x

x

Marina e Ulay: il romanticismo che resiste all’evidenza del diritto

Marina Abramović
Marina Abramović

Era il 1976 quando Marina Abramović e Ulay (al secolo Frank Uwe Laysiepen), entrambi nati il 30 novembre e dediti alla nascente arte della performance, si incontrano ad Amsterdam nel giorno del loro compleanno.

La loro unione fu totalizzante e ben impiegabile per indagare sui vari stadi dell’amore, per quanto a volte i modi di rappresentare la vita di coppia si palesavano come estremi, disturbanti e deliberatamente osceni agli occhi degli spettatori poco allenati a guardare l’arte come qualcosa in grado di oltrepassare i limiti del visibile e del dicibile. 

Quando incontrai Ulay nel 1975, lui era diverso da chiunque altro avessi mai visto. Tra di noi iniziò qualcosa di molto curioso, emozionante […] e naturalmente scoppiò un amore sempre più grande. Un amore fisico, carnale, emotivo, spirituale, fraterno ed eterno” si legge nella biografia di Marina Abramović [M. Abramovic, attraversare i muri, Bompiani, 2018] e difatti né lei né Ulay hanno mai avuto dubbi o ripensamenti nel raccontare la nascita della loro relazione.

Formarono, invero, quello che venne chiamato “The other” e per dodici anni esplorarono i limiti del corpo, delle relazioni umane, della dipendenza e della distanza affettiva.

Una performance fra tutte, casualmente selezionata per la vastità del loro campionario artistico, è l’immagine dell’arco doppio con due frecce, deliberatamente realizzata nel modo che, se uno dei due avesse tirato il colpo, avrebbe ucciso inevitabilmente l’altro; al minimo movimento la presa si sarebbe allentata e la freccia scoccata. Si tratta di una raffigurazione estremamente tesa del rapporto di coppia, in cui l’amore è un’arma nelle mani dell’altro e la minima debolezza può rivelarsi fatale. E se l’equilibrio si basa sulla reciproca tensione ben presto inesorabilmente si verificheranno segni di cedimento che lo metteranno in crisi.

Così quel loro amore, così intenso e profondo, nel 1988 arrivò al capolinea e insieme decisero di compiere l’ultimo simbolico atto prima di separarsi: partire insieme per la Cina con il proposito di percorrere la Muraglia Cinese in solitaria, dai due estremi opposti; Ulay dal deserto del Gobi e Marina dal Mar Giallo. La ratio di un tale progetto risiedeva nella volontà di dirsi addio venendosi incontro: uno scopo inverosimile, quasi sinonimo di fantascienza quando un amore finisce nel mondo reale, ove ciò che noi comuni mortali proprio non riusciamo a inscenare è la decretazione di un addio che vada verso e non contro il dolore dell’altro, pronunciato con la stessa cura che caratterizza l’inizio di quello stesso legame che volge al termine. 

Il progetto di Marina Abramović e Ulay prese così forma e, dopo una camminata di 2.500 chilometri, si incontrarono per separarsi definitivamente. Il titolo di questa loro ultima performance è “The Great Wall: Lovers at the Brink”, un documentario che venne prodotto dalla BBC. 

Ma a distruggere l’illusione che l’amore possa davvero finire senza grigie note di risentimento, ci pensò il diritto, segnatamente gli avvocati e le cause sui diritti d’autore: in particolare, il 23 settembre 2016 il Tribunale olandese condannò Marina Abramović al pagamento di 250.000 euro all’ex compagno, per la violazione di un contratto firmato nel 1999 su alcuni lavori condivisi, ivi compreso quello attestante la fine della decennale relazione nella struggente performance sulla Grande Muraglia Cinese.

Il giudice olandese accolse così le ragioni di Ulay, per il quale Marina si era resa responsabile di aver portato diverse opere nelle varie gallerie presentandosi come unica autrice, lavori che invece erano frutto della collaborazione ultradecennale della coppia. Evidente è la violazione di un segmento fisso nelle normative sul diritto d’autore: se l’opera è il frutto del lavoro condiviso di più persone, allora vi saranno più autori che potranno vantarne la paternità e dunque esercitare i relativi diritti, morali e patrimoniali.

Stando agli atti del processo, la nonna della performance (come lei stessa si definisce) avrebbe altresì mentito sui prezzi di vendita, corrispondendo ad Ulay un prezzo nettamente inferiore rispetto a quanto realmente percepito e tutto ciò in solo quattro occasioni, spalmate nel corso di ben sedici anni.

«Sono stato costretto a difendere la mia eredità, i miei diritti morali in quanto co-autore, e il mio diritto a ricevere quel che mi spetta dalla vendita di queste. Spero che ora potremmo stare in pace e trattarci con rispetto, lasciarci alle spalle questa causa e lavorare insieme per promuovere la nostra eredità artistica condivisa» [Per maggiori approfondimenti sulla vicenda]: queste le parole di Ulay all’indomani della sentenza.

Eppure, nonostante le diatribe giuridiche e la conseguente condanna di risarcimento, stavolta il diritto – inteso come la scienza dei fatti della vita – non riesce ad offuscare del tutto il forte alone emotivo che caratterizza la loro unione e il sodalizio artistico: non a caso, l’immagine che immediatamente si palesa davanti alla generalità degli occhi quando si sente il nome di Marina Abramović e Ulay non attiene ai tribunali e alle lotte sui diritti d’autore ma è piuttosto quella del loro ultimo incontro, in occasione del “The Artist is Present” al MoMA di New York, in cui si rividero dopo 23 anni da quel viaggio in Cina.

Al MoMA, per tre mesi, Marina era rimasta seduta sette ore al giorno davanti una sedia vuota per guardare negli occhi il visitatore di turno per due ininterrotti minuti e in rigoroso silenzio; durante una di quelle giornate, Ulay le si sedette improvvisamente di fronte e l’emozione di rincontrarsi cambiati fu palpabile. Se Marina fosse o meno preparata a quell’incontro non ci è dato sapere: i più cinici diranno di sì. 

La reazione di entrambi è storia ed è, oggi, l’immagine che campeggia sullo schermo quando i loro nomi vengono digitati insieme sui canali di ricerca. La diatriba legale poco risalta quando si parla di loro. 

Tribunali e cause sui diritti artistici a parte, una cosa è tanto certa quanto innegabile: in quei due minuti a New York, Marina e Ulay sono riusciti a raccontare, senza proferire parola e servendosi ancora una volta dell’arte della performance, l’amore mutato a seguito della capacità di separarsi, rigenerarsi e di tornare a brillare con una luce diversa, ma non per questo meno intensa.

E ai non cinici, questo basta.