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Voce alle donne

Il contributo femminile nella Palermo degli anni Ottanta e Novanta
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Voce alle donne

Il contributo femminile nella Palermo degli anni Ottanta e Novanta

 

Abstract

The history of the anti-mafia is not only a male history, but also a female one. The presence of women in the Fasci, an example of organized struggle against the mafia, does not attract attention so much for the high number, but rather for the role of weight covered by them. The Women Against the Mafia Committee draws up a document in which the fight against the mafia is characterized as the defense of democracy and the fight for gender equality. The contribution intends to outline the forms, languages and methods of protest of the female fighters, in order to highlight their specificity and originality, highlighting the close link between anti-mafia and female emancipation.

La storia dell’antimafia non è solo una storia maschile, ma anche femminile. La presenza delle donne nei Fasci, esempio di lotta organizzata contro la mafia, non richiama l’attenzione tanto per l’elevato numero, quanto invece per il ruolo di peso ricoperto dalle stesse. Il Comitato donne contro la mafia mette a punto un documento in cui il contrasto alla lotta mafiosa viene connotato come difesa della democrazia e lotta per l’uguaglianza di genere. Il contributo intende delineare le forme, i linguaggi e le modalità di protesta delle combattenti, al fine di evidenziarne la specificità e l’originalità, ponendo in luce lo stretto legame tra antimafia ed emancipazione femminile.

 

Il lavoro è frutto della relazione esposta nel corso del Convegno “Palermo e altre primavere. Ricerche in corso”, tenuto presso l’Università LUMSA il 16 marzo 2023.

 

1. Introduzione

I concetti di “mafia” e “antimafia” sono inscindibili. Da sempre, infatti, risulta complesso analizzare l’una senza tenere conto dell’altra: come ammesso in dottrina, i predetti concetti “prendono forma e si modellano a vicenda, sono due facce dello stesso oggetto di studio”[1]. Entrambi assumono forme differenti nel tempo e nello spazio: queste dipendono sia dai mutevoli caratteri delle mafie sia dai cambiamenti sociali e istituzionali che caratterizzano il contesto in cui l’antimafia si muove. In Sicilia, pochi concetti sono stati oggetto di accese discussioni intellettuali e di altrettante lotte politiche quanto la mafia e l’antimafia; nel corso del tempo, a tali concetti sono stati accordati i significati più disparati e contradditori. Storicamente, la mafia – concepita come sistema di potere sanguinoso e totalitario – è considerata una sfera eminentemente maschile. In via generale, il conflitto è un affare di uomini; tra gli uomini in armi si genera una cultura virile specifica, che in taluni casi amplifica maggiormente il ruolo della forza nella costruzione della leadership maschile[2]. Lo stesso dicasi per l’antimafia, ma sino alla nascita di un movimento di massa di ispirazione libertaria, democratica e socialista spontaneista, sviluppatosi in Sicilia dal 1889 al 1894, i cd. Fasci dei lavoratori. L’esperienza dei Fasci, il primo esempio di lotta organizzata contro la mafia, segna una svolta a livello culturale: oltre ad assolvere un ruolo di notevole rilievo, l’ampio coinvolgimento delle donne – nella veste di organizzatrici e agitatrici – suscita particolare interesse per forme, linguaggi e modalità di contestazioni peculiari e originali. L’analisi del legame donne-antimafia implica la trattazione di talune annose questioni: le relazioni con le gerarchie di potere, il rapporto con le idee di tradizione e modernità, l’emancipazione. Occorre sottolineare come la distorta visione della donna concessa dalla mafia all’esterno e sostenuta all’interno con una serie di regole formali contribuisca a occultare la sostanza dei rapporti, la condizione di inferiorità, il desiderio di negazione dell’identità femminile. Il presente lavoro intende porre in luce come tale mentalità, non esclusiva del fenomeno mafioso ma veicolata dallo stesso, impedisca tutt’oggi la piena affermazione e realizzazione della donna sul territorio siciliano, rilanciando altresì il problema cruciale della disparità di genere nel Meridione.

 

2. Donne e Fasci: timidi segnali di una rivoluzione culturale

Dai due congressi regionali tenutesi a Palermo nei giorni 21 e 22 maggio 1893 incentrati rispettivamente sulla costituzione in Sicilia di una confederazione di propaganda socialista e sull’organizzazione dei Fasci siciliani traspare la reazione entusiasmante sull’avvio del dibattito in ordine all’entrata della donna nella lotta di classe. Difatti, non deve considerarsi un semplice caso se talune donne di Riolo, Corleone e Piana dei Greci iniziano a fare sentire la loro voce già in tali frangenti, esortando i soci del Fasci a curare l’iscrizione delle stesse[3].

Le donne partecipano attivamente alle manifestazioni ed alle agitazioni dei Fasci, anche ove non sono iscritte, assumendo un ruolo di primo piano; il loro protagonismo scaturisce non solo da una presenza consistente all’interno dei movimenti di diversi Paesi siciliani, ma anche dalla capacità di costituire i primi Fasci femminili[4]. In determinati momenti, le stesse appaiono più “ardenti” e risolute rispetto agli uomini, pronte a trasformarsi in minacciose condottiere: come ammesso in dottrina, i Fasci di contadine “non si mostrano meno agguerriti di quegli degli uomini. In certi paesi l’entusiasmo per la sperata redenzione economica è giunto al punto di sostituire ogni altra fede; le donne, che erano religiosissime, non credono più che ai Fasci”[5]. In tale senso, è noto l’inaspettato affronto di una rappresentante del Fascio ai militari nel corso di un’agitazione, esortandoli ad agire nei suoi confronti; la disinvoltura della Capo bandiera induce i soldati ad abbassare le armi ed il capitano a ritirare i propri uomini. Le donne prendono parte anche agli scioperi agrari d’autunno che si svolgono specialmente nelle zone del latifondo: nella zona di Piana dei Greci, una donna è arrestata in quanto promotrice dello sciopero; a Villafrati sono “bloccate” sei donne, poiché, insieme ad altre quattro, si recano armate nei terreni per ottenere il consenso dei braccianti ai fini di una proficua cooperazione. La loro presenza si intensifica anche nel corso delle agitazioni contro le tasse, avutesi durante i mesi estivi in numerosi centri della Sicilia; parimenti, esse non mancano di intervenire nei tumulti che scoppiano nella stagione invernale.

Come prevedibile, l’attivismo delle donne nell’esperienza dei Fasci genera stupore tra le autorità, gli uomini di potere e i giornalisti. In particolare, il prefetto di Palermo Colmayer, in un rapporto del 26 maggio 1893 al Ministro dell’Interno, non soltanto denuncia l’escalation femminile nei movimenti, ma sottolinea come la donna contadina sembra avere dimenticato “il suo tradizionale pudore e la sua missione, prendendo parte all’attuale lotta di classe (…) mostrandosi disposta a scendere pure essa nel campo dell’azione”. Tra i giornalisti più critici, vi è chi sostiene che le donne aderiscano in massa ai Fasci in ragione di una specie di fanatismo religioso, che le porta a prendere le distanze dai condizionamenti della Chiesa per aderire totalmente al socialismo, da concepirsi non come attesa sofferente di un avvenire migliore, bensì come impegno effettivo e costante di ogni individuo per la costruzione di una comunità migliore. In realtà, l’atteggiamento delle fascianti non si traduce nella negazione dei dogmi della fede cattolica; quel che esse contestano è invece il carattere rivoluzionario delle istituzioni e delle autorità ecclesiastiche[6], che si pone da ostacolo per il godimento dei loro diritti[7].

A seguito di tale breve ricostruzione dei fatti, appare necessario riflettere sulle concrete motivazioni che inducono a ritenere quella dei Fasci un’esperienza vitale per le donne. In primo luogo, occorre tenere conto che gli Statuti dei Fasci riconoscono solo formalmente una partecipazione paritaria in un contesto storico travagliato, nonché in un Paese vincolato al rigoroso rispetto dello Statuto Albertino. Quest’ultimo, pur garantendo parità di diritti civili e politici a tutti gli abitanti del Regno (art. 24), non riserva alla donna alcuna menzione, così da confermare l’idea che l’esclusione della medesima dal godimento dei diritti debba ritenersi ovvia e indiscutibile[8]. In secondo luogo, si ritiene impossibile prescindere dalla condizione in cui versa la donna siciliana sul finire del XVIII secolo: la visibilità femminile nei movimenti è incompatibile con una radicata concezione patriarcale che le relega all’ambito familiare. Se per gli uomini i Fasci rappresentano un tentativo di riscatto sociale, le donne vi intravedono una valida occasione per uscire dai confini domestici e sottrarsi al predominio maschile.

 

3. Verso la nascita delle prime forme associative

Nel periodo bellico, la sfida contro la mafia in Sicilia si sostanzia nella rivendicazione dei diritti dei lavoratori. Anche in tale circostanza, pur con dimensioni ridotte e toni più pacati rispetto alla precedente esperienza dei Fasci, le donne rivestono un ruolo-chiave all’interno del movimento per la riforma agraria, tant’è che il loro apporto nelle lotte per l’applicazione dei c.d. decreti Gullo risulta determinante. La partecipazione femminile alle occupazioni dei latifondi esalta il carattere non violento della manifestazione; esse ricoprono una funzione di mediazione tra i contadini più irrequieti e le autorità di polizia[9]. La predetta occasione si rivela significativa per il percorso di emancipazione femminile in Sicilia, in quanto favorisce la successiva costituzione del primo Congresso regionale delle donne siciliane tenutosi a Palermo nel 1953, composto da oltre 1500 deleganti elette dalle donne di tutta la Sicilia. In tale iniziativa, si pone in luce la necessità di affrontare con specifica accuratezza le tematiche attinenti al ruolo di genere, sebbene la maggior parte delle donne mantenga una posizione intermedia, che si concretizza nella ricerca di valide modalità di interlocuzione con le forze dell’ordine. A fronte di ciò, il primo Congresso regionale non sembra costituire una vera e propria forma associativa di donne contro la mafia; appare opportuno parlare di singolari e temerarie prese di posizioni assunte da madri, mogli e sorelle, vittime inconsapevoli[10]

In tempo di guerra, i giovani movimenti femminili sono repressi dalla dittatura fascista, poichè percepiti come una minaccia. Nei partiti politici antifascisti, il gruppo delle militanti non raggiunge dimensioni ampie: il costume dell’epoca, infatti, non consente alla donna di esporsi in pubblico. Pertanto, la donna, ancora soffocata nella sfera domestica, non riesce ad occupare posti direzionali o decisionali. In realtà, è la stessa a non sentirsi preparata o a credere di non esserlo, poiché su di essa grava quel senso di inferiorità veicolato dalla cultura maschile. Come osservato in dottrina, se è impossibile che secoli di costume si risolvano per un episodio accidentale; è altrettanto impossibile una maturazione collettiva in pochi mesi: la maturazione politica avviene lentamente, quale prodotto “di esperienza di vita, di errori corretti, orientati anche dalle pulsioni caratteriali, come dall’ambiente, che influiscono selettivamente sulle nostre scelte in un modo piuttosto che nell’altro”[11]. Ciò vale specialmente in un territorio mortificato e umiliato come quello siciliano ove, a distanza di oltre dieci anni dal secondo conflitto mondiale, la mancata istituzionalizzazione dell’esperienza di vita e la minimizzazione del contributo politico da parte delle donne costituiscono sintomi di una lontananza marcata dalla sfera politica e della persistenza di un modello d’interpretazione autosvalutativo che compromette seriamente il raggiungimento di qualsiasi obiettivo in chiave di emancipazione[12].

Nel contesto post-fascista, talune donne riescono a rompere questo silenzio assordante, anche in ragione della sostanziale attenzione riservata dalla Costituzione alla parità di genere, per prendere la parola, rendendo così visibile quello che sino a tale momento rimane occultato[13]. Dalla sintetica ricognizione del dato costituzionale in materia di eguaglianza di genere, nella sua formulazione originaria, affiora la chiara consapevolezza del Costituente in ordine alla condizione della donna nel campo familiare, nell’ambito lavorativo e nella sfera politica in età pre-fascista e fascista, nonché la necessità di segnare, con l’avvento della Repubblica, un cambiamento drastico rispetto al passato[14]. In tale senso, non deve ritenersi una casualità se la questione della parità di genere venga sollevata e discussa proprio all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, in occasione del primo Congresso regionale delle donne siciliane.

In Sicilia, il percorso di emancipazione femminile si sostanzia in una crescita giornaliera, che importa lotte silenziose e sofferenti, vittorie e sconfitte. In concreto, la donna affronta una sua “guerra” contro l’ingiustizia, la violenza e le ingiurie del fenomeno mafioso. Si tratta di un momento peculiare, da considerarsi però come un punto di partenza per consentire ad esse di sentirsi parte integrante della comunità. Quella combattuta a partire dagli anni ’70, è non solo una battaglia di civiltà interessata a rendere la mafia un fenomeno conoscibile e condannabile nel solco delineato dallo Stato di diritto, ma innanzitutto una grande battaglia di libertà, che attiene alla qualità dell’esistenza dei soggetti e delle comunità, ossia il diritto ad autodeterminarsi, a non subire soprusi[15]. A tale periodo storico si riconduce la polemica tra Leonardo Sciascia, uno dei primi e maggiori studiosi dell’antropo-psichismo mafioso, e talune rappresentanti del femminilismo italiano: è la donna – secondo Sciascia – a detenere il potere in Sicilia; come prevedibile, tale dichiarazione fa insorgere chi contesta da sempre il ruolo di “emarginate” e “discriminate” rivestito dalle donne nei territori meridionali. Se la storia insegna che le donne in Sicilia occupano prevalentemente una posizione marginale, è impensabile porre in discussione il contributo di straordinario rilievo offerte dalle stesse nella lotta al contrasto della mafia: la convivenza con la mafia rientra nella normalità, alle sue azioni non si attribuisce un disvalore; la mafia è vissuta come una realtà positiva, in grado di concedere un contributo sostanziale alla società, in termini di rimozione delle disuguaglianze e facendo giustizia al posto dello Stato inadempiente. Alle donne si riconosce non solo il grande merito di abbattere gli stereotipi ormai consolidati, ma anche di svelare il reale volto della mafia.

La presenza femminile è particolarmente viva nelle plurime associazioni giovanili nate a Corleone tra gli anni ’70 e ’80, in funzione della lotta al riconoscimento di quei diritti che la cultura mafiosa contribuisce a rinnegare alle donne. Si proliferano i movimenti giovanili di impronta politico-culturale, tra cui il circolo femminile Franca Viola[16], una di quelle eroine per caso la cui storia dovrebbe essere maggiormente valorizzata ed esportata; nel 1965, la giovane donna denuncia il proprio stupratore, attaccando in via definitiva l’obsoleto art. 544 del c.p. concernente il c.d. “matrimonio riparatore”[17]. Il suo gesto costituisce una delle conquiste più rilevanti nella storia dell’emancipazione femminile per il coraggio di concedere spazio alla sua figura di donna, ai suoi desideri e alla sua anima. Da tale storico episodio traspare come il rispetto dei codici imposti da una determinata cultura e da un nucleo familiare rappresenti un veicolo di violenza sulle donne. In tali movimenti associativi, quest’ultime rivendicano il diritto alla differenza nell’uso di linguaggi e strumenti propri e la parità di trattamento, accentuando l’inscindibilità tra la sfera politica e quella sociale. Nel 1975, il forte entusiasmo associativo sfocia nell’organizzazione della prima manifestazione per la festa della donna a Corleone; tuttavia, la celebrazione della giornata dell’8 marzo incontra l’impetuosa reazione della comunità locale. In tale contesto, si collocano le storie di Maria Di Carlo e Vera Pegna: la prima, di famiglia borghese, sporge denuncia contro il padre a seguito di una sua violenta reazione imputabile alla partecipazione della figlia ad uno sciopero bracciantile; la seconda si rende protagonista in consiglio comunale occupando la poltrona del vero “motore” della mafia di Caccamo, in segno di sfida. Le due esperienze, pur ispirate rispettivamente da un esigenza di libertà e dalla consapevolezza di non arrendersi alla mafia, si incrociano per la piena solidarietà riversata dai Paesi convolti verso il carnefice, vanificando così le rilevanti conquiste in tema di costume, di diritti e libertà di espressione ottenute dalle poche donne coraggiose dell’epoca con cospicui sacrifici[18].

 

4. L’escalation femminile nell’antimafia

Negli anni ’80, si rilevano i segnali di un radicale mutamento all’interno del movimento antimafia, anche in relazione al coinvolgimento attivo delle donne alle sue attività. Queste ultime si rendono protagoniste di numerosi tentativi di emancipazione – incerti e oscillanti – maturati prevalentemente nella sfera esistenziale, che si traducono nella richiesta di maggiore libertà personale. Sebbene siano guidate da ragioni di utilità soggettiva, le donne si oppongono alle travolgenti prepotenze della mafia facendo leva sulla propria “diversità”, nonchè su quella “vulnerabilità” denunciata come indice di incapacità e inattendibilità dagli uomini, in grado di aprire al cambiamento, che funge da leva per frenare la violenza mafiosa. Si avverte la necessità di dare vita ad un movimento popolare in cui le donne possono assolvere un ruolo centrale, valorizzando le esperienze pregresse, così da intensificarle attraverso mezzi di comunicazione e spazi di lavoro comune; un movimento di donne coraggiose che lottano contemporaneamente per la loro piena emancipazione e contro la disumanità della mafia[19]

Difatti, la prima Associazione di massa contro la mafia, formatasi ufficialmente nel 1984, nasce grazie alla volontà e all’ambizione di un gruppo di donne, che sollecitano le Istituzioni ad un maggiore impegno diretto contro la mafia in Sicilia. La predetta Associazione, avente come promotrici Rita Bartoli Costa, Giovanna Terranova e Caterina Mancuso, si affianca alle donne delle vittime costituitosi parte civile nei processi contro la mafia. Un profondo senso di ribellione, una domanda di giustizia emotivamente caricata e, soprattutto, di fedeltà alla memoria dei propri cari assassinati infondono loro coraggio[20]. È importante marcare come la presenza di altre donne compatte – e in contatto con le Istituzioni – contribuisca ad aiutare i familiari a non rassegnarsi alle ingiustizie della mafia. Tuttavia, la devozione ai valori della società civile non sempre riserva alle donne private dei loro affetti esperienze soddisfacenti: è noto il caso di Michela Buscemi e Vita Rugnetta, uniche parti civili al di fuori dell’ambiente dei “servitori dello Stato” nel maxiprocesso, che si vedono escluse dai benefici di un fondo raccolto per finanziare le spese processuali delle parti civili, fondi destinati esclusivamente ai parenti delle persone decedute in servizio, come i magistrati. L’impegno dell’Associazione donne contro la mafia è intenso e fruttuoso; la stessa, infatti, diventa un importante punto di riferimento in altri contesti e situazioni: negli istituti scolastici, le socie sono coinvolte nei dibattiti programmati in funzione della crescita di una coscienza antimafiosa, spinte dalla volontà di partire dall’educazione dei più giovani; l’organizzazione di manifestazioni come quella del 22 ottobre 1988 alla quale partecipa anche la Presidente della Camera Nilde Iotti getta le basi per la realizzazione di convegni in varie città italiane; il coinvolgimento delle socie in un ciclo di incontri con le donne del quartiere Albergheria – un quartiere degradato di Palermo – incentrato sulla condizione femminile in una situazione di svantaggio sociale e sulla centralità della donna nella lotta alla mafia promuove la circolazione delle suddette tematiche; la collaborazione con altre Associazioni guidate da donne (tra cui l’Associazione “Zen insieme” ed il Centro di documentazione Giuseppe Impastato fondato da Anna Puglisi con il marito Umberto Santino) si estende alla progettazione di incontri con le Associazioni femminili contro la criminalità organizzata calabrese e campana. In particolare, la predetta l’Associazione si contraddistingue per la straordinaria capacità di unire sentimenti umani e passione civile, aspetti quasi sempre tenuti distanti nella nostra cultura collettiva, e spesso anche in quella individuale[21].

Complici le stragi di Palermo dei primi anni ‘90, l’antimafia palesa il suo volto femminile soprattutto nella propria cittadinanza di origine: nelle acute voci che indirizzano comunità parrocchiali e biblioteche, negli interessi che movimentano corsi e seminari accademici. Si tratta di donne locali, ossia donne poste al vertice del movimento antimafia la cui persistente presenza non prende le mosse da rapporti affettivi con i familiari delle vittime della violenza mafiosa, ma da una decisione di campo[22]. In tale quadro, si tende a far rientrare le più celebri “prime cittadine” (da Maria Maniscalco di San Giuseppe Jato a Gigia Cannizzo di Partinico) e talune magistrate palermitane (come Teresa Principato o Franca Imbergamo) fortemente ostacolate nelle loro profuse attività. Per lungo tempo, l’immaginario collettivo identifica la figura della “donna contro la mafia” specialmente con quella che, privata di un familiare, sceglie di assumere la veste di testimone nei processi; negli anni ’90, invece, si iniziano a ritenere tali anche quelle personalità che, pur non avendo subito alcuna violenza, decidono di ribellarsi alla mafia anche mediante la predisposizione di progetti di riforma sociale. In perfetta linea con tale mutamento, l’Associazione propone di costituire a Palermo una casa della memoria: in nome della memoria, espressione di commemorazione, e contemporaneamente, costante domanda etica al presente, le aderenti trovano quel tipo unità che rispetta le diversità tra l’una e l’altra[23]; ciò non esclude la nascita di accesi conflitti ma risponde comunque all’ideale primario dell’Associazione, ossia quello di venire incontro alle richieste di aiuto di qualunque donna che desideri allontanarsi da quella realtà opprimente.

 

4.1. Dietro le stragi del 1992

A distanza di più di trent’anni dalle note stragi del 1992, il ricordo di figure istituzionali femminili vittime della violenza di stampo terroristico-mafioso è vivo. Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone e anch’ella magistrato, perde la vita con il marito nell’attentato compiuto il 23 maggio 1992. È complicato misurare il peso della sua influenza nelle scelte non solo di Falcone, ma di tutto il pool antimafia di Palermo di quegli anni. La morte di Francesca Morvillo è equiparata a quella di Emanuela Setti Carraro, moglie del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinati dieci anni prima, e di Lucia Precenzano, moglie del maresciallo Salvatore Aversa, deceduta in Calabria insieme al marito il 4 gennaio 1992. Le tre donne sono accumunate dalla circostanza di rappresentare un modello di amore coniugale che le induce a condividerne il tragico destino[24]. Per sottrarre Francesca Morvillo dal modello di “moglie d’eroe”, è sufficiente tenere conto della sua immagine di qualificata magistrata. Come ben osservato dall’allora Ministro della Giustizia Marta Cartabia[25], dietro la storia di una donna, dal volto gentile, vi è l’incessante lavoro di una giudice minorile che lotta per affermare la valenza degli interventi diretti ad aiutare le future generazioni a non essere attratti dalla strada del crimine, a non essere aspirati dalle leggi dei clan; la notevole attenzione per i giovani si accosta allo specifico interesse per la qualità della pena, in virtù della necessità di rafforzare le garanzie processuali e rivendicare sino in fondo la funzione rieducativa della stessa. Da tale breve ritratto emerge un profilo di rilievo, un modello per tutti i magistrati e le magistrate chiamati ad assolvere con scrupolosità, umanità e impegno il compito di lasciare trasparire ai cittadini il lato “pulito” della giustizia. Il contributo più rilevante di Francesca Morvillo – a parere di chi scrive – è offerto nell’ottica della rimozione degli ostacoli all’accesso alla magistratura da parte della donne; le prime magistrate, infatti, trovano nette difficoltà di integrazione in un ambito prettamente maschile. Il grave ritardo nell’ingresso delle donne in magistratura può essere ricondotto solo in parte all’ambiguità della formula adottata nell’art. 51. Il ricorso ad una legge ordinaria per ribadire principi già consacrati nel dettato costituzionale conferma la perdurante arretratezza culturale degli apparati tenuti ad applicare i principi stessi[26].

Come Francesca Morvillo, anche Emanuela Loi perde la vita, nella strage di via D’Amelio insieme al giudice Paolo Borsellino e altri cinque agenti, per difendere gli i valori inviolabili della legalità e del vivere civile. Il suo ricordo è legato non soltanto all’immagine della prima donna deceduta in servizio, ma al coraggio di “smantellare” la convinzione che sia la figura maschile a dover proteggere quella femminile e non viceversa, compiendo così un’ulteriore passo in avanti ai fini dell’uguaglianza tra uomo e donna. La storia siciliana rivela che una protezione efficace della figura femminile è segno della generale capacità di protezione da parte dell’uomo d’onore, e dunque saper difendere la propria donna risulta un importante mezzo pubblicitario per la propria industria di protezione[27]

A seguito delle due terribili stragi, si leva il grido di ribellione e la sofferenza dei siciliani, specialmente delle donne; quell’affetto e quella stima spesso mancati a tali “simboli” sono manifestati con la loro morte. Per i palermitani mobilitati nel ‘92, l’impegno nella lotta contro la mafia si traduce in un percorso di riscatto, teso al cambiamento, che riprende i valori della legalità e della giustizia caratterizzanti la loro devozione. Entrando nello specifico, il riscatto del popolo siciliano passa attraverso la costruzione di una memoria collettiva e il culto dei morti diventa un modo per liberare le predette figure dall’imperdonabile indifferenza di cui sono state vittime nel corso della loro vita; il mix tra memoria e impegno, altresì, incentiva una loro sacralizzazione: il vocabolario religioso è impiegato per identificarli come “uomini mandati sulla terra per combattere la mafia”, ed i valori difesi per mezzo di un impegno equiparato alla fede sono definiti “miracoli”[28].

Le esperienze del Comitato dei Lenzuoli e dell’Associazione donne per il digiuno maturano in un clima di contestazione contro la tirannia della mafia. La prima prende corpo in maniera spontanea all’indomani della strage di Capaci grazie alla sociologa Marta Cimino; i lenzuoli diventano simbolo di una buona parte di Palermo che intende parlare alla città, ormai stanca di essere il campo di concentramento della mafia[29]. In concreto, si dichiara apertamente e pubblicamente la presa di posizione contro ogni forma di corruzione e convivenza con il predetto fenomeno[30]. Anche quella di digiunare è una scelta femminile, che si consolida dopo la tragedia di via D’Amelio: circa duecento donne occupano per un mese Piazza Politeama a Palermo alternandosi in un digiuno di protesta per arrestare la violenza mafiosa. In linea generale, si tratta di forme d’azioni non convenzionali, strettamente legate alle trasformazioni verificatesi sul territorio, che rappresentano la svolta della società civile nell’ammettere la propria fragilità e la volontà di ricominciare ad esprimersi in un mondo che si attiva partendo dal singolo; tuttavia, i segnali di un cambiamento positivo sono stati enfatizzati, assumendo un significato illusorio, trascurando che tali iniziative avrebbero portato ad un mutamento provvisorio[31].

 

5. Il ruolo-chiave delle donne nell’educazione alla legalità

L’esperienza femminile, consolidatasi in seno ai movimenti associativi che affrontano e combattono il fenomeno mafioso in un’ottica antigiustizialista, ridisegna con modalità originali un nuovo e diverso ritratto dell’antimafia. Verso la fine degli anni ’90 del XX secolo, si percepisce la necessità di attuare un cambiamento culturale puntando sulle varie agenzie educative, tra cui la scuola, la principale realtà di socializzazione del minore con la famiglia. L’educazione alla legalità nell’ambito scolastico prende le mosse proprio dal forte impatto di allarme sociale innescato dalle stragi degli anni ’90. In particolare, la circolare n. 302/1992 del Ministero della Pubblica Istruzione parla di “un’emergenza speciale della nostra società” ed offre una precisa e dettagliata definizione dell’espressione “educazione alla legalità”, che si traduce “nell’elaborare e diffondere un’autentica cultura dei valori civili”; si tratta di una cultura volta a “sviluppare la consapevolezza che condizioni quali dignità, libertà, solidarietà, sicurezza, non possano considerarsi come acquisite per sempre, ma vanno perseguite, volute e, una volta conquistate, protette”. Come prima forma di contrasto al propagarsi della cultura mafiosa, l’educazione alla legalità deve essere inquadrata come un’educazione secondaria rispetto all’intervento educativo in sé, pur avendo un’intenzionalità specifica che si declina in diversi sotto-obiettivi[32]. In tale processo di mutamento, la presenza delle donne è determinante, nella veste di preziose educatrici. Ad una realtà sociale statica e convinta di non poter debellare la cultura mafiosa si accosta una nuova realtà orientata verso modelli culturali ormai lontani rispetto a quelli adottati in passato. Le donne iniziano ad interrogarsi su quale futuro desiderino realmente per i loro figli: se sia ragionevole arrendersi ad una “cultura della morte”, o se invece possa sussistere un avvenire migliore, l’auspicio di una vita normale.

Il numero delle donne impegnate nelle attività di educazione alla legalità all’interno degli istituti scolastici siciliani cresce in maniera progressiva. Dalle recenti relazioni annuali della Direzione Nazionale Antimafia traspare che l’educazione alla legalità e la richiesta di norme più severe registrano una netta prevalenza femminile. Dal territorio siciliano prende forma un rilevante lavoro di sensibilizzazione sul fenomeno mafioso e sull’educazione alla legalità imputabile alla figura dell’insegnante. Tale operato, però, non risulta essere stato mai sufficientemente stimato nelle sue dimensioni e nei suoi effetti costruttivi, sebbene queste donne si siano preoccupate di assicurare ai più giovani quell’educazione necessaria non veicolata dalle Istituzioni[33]

 

6. “Libere di scegliere”: il coraggio delle collaboratrici di giustizia  

Dalle stragi del 1992, l’importanza delle donne nella lotta contro la mafia emerge in modo sempre più capillare. Molta luce sui loro effettivi ruoli affiora dalle preziose testimonianze delle poche e audaci collaboratrici di giustizia. Il variegato universo femminile nel contesto delle attività familiari e quotidiane risulta coinvolto in processi di cambiamento sostanziali, in quanto contaminati dai profondi mutamenti riguardanti il ruolo delle donne nella società italiana[34]. Un luogo privilegiato per studiare le dinamiche del fenomeno mafioso è senz’altro la famiglia, un dispositivo utile per il funzionamento dell’intera organizzazione criminale[35]. Le rigorose pratiche educative di impronta patriarcale dirette ad assoggettare i componenti della famiglia di sangue assolvono la funzione di attribuire agli stessi specifiche posizioni; al contempo, le predette pratiche innescano processi di soggettivazione tesi a creare precise identità, maschili e femminili, rispondenti alla divisione del lavoro all’interno della famiglia mafiosa, recepite in maniera naturale, e dunque, accettate[36]. Dai racconti delle collaboratrici di giustizia, raccolti direttamente o ricavati dagli atti processuali, affiora chiaramente come la volontà di seguire una direzione opposta scaturisca dalla consapevolezza di occupare una posizione periferica all’interno nel proprio nucleo familiare. In tale senso, l’allontanamento dal rigido familiare mafioso costituisce un momento clou del percorso di vita di tali soggetti; ciò segna l’ingresso in una realtà diversa, incentrata prettamente sull’affermazione e sulla valorizzazione della propria persona.

Per la maggior parte delle collaboratrici, il “lutto” rappresenta il passaggio necessario che le porta a reagire alla crudeltà mafiosa: tra le tante, è nota la storia di Rita Atria, una donna che, nata e cresciuta in una famiglia di mafiosi assassinati, decide di rinnegare quel mondo ingiusto fino al punto di svelare i retroscena di diversi crimini al giudice Paolo Borsellino (“prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi”); appena sette giorni dopo la strage di via D’Amelio, la giovane, sconfortata per la morte del procuratore palermitano (“ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita”), si toglie la vita lanciandosi dal settimo piano di un palazzo romano. Rita opta per la via della libertà (“bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di quello o perché hai pagato per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare? Se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo”), ritrovandosi però a percorrere una strada buia e solitaria.

Per il forte impatto emotivo, le sue note dovrebbero essere divulgate negli istituti scolastici, inserendone la lettura in percorsi di educazione alla legalità democratica. A tale proposito, si evidenzia il potere pedagogico delle sofferte riflessioni della donna, che sembra rievocare quello di uno altro diario femminile avversivo al regime totalitario, il diario di Anna Frank[37]. Nel corso del tempo, la storia di Rita Atria è stata ripercorsa attraverso il Mito di Antigone, al fine di assegnare al suo personaggio l’altezza di un eroina. In un contesto corrotto, il mito è deteriorato, e nella profonda crisi delle Istituzioni il senso si è capovolto: la morale coincide con le regole della mafia, e con grande coraggio la giovane le trasgredisce[38].

Altre donne, invece, si allontanano dal proprio ambiente familiare non necessariamente in conseguenza dell’evento-morte. Mentre alcune travolte dal timore di ritorsioni ritrattano (è il caso di Patrizia Beltrame, una ragazza diciannovenne di Poggioreale che accusa i fratelli e la madre di essere responsabili di traffico di armi e di un omicidio), altre si spingono fino in fondo, pur consapevoli delle ripercussioni di tale azione (si pensi a Pasqua Burgio e Concetta Zaccardo, che accusano i rispettivi mariti di assassinio). La “vendetta” è un terreno in cui interessi mafiosi e interessi femminili si incontrano con maggiore facilità, ma è anche il momento in cui affiora la volontà di instaurare un rapporto con la giustizia[39]. Le donne, però, non sempre decidono di collaborare per reagire ad un pericolo, ma innescano pericoli e ne prendono atto, anche se le ritorsioni alla collaborazione degli uomini di mafia sono state certamente più sanguinose[40].

Il pregio di tali dichiarazioni è quello di concedere allo studioso l’opportunità “di studiare le storie, ascoltare le parole, introdursi nei risvolti esistenziali” di tutte quelle donne che decidono di slegarsi in via definitiva dall’organizzazione mafiosa, ponendosi dalla parte dello Stato[41]. Da sempre, le collaboratrici di giustizia – anche nell’ambito dell’opinione pubblica – tendono ad essere percepite con disagio ed imbarazzo; si tratta, infatti, di figure scomode, evasive e vaghe, ma essenziali, come rivelato dalla storia giudiziaria italiana degli ultimi trent’anni[42]. Ancora oggi, appare difficile spiegare come si possa accorgere soltanto a distanza di tempo, osservandole “parlare” in pubblico, della loro esistenza, e di una loro possibile condivisione di norme e valori dell’orizzonte culturale mafioso ritenuto da sempre esclusiva prerogativa degli uomini; le donne sono state ritenute a lungo come “non persone”, ombre invisibili e mute, condannate al silenzio[43].

 

7. Antimafia ed emancipazione

Il tema del ruolo della donna nel campo dell’antimafia è sempre stato affrontato in modo parziale e approssimativo, lasciando sullo sfondo la questione cruciale della diseguaglianza di genere nel Meridione. Affrontare il predetto tema implica necessariamente prendere atto di un mutamento socio-culturale: le donne iniziano a ritagliarsi il loro spazio sia nell’ambito lavorativo sia in quello familiare, lasciando un’impronta rilevante. Dall’esperienza dell’antimafia traspare come le donne abbiano sviluppato importanti capacità che le rendono preziose nei periodi di crisi e di trasformazione; più aperte ai cambiamenti culturali rispetto agli uomini, le donne sono in grado di estrapolare e rivelare ingenti verità sull’organizzazione criminale di stampo mafioso. Oltre a ribaltare la posizione di tale figura nel territorio siciliano (limitata alla procreazione e alla cura dell’abitazione coniugale), l’operato femminile nell’antimafia riesce a “smantellare” quella visione impropria della donna adibita a rafforzare la struttura socio-culturale del sistema mafioso, educare e incoraggiare la prole alla vendetta, difendere la reputazione criminale dei propri compagni e stringere alleanze matrimoniali tra famiglie. Se è vero che la condizione di subordinazione delle donne non si traduce in via automatica nel loro passivismo o nella loro ininfluenza, è altrettanto vero che il ruolo delle donne nella lotta contro la mafia non deve essere assimilato a quello delle “donne d’onore”[44] implicate nell’organizzazione criminale mafiosa; soltanto rispetto a tale categoria è possibile parlare di emancipazione ambigua[45].

L’attuale condizione delle donne nel Mezzogiorno d’Italia, pur essendo profondamente mutata negli ultimi decenni, risulta ancora ben lontana da quella auspicata; tale circostanza trova dimostrazione nel fatto che la questione femminile italiana tende a coincidere proprio con quella meridionale. Il concetto di “doppia presenza”, concepito come nuovo modello di normalità femminile[46], aiuta a cogliere la reale condizione delle donne che risiedono in tali territori. A prescindere dalla varietà di contenuti e significati racchiusi, il predetto modello è interpretato sotto un’ottica differente: se per talune donne è inteso quale punto di partenza per concepirsi come individui liberi di costruirsi una vita piena e foriera di opportunità, per altre diventa una vera e propria “prigione”, nella misura in cui si traduce nella compresenza di due linee che scorrono in parallelo, senza riuscire a fondersi in una durata che abbia come  perno esclusivamente il divenire personale[47]. Alla luce di ciò, molteplici donne finiscono per vivere due vite distinte; la prevalenza dell’una sull’altra “provoca sempre un senso di perdita, di inadeguatezza rispetto a quello che si è dovuto mettere in ombra”[48]. È interessante rilevare come le giovani donne meridionali siano state protagoniste di un importante percorso formativo volto a colmare il divario tra Nord e Sud[49]. Tuttavia, i sostanziali progressi attuati nel settore rischiano di essere vanificati dall’insufficiente capacità del sistema produttivo di incorporare le predette figure. Sebbene presentino consistenti meriti nel processo di modernizzazione del Sud, le donne finiscono per essere sacrificate nel mercato del lavoro: solo una giovane su quattro possiede un’occupazione regolare. L’aggravamento del sistema socio-economico, imputabile anche all’emergenza sanitaria da Covid-19, spinge le donne verso “nuove mete” o le vincola ad una sorte segnata da precarizzazione e disparità salariale, all’accettazione di posti di lavoro non conformi al proprio livello di istruzione, o addirittura all’emarginazione sociale. Nel Mezzogiorno, le donne sono penalizzate sul mercato del lavoro per la mancanza di idonee ed efficaci politiche di conciliazione: come osservato in dottrina, la questione della cura nell’ambito del rapporto Stato-famiglia ha rivelato che per le donne riveste particolare rilevanza sia la presenza di servizi per l’infanzia che di servizi per la terza età, in quanto tali servizi risultano indispensabili nel favorire l’accesso e la permanenza delle figure femminili nel mercato del lavoro, rendendo possibile la conciliazione tra le attività lavorative e quelle familiari[50]. In presenza di un sistema di welfare lacunoso, vi è il concreto rischio di rilanciare modelli culturali che invece dovrebbero essere definitivamente superati. Lo scenario appena delineato determina due effetti collaterali: l’assestamento di una società sempre più ingiusta e la contrazione del potenziale di crescita dell’area meridionale e dunque dell’intero Paese, dal momento che il problema cruciale della coesione economica e sociale dell’Italia dipende anche dalla capacità di accogliere ed incorporare a titolo definitivo nel sistema produttivo il potenziale di conoscenza e competenza delle donne meridionali.

In Sicilia, la componente femminile supera quella maschile; tuttavia, il divario di genere traspare dal tasso di disoccupazione e dalla media delle retribuzioni annuali nel settore privato[51]. Il primo dato risulta comunque sufficiente per ricercare la ragione sottesa alla negazione della rilevanza pubblica, politica e sociale delle donne. Il suddetto interrogativo vale sia per la società nel suo complesso sia per un fenomeno così peculiare come la mafia e la lotta contro la stessa. Sin dalle origini, le donne impegnate nel campo dell’antimafia incentrano il loro operato su un aspetto oggettivo: la cultura siciliana è marchiata da una profonda misoginia; le donne, represse nella vita sessuale ed in quella sociale, hanno profuso la carica vitale, l’intelligenza e l’animo ribelle di cui sono dotate quasi esclusivamente nell’ambito familiare[52]. Si consolida l’idea che donne siano indotte a contrastare il fenomeno mafioso in funzione di un duplice interesse: il primo legato alla necessità di svincolarsi da una società sempre più contaminata; il secondo connesso alla persistente presenza di una concezione patriarcale. È fondamentale sottolineare come la scelta di talune di esporsi pubblicamente non muova dal proposito di competere con gli uomini, bensì dalla volontà di reperire soluzioni concrete al servizio e per il bene della collettività; esse si prefiggono l’obiettivo di non fungere da elemento meramente decorativo, condizionando l’azione politica in maniera diretta e responsabile, senza lasciarsi sopraffare dall’ambizione[53]. In particolare, Rita Borsellino offre il suo apporto nel mondo della politica sia per respingere la violenza della mafia sia per promuovere la libertà e le pari opportunità. Preme ripensare, sotto un’ottica di genere, la divulgazione di modelli culturali alternativi alla sottocultura mafiosa, al fine di comprendere, sostenere e valorizzare un mutamento già in corso, di estremo rilievo[54]. Sebbene i semi piantati dall’Associazione donne siciliane contro la mafia siano germogliati in altri contesti e in altre situazioni, è fortemente sentita la mancanza di un soggetto collettivo che operi senza interruzioni, condannando sia la crudeltà mafiosa sia il clima soffocante di sottomissione che continua ad opprimere le donne in Sicilia.

 

8. Conclusioni

Giunti a tale punto, appare opportuno compiere brevi osservazioni in merito alla grande e inestimabile eredità lasciata da tutte quelle donne operanti nel campo dell’antimafia. Dagli anni ’70 ai giorni nostri, quella della lotta contro la mafia si configura come una storia densa di eventi, spesso tragici, le cui donne protagoniste o co-protagoniste, in dimensioni sempre più crescenti, ed in forme anche volubili, non agiscono soltanto con l’intento di condannare la violenza sanguinosa del fenomeno mafioso, ma anche per veicolare un nuovo messaggio alle proprie simili intrappolate dagli stereotipi culturali, quali “ispiratrici di libertà”. I movimenti femminili che agiscono negli anni più travagliati, denunciando l’esistenza della mafia e la sua nocività, inducono le altre donne a maturare un rifiuto del fenomeno, dando vita alla formazione di un’opinione pubblica sempre più avversa allo stesso. Nella maggior parte dei casi, l’impegno contro la mafia è fondato sulla ridefinizione della propria identità di genere, nonché nella scoperta di un cambiamento culturale intenso; le donne iniziano ad identificarsi come “persone”, individui indipendenti, con una propria mentalità, scegliendo un nuovo modo di essere, pur essendo consapevoli delle relative conseguenze[55]. In concreto, i passi compiuti lungo il cammino della legalità esprimono l’ingresso sulla scena sociale di un nuovo popolo[56]. Il ricordo di tali storie, però, consente di catturare una sofferenza comune: un senso di malinconia per la mancata rielaborazione e legittimazione delle proprie battaglie come esperienze politiche; è sempre più avvertito il disagio verso una dimensione pubblica vissuta ancora a metà[57]. A livello sociale, l’atteggiamento di palese indifferenza è indice della persistenza di una lontananza emotiva che compromette qualsiasi risultato delle esperienze femminili politiche e pubbliche[58]. Quella compiuta dalle donne è una scelta non di “rottura” rispetto al territorio di appartenenza, bensì di “coerenza” con i propri principi e ideali, con le proprie esigenze e i propri desideri: “queste donne, che non si sentono antimafia ma che lo sono per forza oggettiva degli astri e dei loro sentimenti di libertà […] hanno disegnato un pezzo nuovo e fresco della storia d’Italia”[59].

La presenza femminile all’interno dei movimenti antimafia si è manifestata tramite forme comunicative originali ma sporadiche, incontrando grandi ostacoli nel configurarsi in modo strutturato e permanente; la loro esistenza ha stentato ad essere riconosciuta e valorizzata. Tale circostanza è riconducibile anche alla mancata capacità di concretizzare l’autorevolezza conquistata abitando lo spazio pubblico in modo personale, confermando così la difficoltà a riconoscersi come cittadine, interessate a veicolare i valori, gli ideali e la solidarietà verso gli altri[60].

È ancora sentita la necessità di leggere la Costituzione non come qualcosa di incompiuto, ma come un programma da attuare nell’interesse dell’intera Nazione: democrazia, rispetto per la persona umana, libertà per la garanzia della stessa, pari dignità e pari opportunità[61].

Permane l’immagine di una Sicilia combattiva, una terra rosa, per la sostanziale presenza femminile, e rossa, il colore della passione, quella stessa passione con cui le donne hanno portato avanti con ingenti sacrifici una lunga e travagliata lotta sia per la liberazione del territorio dal potere mafioso sia per la sottrazione della figura femminile dagli intollerabili ricatti di una società sempre più contaminata.  

 

* Il presente lavoro è frutto della relazione esposta nel corso del seminario “Palermo e altre primavere. Ricerche in corso” tenutosi il 16 marzo 2023 presso il Dipartimento di Giurisprudenza (Palermo) dell’Università LUMSA

[1] Così, R. SCIARRONE, Campo teorico e generi sociologici del fenomeno mafioso, in Rassegna italiana di sociologia, n. 2, 2009, p. 324.

[2] G. BRIBAUDI, M. MARMO, Che differenza fa, in Meridiana: Donne di mafia, n. 67, 2012, p. 10.

[3] G. SCOLARO, Il Movimento Antimafia Siciliano. Dai Fasci Dei Lavoratori All'omicidio Di Carmelo Battaglia, Catania, 2008, p. 31.

[4] Oltre a Piana dei Greci, Campofiorito, S. Giuseppe Jato, Belmonte Mazzagno, varie sezioni femminili erano aggregate ai Fasci del Parco Altofonte, Sommatino, Bisacquino, Corleone e Chiusa Sclafani. J. Calapso, Donne ribelli: un secolo di lotte femminili in Sicilia, Palermo, 1980, pp. 89-90, segnala che “a Marineo era in programma l’apertura di una sezione femminile nel quartiere S. Anna (…). Le contadine di S. Caterina Villarmosa avevano richiesto l’istituzione di una loro sezione”.

[5] Così, A. ROSSI, L'agitazione in Sicilia: a proposito delle ultime condanne (impressioni e giudizi), Milano, 1894, p. 6.

[6] G.C. MARINO, L'opposizione mafiosa. Mafia, politica, Stato liberale, Palermo, 1986, pp. 232-233.

[7] E.J. HOBSBAWM, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, 1966, p. 127.

[8] V. FRANCO, Care ragazze. Un promemoria, Roma, II ediz., 2010, p. 147.

[9] G. MONTALBANO, La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944-1950), in Diacronie, n. 12/4, 2012.

[10] A. DINO, Antimafia e movimenti delle donne. Protagoniste, culture e linguaggi, in Riv. di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata, Vol. 2, n. 3, 2013, p. 12.

[11] Così, C. PRINCIPATO, “Siamo dignitosamente fiere di avere vissuto così”. Memoria della Resistenza e difesa della Costituzione; scritti e discorsi (a cura di M. CASTOLDI), Ravenna, 2010, p. 104.

[12] F. BALDI, Il disagio della memoria. La mobilitazione delle donne palermitane nel movimento antimafia, n. 5, settembre-dicembre 2004, p. 82.

[13] M.P. DI BELLA, Dire o tacere in Sicilia. Viaggio alle radici dell'omertà, Roma, 2011, p. 32

[14] M.G. RODOMONTE, La parità di genere e l’accesso delle donne alle cariche elettive fra riforme costituzionali e novità legislative, Torino, 2012, p. 422.

[15] A. LAUDANI, Il maxiprocesso come crocevia storico: il ruolo delle donne, in R. BARCELLONA, A. FISICHELLA, S. LAUDANI (a cura di) Mafie, antimafia e cittadinanza attiva. I seminari dell’Università di Catania, Sesto San Giovanni (MI), 2021, p. 70 ss. 

[16] Come ben osservato da R. BILLECI, Mito, conflitto e creatività, in S. CAVALITTO, W.  SCATEGNI (a cura di), Myths, fairy tales, legends, dreams. Bridge beyond the conflicts. The work in groups through images, symbolic paths and sharing stories, Milano, 2010, p. 138, “se il primo di tutti i rapimenti con matrimonio riparatore incluso, avviene in Sicilia, perché ci meravigliamo delle difficoltà che ancora incontriamo ad emanciparci come donne?”.  

[17] Ai sensi dell’art. 544 c.p., abrogato dalla legge 5 agosto 1981, n. 442: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.

[18] A. DINO, Antimafia e movimenti delle donne. Protagoniste, culture e linguaggi, cit., pp. 13-15.

[19] Come ammesso da A. PUGLISI, Donne, mafia e antimafia, Palermo, 1998, p. 27, la mafia “violenta la nostra vita, anche se non ci colpisce direttamene con un omicidio”.

[20] R. SIEBERT, Mafia e antimafia: alla ricerca di categorie interpretative adeguate, in F. RUGGERI (a cura di), La società e il suo doppio. Perché ricercare sull'illegalità, Milano, 2001, p. 134.

[21] Per tale motivo, nel 1984, l’Associazione donne contro la mafia riceve a Milano il premio “Carlo Alberto Dalla Chiesa”.

[22] I. STRAZZERI, Se l'antimafia è donna. Il potere della parola femminile nell'affermazione di una cultura della legalità, in Nómadas. Critical Journal of Social and Juridical Sciences, Vol. 49, 2016, pp. 4-5.

[23] R. SIEBERT, Le donne, la mafia, Milano, 1994, p. 439.

[24] G. FIUME, Francesca Morvillo, magistrata, non solo moglie di eroe, in Atlante. Enc. Treccani, 22 maggio 2022.

[25] Intervento dell’allora Ministra della Giustizia Marta Cartabia durante la presentazione del libro “Non solo per amore. In memoria di Francesca Morvillo”, presso l’Università di Palermo il 23 maggio 2022.

[26] È anche la posizione di F. TACCHI, Eva togata. Donne e professioni giuridiche in Italia dall’Unità a oggi, 2009, p. 137.

[27] O. INGRASCÌ, Donne di mafia e criminalità femminile e collaborazione con la giustizia, in M.L. DE NATALE (a cura di), Pedagogia e giustizia, Milano, 2006, p. 305.

[28] C. MOGE, Eroe, uomo, santo? Il paradosso della memoria di Giovanni Falcone, in M. CALIÒ e L. CECI (a cura di) L’immaginario devoto tra mafie e antimafia. Riti, culti e santi, I, Roma, 2017, p. 231.

[29] G. SAVATTERI, Le siciliane, Bari-Roma, 2021, p. 67.

[30] E. DEAGLIO, Raccolto rosso. La mafia, l'Italia e poi venne giù tutto, Milano, 1993, p. 194.

[31] E. ZERILLI, Strategie comunicative nel dissenso alla mafia, Romagnano al Monte (SA), 2015, pp. 83-84

[32] Per un apprendimento su tali sotto-obiettivi, si veda M.P. FONTANA, Come a scuola Educare alla legalità. Se non abbiamo altre vie che l’educare per contrastare seriamente le mafie, in Animazione Sociale, 2015, pp. 82-23.

[33] Come osservato da I. STRAZZERI, Se l'antimafia è donna. Il potere della parola femminile nell'affermazione di una cultura della legalità, cit., p. 4, “è come se migliaia di donne trasferissero in una gigantesca dimensione collettiva la classica funzione di riproduzione da loro già svolta tra le mura domestiche. Una funzione che […] contrasta direttamente l’analoga funzione svolta, con valori opposti, dalla donna nelle famiglie dell’universo mafioso”.

[34] R. SIEBERT, Tendenze e prospettive, in Meridiana: Donne di mafia, n. 67, 2012, p. 21.

[35] R. CIPRIANI, Per un'analisi polidisciplinare delle storie di vita, in M.I. MACIOTI (a cura di), Biografia, storia e società. L'uso delle storie di vita Nelle scienze sociali, Napoli, 1985, p. 85.

[36] O. INGRASCÌ, M. MASSARI, Mafia e fonti bibliografiche. Lo sguardo interno all’universo mafioso, in ID., Come si studiano le mafie? La ricerca qualitativa, le fonti, i percorsi, Roma, 2022, p. 82 ss.

[37] O. INGRASCÌ, Donne d'onore. Storie di mafia al femminile, Milano, 2017, p. 157.

[38] M.P. DANIELE, Tra cronaca e mito. Il teatro nella società civile, in M. D’AMATO (a cura di), Finzione e mondi possibili per una sociologia dell'immaginario, Padova, 2012, p. 372.

[39] R. SIEBERT, Le donne, la mafia, cit., p. 190 ss. Al contempo, O. INGRASCÌ, Donne di mafia e criminalità femminile e collaborazione con la giustizia, in M.L. DE NATALE (a cura di), Pedagogia e giustizia, cit., p. 315, ammette la difficoltà “di individuare l’autentica realtà, che si cela dietro le storie di collaborazione processuale, poiché si tratta di una scelta che, investendo la sfera affettiva e psicologica, coinvolge in maniera diversa e personale ogni singolo collaboratore”.

[40] A. PUGLISI, U. SANTINO, La ricerca del Centro Impastato su “Donne e mafia”, in F. RUGGERI, (a cura di), La società e il suo doppio. Perché ricercare sull'illegalità, cit., p. 36.

[41] Così, A. DINO, Pentiti. I collaboratori di giustizia, le istituzioni, l’opinione pubblica, Roma 2006, p. 18.

[42] M. MASSARI, «È la giustizia che mette in mezzo le donne»: il carcere, la mafia, le donne, in Meridiana: Donne di mafia, n. 67, 2012, p. 81.

[43] A. DINO, Vita quotidiana di Cosa Nostra: «normalità» della devianza, in A. DAL LAGO e R. DE BIASI (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Roma-Bari, 2002, p. 136.

[44] In particolare, A. PASCULLI, Il ruolo della donna nell’organizzazione criminale: << il caso barese>>, in Riv. di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, Vol. III, N. 2, 2009, p. 81, si sofferma sulle funzioni passive e attive svolte dalle donne di mafia.

[45] R. SIEBERT, Tendenze e prospettive, cit., p. 27.

[46] F. BIMBI, La doppia presenza: diffusione di un modello e trasformazioni dell’identità, in F. BIMBI, F. PRISTINGER (a cura di), Profili sovrapposti, Milano, 1985, p. 88. In senso critico, l’autrice sostiene che la doppia presenza “segna un punto di non ritorno dei processi di trasformazione della condizione femminile, costituendo, più che un nuovo modello di identità convenzionale, un complesso di risorse – materiali e simboliche – per la costruzione di un’identità post-convenzionale”.

[47] M. RAMPAZI, Le radici del presente. Storia e memoria nel tempo delle giovani donne, Milano, 1991, p. 29.

[48] Così, M. RAMPAZI, Le radici del presente, cit., 1991, p. 29.

[49] C. SOLERA, Donne, lavoro e famiglia: una relazione complessa, in R. SEMENZA (a cura di), Lavoro e non lavoro. Le prospettive della sociologia, Torino, 2014, pp. 177-178, sottolinea che “in contesti di genere relativamente tradizionali […] sono soprattutto le persone ad alta istruzione a “rompere gli schemi” ed essere innovative, nei comportamenti e negli atteggiamenti. L’istruzione cioè pare portare con se l’approvazione di nuovi ruoli femminili e maschili e nuovi modelli di relazione, e funzionare anche da passapertout, o perché anche gli altri con cui si hanno “vite collegate” approvano che una donna con figli lavori quando è altamente qualificata, o perché, seppure non approvino, avere un lavoro e soprattutto un buon lavoro fornisce alle donne un maggiore potere contrattuale nella coppia e nella rete parentale per riuscire a seguire le proprie preferenze”.

[50] C. SARACENO, M. NALDINI, Sociologia della famiglia, Bologna, 2020, IV ediz., pp. 255-256.

[51] In Sicilia, il tasso di occupazione femminile è al 29,1%, il dato più basso in Europa. L’Eurostat ha posizionato la Regione anche alla quinta posizione tra le regioni europee per percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni che sono disoccupati, e alla seconda posizione italiana per percentuale di popolazione disoccupata tra i 15 e i 74 anni. Da uno studio dell'osservatorio economico regionale di Confartigianato Imprese Sicilia si evince una disparità del 32,2% tra la retribuzione media percepita dalle donne rispetto a quella percepita dagli uomini.

[52] J. CALAPSO, Donne ribelli, cit., p. 80. 

[53] A. SANTORO, La condizione della donna, in Valderice. Società e cultura, Valderice, 1996, p. 83.

[54] R. CALECA, Contro le mafie, partendo da sé, in Mezzocielo. Contro la mafia. Perché donne, n. 2, 2012, p. 12.

[55] R. CALECA, Contro le mafie, partendo da sé, cit., p. 12.

[56] I. STRAZZERI, Se l'antimafia è donna. Il potere della parola femminile nell'affermazione di una cultura della legalità, cit., p. 7.

[57] F. BALDI, Il disagio della memoria. La mobilitazione delle donne palermitane nel movimento antimafia, cit., p. 2.

[58] In tale senso, L. CAVALIERE, L’orrore e la malinconia, in Mezzocielo. Contro la mafia. Perché donne, cit., p. 13, osserva che “su queste storie dovrebbe saper riflettere e lavorare la politica, di queste storie dovrebbe nutrirsi la cultura”.

[59] N. DALLA CHIESA, Prefazione, in L. IOPPOLO, M. PANZARASA (a cura di), Al nostro posto donne che resistono alle mafie, Massa, 2013, p. 1 ss.

[60] F. BALDI, Il disagio della memoria. La mobilitazione delle donne palermitane nel movimento antimafia, cit., p. 82.

[61] M. CASTOLDI, Introduzione, in C. PRINCIPATO, “Siamo dignitosamente fiere di avere vissuto così”. Memoria della Resistenza e difesa della Costituzione; scritti e discorsi, cit., p. 8.