Il concetto di malafede nel deposito del marchio secondo la giurisprudenza comunitaria

Il concetto di malafede nel deposito del marchio secondo la giurisprudenza comunitaria
La recente decisione della seconda commissione dei ricorsi dell’EUIPO sul marchio BRUSHMO, (decisione del 7 gennaio 2025 nel procedimento Oralic Suppliers Inc. / Tobias Mahir Müller – R 311/2024 -2), fornisce lo spunto per una complessiva ricognizione sulla giurisprudenza comunitaria in materia di deposito del marchio in malafede e, contestualmente, in ordine alla lettura che é stata data, nel tempo, dell’articolo 59 comma 1 lettera b) del RMUE (Regolamento sul marchio dell’Unione Europea), che disciplina tale fattispecie.
La vicenda oggetto di ricorso riguarda il deposito del marchio BRUSHMO in Germania, effettuato da parte di un cittadino tedesco, il signor Tobias Mahir Müller, nel marzo del 2021 e la successiva richiesta da parte di quest’ultimo, avanzata ad agosto dello stesso anno, di concessione del marchio UE sulla base del diritto di priorità, detenuto in virtù del deposito nazionale del proprio segno distintivo.
Le classi di interesse del marchio de quo erano la classe 3 e la classe 21, entrambe afferenti al mondo dell’igiene dentale. Dopo la conclusione dell’iter di pubblicazione del marchio ed in assenza di opposizione da parte di terzi, nel marzo del 2022, il marchio UE veniva concesso al signor Müller.
Tuttavia, a luglio dello stesso anno, la Oralic Suppliers, società statunitense attiva nel medesimo settore dell’igiene orale, depositava richiesta di annullamento del marchio BRUSHMO per presunto deposito in malafede da parte del suo titolare. L’azienda americana asseriva infatti di commercializzare da tempo negli USA ed in alcuni Paesi dell’UE prodotti col medesimo marchio e che, di conseguenza, la sussistenza di siffatto palmare dato di realità non poteva non essere noto al signor Müller.
Oralic sosteneva, inoltre, che il comportamento tenuto dal signor Müller impediva la legittima aspirazione dell’azienda a depositare il marchio all’interno del territorio dell’Unione Europea.
L’azienda statunitense, a riprova della sua tesi, depositava documenti per lo più attinenti ad un uso di fatto del marchio in questione da parte di essa azienda, tanto negli USA, che nell’Unione Europea e nel Regno Unito.
Il signor Müller si opponeva a tale richiesta asserendo di non conoscere il marchio di fatto tanto invocato da Oralic, ed al contempo, contestava la notorietà che, secondo la ricorrente, detto marchio avrebbe avuto negli USA, nell’UE e nel Regno Unito, rilevando che la sua non conoscenza del marchio rendeva del tutto inconfigurabile l’ipotesi di compimento di un’azione in malafede.
Con decisione del dicembre 2023, la divisione annullamento dei marchi dell’EUIPO rigettava il ricorso e confermava la validità del marchio. Alla stessa conclusione è giunta, in data 7 gennaio 2025, la seconda Commissione ricorsi.
Fin qui la vicenda “processuale” conclusasi di recente, la quale, invero, assume rilevante interesse ai fini della nostra ermeneusi, in ragione delle motivazioni che sono poste a fondamento della decisione medesima e del quadro di riferimento rappresentato dalla normativa in essa richiamata.
Il tenore letterale dell’articolo 59 paragrafo 1 lettera b) del RMUE richiamato dalla Commissione EUIPO non è di facile interpretazione in quanto non fornisce dei criteri concreti atti configurare la sussistenza di un’ipotesi concreta di malafede. Infatti, lo stesso articolo afferma semplicemente che vi può essere nullità assoluta del marchio qualora il richiedente abbia agito, al momento del deposito del marchio stesso, in malafede.
Sicuramente l’assenza di ulteriori categorizzazioni ed esempi all’interno della citata normazione impedisce il restringimento del campo all’interno del quale è possibile riscontrare la sussistenza di un’ipotesi di malafede e nel contempo, onera il giudicante della responsabilità di individuare egli stesso gli elementi di riferimento nonché i parametri che possono essere presi in considerazione al fine di garantire una equanimità di valutazione della sussistenza della malafede nei plurimi e differenti casi di indagine.
La decisione oggetto del nostro interesse di analisi - che ha infatti il pregio di richiamare tutti quegli elementi che si sono dipanati nel tempo, unitamente alle diverse pronunce su tutta una pluralità e varietà di casi – permette di individuare il punto di abbrivio per poter effettuare una valutazione puntuale e concreta dei comportamenti identificabili come posti in malafede.
In poche parole la malafede non può essere provata o considerata esistente al di là di ogni legittimo dubbio o difesa.
In primo luogo, per dimostrare la sussistenza della malafede occorre la presenza di una serie di elementi univoci e concordanti. Il che significa che non è sufficiente che colui che deposita il marchio abbia un comportamento potenzialmente scorretto - magari messo in rilievo dalle difese avversarie - ma è additivamente necessario che il richiedente, tanto al momento del deposito che successivamente alla operazione de qua, e, quindi, in periodo anteatto a quello in cui gli viene contestato il deposito in malafede, assuma una serie di comportamenti scorretti.
Soltanto dall’ortodossia o meno di tali comportamenti è possibile desumere una volontà diversa da quella di partecipare in modo leale ed onesto (secondo i principi di correttezza commerciale) alla sfida sul mercato, e, quindi riscontrare la volontà del titolare del marchio di depositare il segno distintivo con finalità di intralcio e di nocumento all’attività di terzi; il tutto, ça va sans dire, additivamente corroborato da un comportamento ostativo.
Nella fattispecie oggetto del decisum considerato, siffatto concetto, in verità, è stato esasperato in modo particolarmente abnorme dalla difesa della ricorrente Oralic, viepiù che il rigetto del ricorso da parte della Commissione pare suggerire che, ai fini di una corretta ermeneusi, occorra verificare in misura assai complessa l’elemento probatorio, giacché è indiscutibile e di tutta evidenza come non possa essere ritenuta esaustiva l’affermazione dell’esistenza di un ostacolo per un attore commerciale a seguito del comportamento di un altro per dimostrare che la condotta di questo ultimo sia per forza in malafede.
In altre parole, l’intenzione del richiedente un marchio è un elemento soggettivo che tuttavia deve essere determinato in modo oggettivo tanto dall’autorità amministrativa che di quella giudiziaria.
E ciò vale soprattutto nella ipotesi in cui venga sollevata un’accusa di malafede nei confronti del titolare di un marchio.
Sul punto la “capostipite” delle decisioni, ossia quella che ha dato il via ad una lunga carrellata di pronunce sul tema, è icasticamente rappresentata dalla sentenza dell’11 giugno 2009 emessa dalla Corte di Giustizia Europea nel caso C-529/2007 Lindt & Spruengli, in cui l’organo giudicante ha diffusamente esaminato, i concetti di “elemento soggettivo” e di “valutazione oggettiva”.
Nel prefato solco giustiziale si pone anche un’altra decisione, sempre della medesima della Corte, ossia la sentenza C- 104/18 emessa nel procedimento Koton Mağazacilik Tekstil Sanayi ve Ticaret AȘ, con cui il Giudice europeo afferma che la domanda di registrazione di un marchio può essere considerata come introdotta in malafede nonostante l’assenza, al momento del deposito di tale domanda, dell’utilizzo da parte di un terzo, nel mercato interno, di un segno identico o simile per prodotti identici o simili.
Nel caso della sentenza Lindt & Spruengli, i soggetti coinvolti facevano parte di un insieme di operatori del medesimo settore merceologico i quali, utilizzavano marchi simili sul mercato dell’UE, mentre nella sentenza appena richiamata, nessun segno era utilizzato, neppure di fatto, nell’ambito del mercato dell’UE.
Entrambi i riferiti decisa sono, però, concordi nel ritenere che, quando venga dimostrato che l’utilizzo, da parte di un terzo, di un segno identico o simile per prodotti o servizi identici ovvero simili, sussista da tempo e può dare la stura a possibili confusioni, è necessario esaminare in via immediata e preliminare, nell’ambito di una valutazione globale delle circostanze pertinenti al caso di specie, se il richiedente il marchio controverso ne sia stato a conoscenza o meno.
L’onere di provare che il soggetto richiedente ha agito in malafede grava su colui che porta avanti la richiesta di annullamento del marchio e deve essere una prova univoca e sufficiente a superare la presunzione di buona fede che accompagna tutti i depositi, come di recente chiarito dal Tribunale UE nel caso T-678/19 noto come Eurosgel.
Ne consegue che la sola “presunzione di conoscenza” derivante dall’appartenenza al medesimo settore, così come l’esistenza di domande di marchio in altre realtà (nel caso di specie gli USA) non sono dunque dirimenti.
Allo stesso modo, lo sfasamento temporale tra il momento del deposito del marchio e l’avvio del suo utilizzo, non viene considerato di per sé un elemento atto a mettere in luce un comportamento commerciale scorretto. Difatti una ipotesi diversa priverebbe di significato l’esistenza di un termine a favore del depositante per l’avvio dell’utilizzo; termine che può essere impiegato per lecite attività prodromiche al lancio commerciale, per attività di organizzazione o per concludere accordi commerciali. La circostanza che il richiedente il marchio contestato possa essersi avvalso del periodo in questione e di conseguenza, all’atto della domanda di annullamento, non sia ancora operativo nell’utilizzazione, non consente di desumere un atteggiamento anticommerciale o una finalità contraria a buona fede. D’altra parte, ove il termine concesso dalla norma venisse superato, non appare revocabile in dubbio che ogni interessato potrà presentare domanda di decadenza (e non di annullamento).
A favore del titolare del marchio oggetto di contestazione va, invece, riconosciuta la circostanza che dopo il deposito nazionale tedesco egli abbia investito economicamente in una estensione UE; il che significa che non ha assunto comportamenti ambigui quali la proposizione di una cessione del proprio marchio a fronte di un controvalore o di una licenza in una forma contestabile; elementi questi ricordati che avrebbero potuto indurre a pensare ad un deposito avvenuto con finalità scorrette e censurabili.
È dunque l’insieme di questi elementi, soggettivi e comportamentali, valutati in modo oggettivo ossia tenendo in considerazione le eventuali prove in senso contrario portate da colui che richiede l’annullamento, che deve essere esaminato in ragione dell’analisi sulla sussistenza (o meno) della malafede all’atto della domanda che di per sé consente di invocare l’applicazione dell’art. 59 paragrafo 1 lettera b) del RMUE.