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Il ruolo del docente nella Costituzione

Analisi strutturata che passa attraverso un doppio binario: giuridico e letterale: attingendo alla Costituzione e al dizionario
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Il ruolo del docente nella Costituzione


Definire il ruolo dell’insegnante, contestualizzato e circoscritto al periodo storico corrente, richiede un’analisi strutturata.

Indice:

  1. Il ruolo dell’insegnamento secondo la Costituzione italiana
  2. La definizione di insegnante: il connubio tra “dedizione” e “professione”
  3. Diventare insegnanti: quali requisiti
  4. Il labile confine tra bagaglio culturale ed emotivo
  5. Dedizione, professione e ruolo: ingredienti necessari per un corretto uso dell’emotività.
  6. Stimolare la curiosità come obiettivo principale: considerazioni conclusive


1. Il ruolo dell’insegnamento secondo la Costituzione italiana

Il nostro testo costituzionale cita l’insegnamento dapprima all’articolo 9 declinandolo nel generale lemma della cultura, nei termini della sua promozione.

Più nello specifico, sono gli articoli 33 e 34 a occuparsi della scuola e dell’insegnamento, sancendone la libertà, suffragata dalla presenza di scuole statali per tutti gli ordini e gradi e un trattamento equipollente tra alunni e alunne delle scuole private e di quelle pubbliche.

L’articolo 34, infine, prevede che la scuola sia aperta a tutti e che i capaci e i meritevoli abbiano il diritto di raggiungere le più alte vette in termini di istruzione, ponendo così l’attenzione sul concetto di meritocrazia, sintomo inequivocabile di democrazia. Tale norma costituzionale si chiude infine con la previsione degli strumenti atti a rendere effettivo questo programma: la Repubblica deve concretizzare tali programmi attraverso l’erogazione di borse di studio, assegni alle famiglie bisognose e altre provvidenze che devono essere attribuite tramite procedura concorsuale.


2. La definizione di insegnante: il connubio tra “dedizione” e “professione”

Passando al secondo binario, secondo la Treccani, “insegnante” è colui il quale “si dedica all’insegnamento, chi esercita la professione d’insegnare...”; quasi per deformazione professionale, appare doveroso a chi scrive soffermarsi sulla sintassi della suddetta definizione, o meglio sulla scelta dell’accoppiamento dei lemmi che la compongono.

Due, difatti, sono le sue parti: si inizia con l’evidenziare la dedizione verso l’atto per poi declinarlo nell’esercizio di una professione.

E se la dedizione si sostanzia nella totale e costante offerta di sé per un fine, quanto è facile trasformarla in una professione e quanto, per converso, è arduo rintracciare tale offerta di sé nella professione?

In un mondo idilliaco, le due cose apparirebbero collegate senza alcuna possibilità di esclusione: ogni insegnante dovrebbe prima di tutto avere qualcosa da offrire per poi essere disposto a trasmetterlo alla platea di riferimento. Non solo: tale offerta dovrebbe essere contrassegnata dai caratteri della totalità e della costanza. Solo in presenza di tutte queste variabili si potrebbe, finalmente, giungere a considerare tutto ciò una professione.


3. Diventare insegnanti: quali requisiti

Nel mondo attuale invece, al di là della retorica e dello scarico di responsabilità che assume le drammatiche sembianze di una partita di ping pong tra chi insegna, chi impara e chi dovrebbe da un piano superiore regolare tale rapporto (segnatamente lo Stato, primi fra tutti il legislatore e il governo), le cose non seguono il razionale ritmo dell’analisi finora svolta.

Invero, per diventare insegnante servono dei titoli: almeno una laurea magistrale (sebbene nella scuola dell’infanzia e primaria, così come per alcuni insegnamenti tecnico pratici, è ancora possibile insegnare soltanto con il diploma); per il sostegno invece occorrerà il titolo di specializzazione, ovvero avere l’abilitazione, che può conseguirsi con un apposito corso di specializzazione.


4. Il labile confine tra bagaglio culturale ed emotivo

Qualsiasi titolo è utile: ogni laurea può rappresentare un legittimo accesso all’insegnamento, previa individuazione della cosiddetta “classe di concorso” d’insegnamento alla quale si può accedere.

Tirando le somme di quanto detto finora, se qualsiasi titolo di studio universitario può dare accesso all’insegnamento e dunque può conseguentemente permettere di esercitare tale professione, quanto l’aspetto della dedizione rischia di essere tralasciato?

La valutazione dei titoli è per definizione oggettiva, fredda: non tiene conto dell’aspetto emotivo del singolo.

Spesso, un copioso bagaglio culturale non garantisce che il suo proprietario abbia l’intenzione o la predisposizione per condividerlo.

Per fare l’insegnante occorrono i titoli, i punteggi e la conoscenza di tutta l’annosa burocrazia che contrassegna tale settore; per essere un insegnante occorrono una miriade di altre qualità; alcune sono innate, altre vanno coltivate ed altre ancora preservate.

Anzitutto, la capacità di mettere a tacere la propria vanità per la comprensibilità: il linguaggio va modulato a seconda degli interlocutori, cercando di plasmare parole e discorsi al fine di rendersi decifrabili ai loro occhi.

Occorrono altresì pazienza, umiltà, predisposizione al dialogo e all’ascolto, oltre che all’osservazione. A volte, la spiegazione di alcuni ambigui e strambi atteggiamenti propri delle studentesse e degli studenti, si può ottenere solo attraverso una loro attenta e oculata ispezione visiva.

Quella dell’osservazione è un’attività ardua, che richiede impegno, costanza ed esercizio. E proprio tale passaggio permette di giungere al punto più critico di tutti: per poter osservare in modo razionale al fine di capire e conseguentemente migliorare il dialogo con chi si mostra criptico o criptica, si necessita di una buona dose di distacco sentimentale. Perché se affezionarsi alle ragazze e ai ragazzi con i quali si condivide talvolta la maggior parte del proprio tempo è inevitabile, rimanere centrati nel proprio ruolo è doveroso.


5. Dedizione, professione e ruolo: ingredienti necessari per un corretto uso dell’emotività

Ed ecco che, tra la dedizione e la professione, si interpone un nuovo lemma, quello del ruolo. Perimetrare la propria emotività al ruolo rivestito è sovente più difficile che conseguire una laurea, lo stesso titolo che permette di accedere a tutto questo.

L’insegnante ha a che fare con esseri umani la cui personalità è in via di definizione e, forse, tutto ciò che è tenuto a fare – al di là della trasmissione del sapere – è mettere sul tavolo da lavoro innumerevoli e diversi strumenti atti a rendere quella definizione meno nebulosa possibile. È tuttavia doveroso tenere a mente che la scelta degli strumenti rimane sempre una questione personale.

Per quanto invece concerne quello a cui si è pocanzi fatto cenno, verbigrazia la trasmissione del sapere, anche in tal caso si assiste al fisiologico scontro tra “ruolo”, “dedizione” e “professione”.

Svolgere il proprio ruolo col minimo sforzo e il massimo risultato in termini di rapporto tra quantità delle ore di lavoro e dispendio di energie, è alla portata di chiunque: basta ripetere memonicamente le informazioni che si è deputati a trasmettere. Finire il programma nel tempo prestabilito è cosa da tutti. Altra questione, invece, è accendere la scintilla della curiosità, per lo meno provarci.


6. Stimolare la curiosità come obiettivo principale: considerazioni conclusive

È ovvio che tale campanello non suonerà sempre e indistintamente: occorre scendere a patti con la consapevolezza che qualcuno di loro non vorrà recepire, capire, seguire.

Ci saranno persone che non avranno la benché minima intenzione di accogliere la traccia che l’insegnante cerca di lasciar loro e che dunque non nutriranno curiosità alcuna, o semplicemente sceglieranno di non coltivarla, di bloccarla sul nascere come poche linee di febbre smorzate dal paracetamolo: esattamente come quando si avvertono i primi sintomi ma, anziché farli sfogare e permettere al proprio corpo di vivere quel fisiologico evento, si sceglie la strada dell’Efferalgan 1000. Al di là della singolare metafora che associa la scelta di uno studente di non dar seguito ai tentativi del proprio insegnante di mostrargli le varie alternative, c’è un concetto importante da tenere saldo in mente: un sentimento quotidiano col quale bisogna imparare a rapportarsi quando si è seduti dall’altro lato della barricata è la frustrazione.

Se ne prova tanta e in modo pressoché costante quando si è un insegnante, e non un arreso laureato che ne esercita meramente la professione.

Forse, è proprio a questo sentimento che spetta il nobile compito di tracciare la linea di distinguo tra fare ed essere un docente: se lo fai, di fronte al fallimento resti piuttosto indifferente. Viceversa, se lo sei, di fronte alla medesima sconfitta provi una frustrazione così acuta da aver bisogno di riprendere fiato, prima di rimetterti sulla strada e portare avanti, con un entusiasmo tale da non permettere alle contingenze fisiologiche degli eventi di minare quella dedizione.