non esistono e favorendo l’accoglimento dell’utopia scambiata con la realtà. La Sentenza n. 143/2024 rappresenta, perciò, la conferma della correttezza ermeneutica della Costituzione costantemente offerta nel tempo da alcuni autori e in particolare da Pietro Giuseppe Grasso, decano dei giuspubblicisti italiani, il quale al suo volume Costituzione e secolarizzazione[13]potrebbe ora aggiungere un nuovo Capitolo.
[1] La terminologia attualmente usata a questo proposito è equivoca. Ci può essere certamente, anche se assai raramente, un errore materiale nella registrazione anagrafica del sesso di una persona. Per dimostrarlo, comunque, è necessario fare riferimento al suo sesso naturale che non dipende né da opinioni, né da percezioni, né da «riconoscimenti» come intesi secondo alcune dottrine gnostiche, soprattutto tedesche.
[2] La persona che «non si riconosce» nel sesso secondo il quale è stata anagraficamente registrata non ha il potere di modificare la sua propria natura. Il suo «disagio» in questo caso è frutto di una malattia. La malattia, però, non è il criterio della salute. Al contrario è la salute criterio della malattia. Il caso, pertanto, non è giuridico ma medico.
[3] Già questo «riconoscimento» o, almeno, questo ritenuto «riconoscimento» è rivelativo di un orientamento legislativo-costituzionale e, conseguentemente, ermeneutico della Costituzione difficilmente condivisibile dal «senso comune», benché attualmente favorito dalla legislazione ordinaria e diffuso nella prassi sociale.
[4] Sarebbero diritto, per esempio, anche le norme che istituiscono e dettano le procedure per i campi di concentramento, le torture e le camere a gas. Insomma sarebbe diritto qualsiasi prescrizione accompagnata dall'effettività.
[5] Il «principio» non è un enunciato convenzionale, assunto come tale. Non è, in altre parole, un'opzione-guida assunta per costruire un sistema. Non è il punto convenzionale dell'ordinamento giuridico. Il «principio» è ciò che consente di «leggere» in maniera non contraddittoria l'esperienza, tutta l'esperienza, la quale non può essere riassunta (filosoficamente) in un sistema e (giuridicamente) in un ordinamento.
[6] La definizione può essere convenzionale; il concetto, per essere tale, è sempre ontologico, cioè coglimento del «dato» ontico delle «cose».
[7] Cfr. D. CASTELLANO, Il problema della persona umana nell’esperienza giuridico-politica: (I) Profili filosofici, in «Diritto e società», Padova, n. 1-1988 ora nel lavoro che lo completa: ID., L'ordine politico-giuridico «modulare» del personalismo contemporaneo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007.
[8] Basti pensare che Togliatti in sede di Assemblea costituente fu favorevole all'obiezione di coscienza.
[9] D. COMPOSTA è uno dei rari autori che ha considerato con acume la questione del fondamento del diritto in termini classici (cfr. D. COMPOSTA, I fondamenti ontologici del diritto, Roma, Pontificia Università Urbaniana, 1994).
[10] Alla questione ha dedicato una monografia, cui si rinvia, R. DI MARCO, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 2017. Al problema è stato dedicato anche un convegno internazionale, svoltosi a Bogotà (Colombia), i cui Atti sono stati pubblicati a cura di Miguel AYUSO nel 2020 (cfr. La autodeterminación: problemas jurídicos y políticos, Madrid, Marcial Pons, 2020).
[11] Cfr G. W. F. HEGEL, Verlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it. vol IV, a cura di G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1941, 1965, pp. 197-198.
[12] A questo proposito si rinvia a D. CASTELLANO, Il personalismo e la negazione della persona, in ¿Una sociedad despersonalizada? Propuestas educativas, a cura di Enrique Martínez, Barcellona, Editorial Balmes, 2012.
[13] Padova, Cedam, 2002.