Tina Lagostena Bassi: la prima volta che la parola “stupro” venne utilizzata in un’aula di tribunale
Tina Lagostena Bassi: la prima volta che la parola “stupro” venne utilizzata in un’aula di tribunale
Introduzione
Augusta (detta Tina) Lagostena Bassi, dopo essersi laureata nel 1951 in Giurisprudenza, inizia a praticare la professione forense dopo aver trascorso un anno nelle aule dell’Università di Parma come assistente. Desiderosa di dare un contributo più attivo, si sposta presto in quelle di tribunale e qui ha modo di rendersi conto del maschilismo presente. Una percezione normalizzata, figlia della cultura dell’epoca che caratterizzava la vita quotidiana e che tendeva a incasellare la donna in ruoli precisi e a demonizzarla qualora se ne fosse discostata. Ne parla nella sua autobiografia, “Una vita speciale” dove racconta alcuni episodi: durante un’udienza, per esempio, un collega con disprezzo le disse che «le donne dovrebbero stare a casa a fare la calzetta».
Erano difatti anni che vanno contestualizzati da un punto di vista storico, sociale e giuridico.
L’iter storico: dal codice Zanardelli al codice Rocco
Il Codice penale del 1930, vigente tuttora, già disciplinava negli Anni ‘60 e ‘70 i delitti di “violenza carnale” e di “atti di libidine”, inserendoli però tra le fattispecie poste a tutela “della libertà sessuale” e, più specificatamente, “della moralità pubblica e del buon costume”.
Poco dunque era cambiato rispetto al precedente Codice Zanardelli del 1889, che sempre distingueva i reati sessuali in “violenza carnale” e “atti di libidine violenti”: ai tempi del codice Zanardelli la differenza si giocava sul se si fosse o meno consumato l’atto sessuale completo: ciò significava che le corti del tempo per accertare il fatto e dunque per decidere se l’imputato avesse commesso il fatto delegavano alla vittima la ricostruzione dettagliata dell’accaduto, che si trovava a dover ripercorre, durante udienze rigorosamente pubbliche, le tappe dettagliate di un evento traumatico che spesso veniva sminuito dall’opinione pubblica addossandole la responsabilità di essersi eccessivamente esposta. Inoltre, i reati di violenza carnale e quelli di atti di libidine violenti erano considerati crimini contro l’onore e la reputazione della famiglia e contro la potestà familiare del marito o del padre verso la donna vittima di violenza. In altre parole, veniva riconosciuta tutela alla donna soltanto in funzione del suo ruolo nella famiglia, e quindi unicamente come figlia o moglie.
Ebbene, tornando al nuovo codice Rocco, tali reati continuavano a essere considerati contro la pubblica moralità: ancora una volta contro l’onorabilità altrui e non anche contro la persona che li subiva. La stessa libertà sessuale a cui faceva riferimento il nuovo codice aveva una connotazione sfocata, tanto che, qualora la vittima non avesse avuto un marito o addirittura fosse considerata “di facili costumi”, le pene erano ridotte.
Ius est factum: il cambiamento che doverosamente travolge anche il diritto
Volendo restare fedeli alla premessa iniziale circa il dovere di contestualizzare il periodo storico in analisi, occorre evidenziare una caratteristica importante e affascinante del diritto: la sua costante esposizione al cambiamento. La legge cambia e si adatta ai mutamenti della stessa società che si trova a regolare (è emblematica la frase «Se il mare è mosso, è ancor più necessario un timone che non si irrigidisca ma corrisponda con duttile energia alla mobilità delle onde. Quel timone ‒ ne sono certo ‒ è per noi la teorica dell’ordinamento giuridico, strumento duttile che si presta a rivestire la pluralità e a disciplinarla senza soffocarla» [1]).
È noto che la nostra società di cambiamenti ne ha conosciuti tanti, soprattutto a partire dagli Anni ’60 e ’70, che hanno visto la nascita e l’affermazione dei movimenti femministi in lotta per una visione della donna diversa da quella sociale e legislativa che la relegava ai soli ruoli di figlia e moglie e mai in quanto persona.
Un’ondata di nuove consapevolezze e battaglie verso una concezione più moderna che hanno visto una concretizzazione in termini di risultati normativi solo nel 1996, con la Legge numero 66 del 15 febbraio dello stesso anno, che ha inquadrato il reato di violenza sessuale proprio tra i delitti contro la persona, ponendo l’accento sull’autodeterminazione della donna. Ebbene, coautrice di tale riforma è stata proprio Tina Lagostena Bassi.
La figura e il contributo di Tina Lagostena Bassi
Oggi il reato di violenza sessuale è sinonimo di stupro ed è punito dall’Articolo 609 bis del Codice penale, con la pena della reclusione dai sei ai dodici anni.
Dalla ricostruzione storico-legislativa emerge però un vuoto di circa 30 anni. La domanda è lecita: cosa è successo dagli Anni ‘60/’70 al 1996 e come si è arrivati alla riforma del reato di violenza sessuale? La risposta si ricollega al senso di indignazione pubblica nata e accresciuta nel corso del tempo rispetto a fatti -più o meno noti- avvenuti sulla pelle delle stesse persone, prevalentemente donne, che gradualmente e con infinito coraggio hanno iniziato a smantellare o quanto meno a mettere in crisi la comune opinione fornendo nuovi punti di vista e conducendo così a cambiamenti anche legislativi.
Tra tutti i fatti sommersi dell’epoca, quello maggiormente noto risale al 1965, quando Franca Viola si sottrasse al matrimonio riparatore iniziando a incrinare l’opinione comune che normalizzava l’assoluzione del reo in caso di violenza carnale se seguita da matrimonio tra gli stessi protagonisti della vicenda delittuosa. Dopo la denuncia, l’imputato venne condannato a 11 anni di carcere, malgrado i tentativi di screditare la donna e l’ambiente ostile. Ostilità giudiziaria che, esattamente dieci anni dopo, Tina Lagostena Bassi e Donatella Colasanti si trovarono a vivere durante il processo sui fatti del Circeo. L’episodio aveva sconvolto e scisso l’opinione pubblica riaccendendo i riflettori sulla violenza carnale e sulla cultura misogina presente nella società. Per la prima volta, migliaia di donne e movimenti femministi si riunirono in proteste e grandi manifestazioni in piazza per sottolineare la problematica della violenza di genere, spesso giustificata giudicando le abitudini, sessuali o meno, della donna stessa. La figura di Tina Lagostena Bassi si inserisce proprio in tale circostanza: ha patrocinato questo processo portando alla condanna dei tre imputati.
L'impegno dell'avvocata Lagostena Bassi nei processi riguardanti le molestie sessuali non si concluse con il processo del Circeo. Da quel momento in poi si batté per l'introduzione della parola “stupro” come sinonimo di violenza sessuale, al fine di registrare un maggior impatto e sensibilizzare l'opinione pubblica.
Ciò avvenne in occasione di quello che passò alla storia come il primo processo per stupro mandato in onda dalla Rai[2]. La vittima era ragazza diciottenne di nome Fiorella, il cui cognome non fu mai reso noto, e di 4 uomini imputati che l'avevano attirata proponendole un lavoro stabile.
Trasmetterlo sulla televisione pubblica rappresentava un cambiamento epocale: l’idea venne a sei giovani programmiste e video maker della Rai, che riuscirono a convincere l’allora direttore a mandarlo in onda. Fondamentale fu il ruolo di Tina Lagostena Bassi che evidenziò i comportamenti normalizzati e troppo frequenti dei i difensori degli imputati nei confronti delle vittime indirizzando loro insinuazioni e domande inopportune. Un documento prezioso, ancora reperibile, che risulta attuale e che meriterebbe una più ampia divulgazione.
Per merito dell’azione sinergica di persone come Tina Lagostena Bassi e del coraggio delle vittime è stato possibile ottenere, a partire proprio da quel periodo, leggi significative: tra il 1968 e il 1969 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 559 del Codice penale che puniva unicamente l’adulterio della moglie fino al 1975, anno della riforma del diritto di famiglia, che ha abolito l’autorità maritale e riconosciuta la parità all’interno della famiglia. Per poi arrivare al 1996, anno della riforma che ha ricondotto il reato di violenza sessuale tra i delitti contro la persona.
Considerazioni conclusive
Tina Lagostena Bassi ha attraversato il conflitto culturale di un mondo immobile e gestito da energie maschili. Le sue battaglie sono state rivoluzionarie, rigorose e avanguardiste: l’obiettivo era quello di riequilibrare i due poli del maschile e del femminile senza farne prevalere uno a discapito dell’altro, nella piena equità. Le sue difese hanno difatti avuto come protagonisti anche ragazzini violentati perché si trovavano in condizioni fisiche o economiche svantaggiate, evidenziando ancora una volta quanto la tematica del potere spesso rappresenti il filo conduttore di tali reati. Solenne e mai schierata gratuitamente, ha a tal proposito criticato pubblicamente il movimento femminista quando nel 1978 non volle mobilitarsi per un fatto di violenza ove la vittima era un ragazzo. La stessa critica che avanzò al sistema giudiziario per l’abitudine di infliggere pene più aspre per fatti di stupro collegati a componenti etniche: “se la legge punisce gli stranieri e non gli stupratori giustizia non può dirsi fatta”. Emblematico è uno stralcio della sua arringa finale nel processo mandato in onda sulla Rai in cui asserì che: “una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza.” “
Le tematiche di cui si è fatta portatrice sono ancora attuali. Per tale motivo esistenze come la sua meritano di essere conosciute perché permettono da un lato di prendere atto dei cambiamenti registrati e dall’altro di quanto ci sia da fare da un punto di vista sociale, culturale e solo successivamente giuridico, anche alla luce dei fatti di cronaca ancora troppo frequenti.