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Marchio tridimensionale: quando le borse sono da tutelare

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Marchio tridimensionale: quando le borse sono da tutelare

La Corte di legittimità si esprime sulla tutelabilità come marchio tridimensionale della forma di un prodotto, accogliendo parzialmente il ricorso di Hermès contro la decisione della Corte d’Appello di Firenze, che aveva confermato la sentenza di primo grado in cui era stata dichiarata la nullità dei marchi di forma delle celebri borse Kelly e Birkin che, a causa delle loro “forme standardizzate”, difettavano di capacità distintiva.
 

Considerazioni di premessa

Il marchio è il segno distintivo per eccellenza, volto a contraddistinguere prodotti o servizi sui quali è apposto all’interno del mercato. Plurimi sono i segni atti a divenire un marchio.

Si è imposto anche il marchio di forma ovvero marchio tridimensionale. Come si intuisce dalla radice semantica, il marchio tridimensionale è un segno costituito da una forma tridimensionale o comprendente una tale configurazione, che permette di riconoscere ovvero di identificare un bene attraverso la sua forma, il suo contenitore e la sua confezione.

Vi sono alcuni elementi principali che integrano i segni tridimensionali, quali la forma del prodotto stesso, il contenitore che lo conserva, la confezione o qualsiasi design specifico del prodotto che lo rende diverso[1].

E ancora, il marchio tridimensionale utilizza l’imballaggio e l’involucro per differenziarsi, al fine di rendere il prodotto più attraente e diverso dai suoi concorrenti (si pensi alla bottiglia Absolut Vodka o alla bottiglia Nestlé Nescafé).

Infine, l’uso di un marchio tridimensionale conferisce ai prodotti e alle aziende che li rappresentano un vantaggio dal punto di vista del marketing. In particolare, perché aiuta il consumatore a riconoscere velocemente un prodotto, senza bisogno di una ricerca dettagliata.
 

Il quadro normativo

Il marchio riceve corposa tutela sia in sede nazionale che eurounitaria.

Vi è, in primis, il  Codice della proprietà industriale (“CPI”), emanato con Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, che ha introdotto nel sistema italiano una disciplina organica e strutturata in materia di tutela, difesa e valorizzazione dei diritti di proprietà intellettuale, riordinando e accorpando oltre 40 testi normativi, tra leggi e provvedimenti, conseguenti in particolare all’adeguamento delle norme italiane ai regolamenti comunitari e alle disposizioni delle convenzioni internazionali a cui l’Italia ha aderito. In particolare, il Codice richiama e fa propri i principi generali e i contenuti della Convenzione di Parigi del 1883, il primo trattato internazionale sui brevetti che ancora oggi rappresenta, per i 157 Stati aderenti, uno dei principali punti di riferimento per la disciplina internazionale della proprietà industriale. La Convenzione è stata aggiornata più volte, l’ultima delle quali nel 1967 con la Convenzione di Stoccolma che ha portato alla costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI) con sede in Ginevra.

In secundiis, la normativa eurounitaria contenuta, inizialmente, nel regolamento (CE) n. 40/94 del Consiglio, del 20 dicembre 1993, sul marchio comunitario, che ha subito numerose e sostanziali modificazioni, fino ai Regolamenti (CE) n. 207/2009 e Regolamento UE 2017/1001 del Parlamento Europeo e del Consiglio.
 

Ordinanza Cassazione Sez. I civile n. 30455 del 17 ottobre 2022

La questione origina dalla controversia insorta tra la maison Hermès ed una pelletteria toscana: la casa di moda francese aveva depositato il marchio tridimensionale, nella duplice versione “Birkin” e “Kelly” e ne lamentava la produzione contraffatta da parte della seconda.

Di contro, l’azienda di pelletteria toscana eccepiva la nullità del marchio, in quanto non “sufficientemente” originali e, per questo, “non distintive”.

In primo e in secondo grado, i giudici del merito hanno accolto le argomentazioni della convenuta società toscana.

Il giudizio passa, così, ai giudici di legittimità, su ricorso proposto da Hermès.

Gli ermellini ripercorrono, in primis, i fatti di causa: Hermès International e Hermès Italie lamentavano la violazione, da parte di Buti Amerigo & C. sas, Buti srl e Buti Italia srl, di propri diritti di privativa industriale[2], nonché la commissione di atti di concorrenza sleale, costituiti dalla produzione e commercializzazione delle borse, asseritamente, imitanti i propri modelli Kelly e Birkin.  

L’adito Tribunale di Firenze, con sentenza del 10 maggio del 2016, rigettava le domande proposte dalle attrici e, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dalle società convenute, dichiarava la nullità dei predetti marchi di titolarità dell’attrice Hermès International, per mancanza di “capacità distintiva”.

Il gravame, successivamente proposto dalle società attrici, è stato rigettato dalla Corte d’appello di Firenze con sentenza del 7 marzo 2018, avverso la quale le società Hermès hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, resistiti da Buti di Buti Amerigo & C., Buti e Buti Italia.

In particolare, le società Hermès denunciano erronea e falsa applicazione degli artt. 9, lett. a) e d), del Regolamento dei marchi comunitari n. 1001 del 2017 (già n. 207 del 2009) e 13 a) c.p.i.[3], per avere la sentenza impugnata dichiarato la nullità del marchio sulla cui validità si era formato il giudicato, per effetto della sua registrazione presso l’Ufficio dei marchi comunitari, nonché per avere irragionevolmente ritenuto il marchio di forma Hermès privo  di capacità distintiva e la prova del secondary meaning unico mezzo per l’acquisto di detta capacità da parte del marchio stesso. 

Gli Ermellini, sulla prima censura, rilevano che la registrazione del marchio (anche comunitario) determina una presunzione semplice di validità dello stesso[4], ma non preclude la successiva dichiarazione di nullità, se provata da chi lo impugna.

Quanto alla seconda e terza censura, le ricorrenti denunciano l’errata e falsa applicazione degli articoli 121 CPI e 99 del succitato Regolamento, per avere ritenuto che l’onere della prova del carattere distintivo della forma delle borse incombesse sulla titolare dei marchi azionati, invertendo  l’onere  della  prova  secondo  l’ordine  legale,  in base al quale la nullità del marchio dev’essere provata da chi propone la domanda di nullità, cioè dalle società convenute, e non dal titolare del marchio (prima censura).

Ancora, per avere erroneamente escluso la distintività e notorietà del marchio (di forma) nonostante l’ampia documentazione prodotta, costituita da inserzioni e annunci pubblicitari, rassegne stampa, articoli sulla stampa internazionale di giornalisti ed esperti di moda e di tendenza, citazioni cinematografiche e serie televisivi, citazioni enciclopediche (Wikipedia), sentenze di giudici di merito[5], che hanno accertato la distintività, notorietà e validità del marchio e, comunque, validazione dello stesso in termini di secondary meaning[6], trattandosi di modelli di borse legati a figure femminili di primo piano nella storia del costume del XX secolo, diffusamente riconosciute dal pubblico come identificative di Hermès proprio in relazione alle loro peculiari forme (seconda censura); inoltre, per avere ritenuto che l’indagine demoscopica, che i giudici di merito avrebbero potuto disporre d’ufficio anche tramite una consulenza tecnica, fosse l’unica possibile per accertare il riscontro del prodotto nel pubblico e ricostruire l’atteggiamento della maggioranza dei consumatori (terza censura).

Il primo motivo, che investe l’onere probatorio risulta fondato ed invero, l’articolo121, comma 1 c.p.i., stabilisce che “l’onere di provare la nullità o la decadenza del titolo di proprietà industriali incombe in ogni caso a chi impugna il titolo”. La Corte d’appello aveva ritenuto che tale onere, attesa la nullità del marchio di forma, fosse incombenza del titolare del marchio, in ciò ignorando che si tratta di marchio comunitario registrato e che, in quanto tale, esso gode di una presunzione semplice di validità, in base a costante giurisprudenza della Suprema Corte[7], che può essere superata solo previa positiva prova della nullità che incombe a chi impugna il titolo, quindi, nella specie, alle società Buti convenute.

Anche la seconda censura, riguardante la questione della capacità distintiva del marchio di forma relativo ai due modelli di borse Hermès, è fondata ed invero, gli Ermellini svolgono, al riguardo, puntuali argomentazioni: è  principio generale che la forma tridimensionale di un prodotto, sebbene presenti un design di qualità o esteticamente apprezzabile, non è suscettibile di privativa, in quanto, almeno di regola, non idonea di per sé a identificare il produttore, a meno che non vi sia un legame esplicito che leghi il prodotto alla sua origine (ad esempio, mediante apposizione del nome o di un segno riferibile al produttore).

A conferma di ciò, il codice, ai sensi dell’articolo 9, esclude la registrazione come marchi d’impresa dei «segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto» e «dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto», pur consentendo, in base all’articolo 7, la registrazione come marchio d’impresa anche della «forma del prodotto o della confezione di esso […] purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese».

Diventa, così, centrale la verifica della capacità distintiva del marchio.

Tale questione, di recente, si è imposta alla giurisprudenza eurounitaria, anche con riferimento al marchio di forma ed è stata risolta nel senso che “solo un marchio che si discosti in maniera significativa dalla norma o dagli usi del settore e che, di conseguenza, assolva la sua funzione essenziale di indicatore di origine, non è privo di carattere distintivo, nel senso della disposizione”[8].

La maniera significativa in cui deve consistere lo scostamento della forma da quella usuale del prodotto, secondo le pertinenti prassi di settore, deve essere “agevolmente rilevabile dai consumatori”, a prescindere dalla mera novità della forma, che non è sufficiente per concludere che tale carattere distintivo esiste, in quanto il criterio determinante è la capacità di tale forma di svolgere la funzione di indicazione dell’origine commerciale[9].

La giurisprudenza europea ha chiarito che “non si può escludere che l’aspetto estetico di un marchio che assume una determinata forma possa essere tenuto in considerazione, tra gli altri elementi, per accertare uno scostamento dalla norma e dagli usi del settore, purchè tale aspetto estetico sia inteso come richiamante l’effetto visivo oggettivo e inusuale del design specifico del marchio suddetto[10].

Dunque, la presa in considerazione dell’aspetto estetico del marchio mira a verificare se lo stesso sia idoneo a suscitare un effetto visivo e inusuale presso il pubblico di riferimento. Questa sentenza ha chiarito, perciò, che, se è vero che una semplice variante di una delle forme abituali di un prodotto non è sufficiente a stabilire che detta forma non è priva di carattere distintivo, tuttavia ciò non può escludere la possibilità che una “nuova forma” possa avere capacità distintiva.

Orbene, nel caso di specie, la Corte d’Appello motivava nel senso che la nutrita documentazione, non solo pubblicitaria, prodotta dalle appellanti, a sostegno della fama raggiunta dal prodotto di lusso, e dalla sua forma, riconducibile alla Hermès, non è “probante”, in quanto in sostanza, di provenienza della produttrice e non espressione della considerazione dei consumatori e della riconducibilità, da parte dei medesimi, della forma produttrice.

Quest’argomentazione, a scrutinio dei giudici di legittimità, è giuridicamente incomprensibile.

Invero, la possibilità di registrare come marchio anche la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche quanto aventi capacità distintiva, può avvenire anche con investimenti pubblicitari che consentono una vasta commercializzazione del prodotto a una determinata impresa, consentendo l’acquisto (secondary meaning), di capacità distintiva del marchio che ne sia originariamente privo.

La giurisprudenza europea ha ribadito che “ai fini della valutazione dell’acquisizione di un carattere distintivo mediante l’uso, occorre tener conto di fattori come, fra l’altro, la quota di mercato detenuta dal marchio, la frequenza, l’estensione geografica e la durata dell’uso di tale marchio, l’entità degli investimenti effettuati dall’impresa per promuoverlo e la percentuale degli ambienti interessati che identifica, grazie al marchio, il prodotto come proveniente da una determinata impresa”.

La sentenza impugnata, laddove ha affermato che le borse Kelly e Birkin “rispettano nel loro insieme i parametri canonici delle borse normalmente in commercio” e, in altri termini, che le loro forme sono “standardizzate”, risulta apodittica, non essendosi fatta carico di spiegare le ragioni del difetto dell’autonoma capacità distintiva di quelle forme sia originariamente sia alla luce dell’uso e della fama acquisita nel tempo[11].

Tale esito non supera il vaglio di legittimità relativo al parametro normativo di cui all’articolo 9 CPI, alla luce del quale, i giudici di merito avrebbero dovuto accertare la sussistenza delle specifiche e autonome ipotesi di non registrabilità dei marchi di forma ivi previste, mediante separato, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità[12].

La terza censura, fondata, si appunta sull’assunto che nella sentenza impugnata l’unico mezzo di prova della capacità individualizzante e distintiva delle forme delle due borse, presso i consumatori, sarebbe l’indagine demoscopica, tardivamente richiesta dalla Hermès e quindi inutilizzabile, senza possibilità di ulteriori indagini istruttorie.

Ai fini dell’accertamento del secondary meaning, e quindi della prova del conseguimento del carattere distintivo in seguito all’uso del marchio, i dati risultanti dalle indagini demoscopiche costituiscono indizi, non decisivi, che devono essere ponderati quanto al valore dei risultati dei sondaggi di opinione, in relazione alla percentuale e al grado complessivo di attendibilità tecnico scientifica degli stessi, nonché accompagnati da altri indizi gravi, precisi e concordanti.

Ciò premesso, le indagini demoscopiche possono essere compiute dalla parte interessata, ma possono anche essere acquisite dal giudice di merito d’ufficio mediante CTU.

Analogamente, è possibile trarre elementi probatori dal carattere distintivo della forma del marchio nel pubblico dei consumatori da fonti diverse[13].

L’ultimo motivo, sulla violazione e falsa applicazione dell’articolo 2598, n.1 cc, per avere la Corte di merito sostenuto la impraticabilità della tutela per concorrenza sleale, in assenza di tutela della forma come marchio, è assorbito.

In conclusione, la sentenza viene, parzialmente, cassata con rinvio alla Corte d’Appello, per un nuovo esame.

Sarà, dunque, interessante conoscerne i passaggi argomentativi.

Note:

[1] In base alle forme, tra i primi marchi ad essere registrati abbiamo trovato la bottiglia di Coca Cola, la scatola di cioccolatini Toblerone e la bottiglia di whisky Old Parr. Queste forme consentono di ottenere che questi prodotti possano essere distinti tra il mercato dei prodotti concorrenti.

[2] In relazione ai marchi italiani n.882873 e n.1003725 e al marchio comunitario n.002083327, aventi ad oggetto la forma della borsa di Hermès «Kelly», nonché ai marchi italiani n.882872 e n.1003726 e al marchio comunitario n.4467247, aventi ad oggetto la forma della borsa di Hermès «Birkin».

[3] Rispettivamente, “Possono essere in particolare vietati, a norma del paragrafo 2: l’apposizione del segno sui prodotti o sul loro imballaggio; d) l’uso del segno come nome commerciale o denominazione sociale o come parte di essi” e “Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di carattere distintivo e in particolare:

a) quelli che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio;
b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio.

2. In deroga al comma 1 possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo.

3. Il marchio non può essere dichiarato o considerato nullo se prima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità, il segno che ne forma oggetto, a seguito dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato carattere distintivo.

4. Il marchio decade se, per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia comunque perduto la sua capacità distintiva”.

[4] Cass. n.  4771 del 2018.

[5] Appello Milano n. 2478 del 2008 e Tribunale di Firenze n. 300 del 2017

[6] Il fenomeno del secondary meaning si riferisce ai casi in cui il marchio, originariamente sprovvisto di capacità distintiva per descrittività, acquisti tale capacità in conseguenza del suo uso sul mercato.

[7] Cass.,4771/2018.

[8] Art.7, lett.b, Regolamento del Consiglio sui marchi comunitari, n.40/94, analogamente i Regolamenti nn. 207/2009 e 1001/2017.

[9] Tribunale UE, 5/2/2020 T-537/2018.

[10] Tribunale UE, 488/2020.

[11] Cass., sent. 7254/2008.

[12] Cass., 22929 del 2009

[13] Trib. CE T- 414/2007